2020-12-18
Liberati i pescatori dopo 108 giorni. E Casalino monta un reality show
Il portavoce di Chigi geolocalizzato all'aeroporto di Bengasi. Lui però nega: «Colpa del cellulare». Decisivi per la scarcerazione i voli in Cirenaica del capo dell'Aise. I prigionieri torneranno a Mazara con i pescherecci.Avarie ai motori permettendo, i 18 pescatori di Mazara del Vallo, sequestrati l'1 settembre al largo di Bengasi, rientreranno con i loro pescherecci in Italia in un paio di giorni. Per ottenere la loro scarcerazione, dopo 108 giorni di prigionia, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sono dovuti volare fino a Bengasi per incontrare il tenente generale Khalifa Haftar, capo dei miliziani che controllano la Libia orientale. Una richiesta esplicita, quella di Haftar, dal notevole peso politico. La svolta è arrivata solo dopo diversi viaggi in Libia del direttore dell'Aise, il servizio di sicurezza che si occupa di minaccia estera, generale Gianni Caravelli, che da anni è in contatto con Haftar. L'incontro è avvenuto in un luogo che fino agli ultimi istanti era conosciuto solo dagli addetti ai lavori. Dopo le rassicurazioni di Haftar sulla scarcerazione immediata, però, le notizie sono cominciate a filtrare in modo abbondante e in tempo reale. Con Conte era partito anche il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, che a un certo punto deve essersi geolocalizzato con il suo telefono cellulare, visto che gli esperti di queste operazioni delicate si sono detti costernati, perché i giornalisti più accorti hanno capito dove si è tenuto l'incontro. In serata, Casalino nega tutto e dà la colpa a un problema tecnico del suo cellulare. Le foto diffuse alle 12.15, comunque, avevano subito tranquillizzato tutti sullo stato di salute dei pescatori. La prima, in posa al molo, con i pescherecci alle spalle. La seconda, con i pollici in alto sulla motopesca, accanto a un salvagente. La terza, con accennati sorrisi, su un bus. Il Medinea e l'Antartide sono pronti a ripartire dal punto preciso in cui erano stati attraccati a settembre, quando è cominciato questo intrigo internazionale pieno di colpi di scena. Ovvero quando, l'1 settembre, i pescatori italiani hanno buttato le reti nell'area a 74 miglia da Tripoli, indicata dalle autorità come zona di pesca esclusiva. Insieme ai quattro pescherecci partiti da Mazara c'è anche una piccola motovedetta del generale Haftar. Mancano pochi minuti alle 21 quando i libici mettono in mare un gommone con due miliziani armati. In pochi istanti sono a ridosso dei pescherecci. Sparano in aria e si fanno consegnare i comandanti. Poi ordinano agli equipaggi dell'Antartide e del Medinea, al capitano dell'Anna Madre e al primo ufficiale del Natalino di Pozzallo (questi due pescherecci però vengono lasciati liberi di rientrare), di seguirli a Bengasi. E siccome i miliziani non hanno uomini a sufficienza per prendere completamente il controllo dei pescherecci, gli equipaggi sono liberi di comunicare e lanciano un Sos. A Roma, al Centro di coordinamento del soccorso in mare della Guardia costiera, l'allarme arriva alle 21.26. Il primo torpediniere riceve l'input di muoversi alle 21.35. Da quel momento le famiglie di otto italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi restano con il fiato sospeso. I loro cari finiscono in una caserma di Bengasi. Sono Karoui Mohamed, Daffe Bavieux, Ibrahim Mohamed, Pietro Marrone, Onofrio Giacalone, Mathlouthi Habib, Ben Haddada M'hamed, Jemmali Farhat, Ben Thameur Lysse, Ben Thameur Hedi, Moh Samsudin, Giovanni Bonomo, Michele Trinca, Vito Barraco, Salvo Bernardo, Fabio Giacalone, Giacomo Giacalone e Indra Gunawan. Per 108 giorni l'atmosfera a Mazara del Vallo è rimasta sospesa. E la rabbia è cresciuta sin dalle prime ore. Anche perché, secondo i familiari dei pescatori, la nave militare italiana che era a poca distanza non sarebbe intervenuta per tentare un salvataggio. Le prime notizie arrivate dalla Libia, poi, hanno gelato chi ancora sperava in una soluzione lampo: i pescatori sono in stato di fermo. L'accusa: hanno sconfinato in acque libiche, secondo le guardie militari di Bengasi che non riconoscono i limiti imposti dalla legge internazionale. Il contesto è quello di una nazione in guerra. Haftar da una parte, Fayez Al Serraj, a capo del governo riconosciuto, dall'altra. La coincidenza: il sequestro avviene all'indomani di un viaggio istituzionale di Di Maio, atterrato in Libia per fare da garante a un accordo tra Al Serraj e il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh. Una mossa che dagli oppositori viene letta come un tentativo di tagliare fuori Haftar (che ora deve essersi preso la rivincita). Fatto sta che da quell'istante è solo la Farnesina a comunicare con i familiari. Si sa che i detenuti sono in buone condizioni di salute. Ma nessuno, fino a quel momento, è mai riuscito a stabilire un canale diretto di comunicazione. E quella sullo stato di salute non è l'unica notizia che arriva dalla Libia. Si sa anche che tra le accuse contestate ai 18 pescatori c'è il traffico di droga. C'è una telefonata, partita dal carcere di El Kuefia, a 15 chilometri da Bengasi, che risale al 16 settembre: «Ci accusano che hanno trovato droga a bordo», si sente dire nella registrazione della conversazione. Alcuni giorni dopo saltano fuori le foto di alcuni involucri disposti su due file a terra, proprio davanti a una nave che ha il nome Medinea. Un'altra foto colloca gli involucri all'interno della nave. Sullo sfondo sono ben visibili alcune cassette per contenere il pesce. Ai familiari dei rapiti appare subito come una «costruzione» per incastrare i pescatori. E mentre indiscrezioni parlano di un processo in Libia, e di una possibile data, il 20 ottobre, a Roma la Procura di Piazzale Clodio apre un fascicolo iscrivendolo al modello 45, ovvero senza ipotesi di reato e senza indagati. Tra smentite e mezze conferme prende anche piede, perché lanciata dai giornali libici, una richiesta: in cambio del rilascio dei pescatori, il governo di Haftar vorrebbe la scarcerazione di tre presunti calciatori arrestati secondo i libici per errore e accusati di aver ucciso 49 persone rinchiuse nella stiva di una nave nella cosiddetta strage di Ferragosto del 2015. Da quel momento parte il negoziato. A 70 giorni dal rapimento c'è un volo dell'intelligence italiana a Bengasi. La trattativa si intensifica. Caravelli e i suoi 007 fanno avanti e indietro dalla Libia. Un mese dopo i pescatori sono liberi di tornare a casa.