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2018-08-30
«Liberi» di morire, obbligati a non vivere più
Qui riprendiamo due brevi passaggi da uno degli interventi, quello di Ilora Finley, docente di medicina palliativa e membro della House of Lords, che giudica pericolosa per la pubblica sicurezza la trasformazione della figura del medico prodotta dalle varie procedure eutanasiche.
Ha affermato la Finley: «A differenza delle generazioni precedenti, per le quali la morte era una realtà sempre presente e familiare, ora ci aspettiamo di vivere fino a una vecchiaia matura e rimuoviamo la morte dai nostri pensieri. Una prognosi terminale inaspettata può essere un'esperienza sconvolgente».
È interessante il riferimento alla «familiarità» della morte nelle epoche passate, perché ci offre il primo e più importante spunto di riflessione: l'assuefazione al benessere riduce la forza interiore e quindi la capacità di fronteggiare le situazioni di disagio psico-fisico. Prima si viveva fianco a fianco con la morte, con la sua eventualità, e il pensiero di poter abbandonare tutto da un giorno all'altro era più o meno costante. È il senso del limite che manca all'uomo contemporaneo, il ricordo della sua finitezza; si è abituato ad asservire, mediante la tecnica, la natura che lo circonda e, in parte, la stessa malattia, quindi vorrebbe dominare perfino la morte. Non potendo mai eliminarla, e solo qualche volta ritardarla, crede di esserne padrone uccidendo(si) liberamente. Un atteggiamento, però, che è diffuso soprattutto tra i liberali militanti, e che, come ricorda anche la Finley, non ha un vero riscontro nella generalità della popolazione (nel 2016 i cittadini britannici morti all'estero per aver chiesto la “dolce morte" in condizioni non previste dalla legge inglese erano lo 0,008%).
Un altro importante spunto di riflessione è offerto dall'autrice a proposito della (troppo spesso dimenticata) funzione educativa della norma giuridica: «Non dobbiamo dimenticare che le leggi sono più che semplici strumenti normativi. Mandano anche potenti messaggi sociali. Una legge sulla morte assistita invia il messaggio subliminale, per quanto non voluto dai legislatori, che se siamo malati terminali, eliminare le nostre vite è qualcosa che dovremmo prendere in considerazione».
Se la morte è un «diritto», un interesse protetto dalla legge, allora è un «bene». La morte diventa «il miglior interesse» dell'individuo, come i tragici casi di Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans hanno ampiamente dimostrato. Il malato, l'anziano, il disabile, di fronte al diritto di scegliere la morte, presto o tardi si sentirà in dovere di togliere il disturbo.
Se la morte è un bene, i medici non sono più (soltanto) coloro che «curano»: quando non potranno più garantire una vita efficiente e produttiva, in un corpo sano e bello, avranno il dovere di far morire. La dignità dell'essere umano, in realtà, non è menomata dall'esperienza della malattia, della dipendenza dagli altri e della sofferenza, perché di tutto ciò è strettamente intessuta la vita come la gioia di tutti, nessuno escluso. Illudersi di poterla eliminare con l'eutanasia pone ciascuno a rischio di morte prematura, predeterminata magari da un testamento biologico stilato chissà quando e in quale contesto, nell'esercizio di una falsa libertà.
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The Economist, il celebre settimanale inglese nato per sostenere, in economia, le istanze del liberismo, ha abbracciato, in bioetica, i princìpi del liberalismo. La famiglia ispiratrice rimane la stessa, quella che genera gli inebriati della libertà, come sottolineava un secolo fa l'abbè Augustin Roussel, dicendo che «il liberale è un fanatico dell'indipendenza, la esalta fino all'assurdo, in ogni ambito». Già nel 2015 la linea editoriale si schierò a sostegno di una legge più permissiva in materia di «morte assistita». Oggi, in occasione dei 175 anni dalla sua fondazione, il magazine propone un dibattito tra voci molto eterogenee, provenienti perlopiù dal mondo della medicina e del diritto, che espongono, di volta in volta, posizioni a favore o contro l'eutanasia. Qui riprendiamo due brevi passaggi da uno degli interventi, quello di Ilora Finley, docente di medicina palliativa e membro della House of Lords, che giudica pericolosa per la pubblica sicurezza la trasformazione della figura del medico prodotta dalle varie procedure eutanasiche.Ha affermato la Finley: «A differenza delle generazioni precedenti, per le quali la morte era una realtà sempre presente e familiare, ora ci aspettiamo di vivere fino a una vecchiaia matura e rimuoviamo la morte dai nostri pensieri. Una prognosi terminale inaspettata può essere un'esperienza sconvolgente».È interessante il riferimento alla «familiarità» della morte nelle epoche passate, perché ci offre il primo e più importante spunto di riflessione: l'assuefazione al benessere riduce la forza interiore e quindi la capacità di fronteggiare le situazioni di disagio psico-fisico. Prima si viveva fianco a fianco con la morte, con la sua eventualità, e il pensiero di poter abbandonare tutto da un giorno all'altro era più o meno costante. È il senso del limite che manca all'uomo contemporaneo, il ricordo della sua finitezza; si è abituato ad asservire, mediante la tecnica, la natura che lo circonda e, in parte, la stessa malattia, quindi vorrebbe dominare perfino la morte. Non potendo mai eliminarla, e solo qualche volta ritardarla, crede di esserne padrone uccidendo(si) liberamente. Un atteggiamento, però, che è diffuso soprattutto tra i liberali militanti, e che, come ricorda anche la Finley, non ha un vero riscontro nella generalità della popolazione (nel 2016 i cittadini britannici morti all'estero per aver chiesto la “dolce morte" in condizioni non previste dalla legge inglese erano lo 0,008%).Un altro importante spunto di riflessione è offerto dall'autrice a proposito della (troppo spesso dimenticata) funzione educativa della norma giuridica: «Non dobbiamo dimenticare che le leggi sono più che semplici strumenti normativi. Mandano anche potenti messaggi sociali. Una legge sulla morte assistita invia il messaggio subliminale, per quanto non voluto dai legislatori, che se siamo malati terminali, eliminare le nostre vite è qualcosa che dovremmo prendere in considerazione».Se la morte è un «diritto», un interesse protetto dalla legge, allora è un «bene». La morte diventa «il miglior interesse» dell'individuo, come i tragici casi di Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans hanno ampiamente dimostrato. Il malato, l'anziano, il disabile, di fronte al diritto di scegliere la morte, presto o tardi si sentirà in dovere di togliere il disturbo. Se la morte è un bene, i medici non sono più (soltanto) coloro che «curano»: quando non potranno più garantire una vita efficiente e produttiva, in un corpo sano e bello, avranno il dovere di far morire. La dignità dell'essere umano, in realtà, non è menomata dall'esperienza della malattia, della dipendenza dagli altri e della sofferenza, perché di tutto ciò è strettamente intessuta la vita come la gioia di tutti, nessuno escluso. Illudersi di poterla eliminare con l'eutanasia pone ciascuno a rischio di morte prematura, predeterminata magari da un testamento biologico stilato chissà quando e in quale contesto, nell'esercizio di una falsa libertà.
«The Hunting Wives» (Netflix)
Sophie O’Neill credeva di aver raggiunto lo status che più desiderava, quando, insieme al marito e al figlio, ha lasciato Chicago, la sua carriera, tanto invidiabile quanto fagocitante, per trasferirsi altrove: in un piccolo paesino del Texas, una bella casa nel mezzo di una comunità rurale, pacifica, placida. Credeva di aver scelto la libertà. Invece, quel nuovo inizio così atipico, lontano dai rumori della città, rivela ben presto altro, la noia, la ripetitività eterna dell'uguale. Sheila si scopre sola, triste, annoiata, di una noia che solo Margot Banks, socialite parte di una cricca segretamente conosciuta come le Mogli Cacciatrici, sa combattere. Sono i suoi rituali segreti, le feste, i ritrovi di queste donne a ridestare Sheila, restituendole la voglia di vivere che pensava aver lasciato nella ventosa Chicago. Sheila è rapita da Margot, e passa poco prima che la relazione delle due diventi qualcosa più di una semplice amicizia: un amore figlio della curiosità, della volontà di sperimentare quel che in gioventù s'è tenuto lontano. Il tutto, però, all'interno di una comunità che questo tipo di relazioni dovrebbe scongiurare. C'è il Texas repubblicano e conservatore, a far da sfondo alla serie televisiva, costruita - come il romanzo - a mezza via tra due generi. Da un lato, il dramma, l'intrigo amoroso. Dall'altro, il giallo, scoppiato nel momento in cui il corpo di un'adolescente viene trovato senza vita nell'esatto punto in cui sono solite ritrovarsi le Mogli Cacciatrici.
Allora, le strade narrative di Nido di vipere divergono. Sheila è colta nelle sue contraddizioni, specchio di una società di cui l'autrice e gli sceneggiatori cercano di cogliere l'ipocrisia. La critica sociale prosegue insieme al racconto privato di questa mamma di Chicago, coinvolta, parimenti, in un'indagine di polizia. Nega, Sheila, cerca di provare la propria innocenza. Ma il giallo fa il suo corso, e non è indimenticabile quel che è stato scritto: la storia di Sheila, il suo dramma di donna, colto tanto nell'esistenza individuale quanto in quella collettiva, non sono destinata a riscrivere le sorti della serialità televisiva. Eppure, qualcosa affascina in questa serie tv, passatempo decoroso per le vacanze imminenti.
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Ecco #DimmiLaVerità del 19 dicembre 2025. Ospite la vicecapogruppo di Fdi alla Camera Augusta Montaruli. L'argomento del giorno è: "Lo sgombero del centro sociale Askatasuna di Torino".