2018-09-24
«Lezioni di patria» in classe per evitare di crescere una generazione di sradicati
Oggi «nazionalismo» è diventato sinonimo di «fascismo». Ma insegnare l'amore per la propria terra è il primo modo per non avere giovani neutri e manipolabili. Qualche giorno fa, il presidente della Repubblica ha pronunciato una frase che molti giornali hanno sfruttato per alimentare la consueta polemica antigovernativa. «Io sono avanti negli anni», ha detto Sergio Mattarella, «sono nato durante i bombardamenti e, forse per questo, mi è rimasta un'innata diffidenza, e un'innata idiosincrasia verso qualunque pericolo di nazionalismo e di guerre». Sono parole molto pesanti, che meritano una riflessione profonda. Il presidente ha ripetuto un ragionamento che va per la maggiore: nazionalismo è sinonimo di guerra. È un'idea, questa, fin troppo diffusa. L'amor patrio è divenuto sinonimo di fascismo, la difesa del territorio è considerata l'anticamera del razzismo, ogni richiamo alla nazione è immediatamente osteggiato (o irriso). Già solo la parola «patria» suona vetusta. È fuori moda, anticaglia. Per anni ci hanno spiegato che bisognava aprire le frontiere e abbattere i confini, perfino quelli linguistici. Il risultato è che oggi, se ci si imbatte in qualcuno che abbia una minima padronanza della lingua italiana, viene voglia di stringerlo e proteggerlo come un animale in via d'estinzione. L'inglese si è infiltrato in ogni pertugio: ovunque si vedono cartelloni pubblicitari con slogan anglosassoni. I termini inglesi stanno colonizzando e creolizzando la nostra lingua.Ci siamo totalmente piegati - per ragioni di praticità e di efficienza, insomma per un motivo economico - al predominio della neolingua commerciale. Eppure resta vero ciò che sosteneva lo scrittore americano Wendell Berry, e cioè che «saremo in grado di capire il mondo, e di conservare al suo interno noi stessi e i nostri valori, soltanto fino a che possederemo un linguaggio pronto e reattivo nei suoi confronti». Bene, questo linguaggio ce lo stiamo facendo sottrarre da sotto il naso, ormai da troppo tempo.Da un lato ci dedichiamo con perizia a smantellare il nostro patrimonio linguistico e culturale. Dall'altro inculchiamo nei ragazzi la necessità di accogliere l'altro e di rispettare ossequiosamente tutte le sue esigenze. «Inclusione», ci vuole. Nonostante, con il nuovo governo, il vento sia cambiato, certi vizi rimangono duri da estirpare. Si possono fare leggi e decreti, ma se non si cambia mentalità, ogni sforzo legislativo, a lungo termine, si rivelerà inutile. Se fossimo minimamente intenzionati a proteggere il nostro patrimonio - umano e intellettuale -dovremmo avere una sola «priorità nazionale». Quella di trasmettere agli studenti, fin da piccoli, un briciolo di amor patrio. Dovremmo rompere quel legame ribadito pure da Mattarella tra nazionalismo e guerra, tra orgoglio nazionale e violenza. Sì, dovremmo fare «lezione di patria» in classe. Spiegare ai giovani, ai bambini persino, che amare il Paese in cui sono nati e cresciuti non è cosa da biechi reazionari. Che l'Italia merita (anche) di essere amata, rispettata e protetta. Ma non lo facciamo. Dalla musica alla letteratura, sacrifichiamo tutto sull'altare dell'efficienza produttiva. Si parla di patria, e subito qualcuno s'indigna per lo sventolio dei gagliardetti. È una malattia, questa, e particolarmente grave. Roger Scruton l'ha chiamata oikofobia, e consiste in una raffinata quanto pericolosa forma di odio di sé. Non si tratta, badate bene, di insegnare agli studenti a presidiare i confini e ad affondare i barconi dei clandestini. L'amor patrio diffuso avrebbe anche altri effetti. Ci si lamenta in continuazione, tanto per fare un esempio, della diffusione endemica della corruzione nel nostro Paese. Forse, se invece di sfiancarle con lezioncine mortifere sui «valori della legalità», avessimo insegnato alle nuove generazioni ad aver cura della loro terra - della loro casa - ci sarebbero meno funzionari corrotti, meno manager infedeli. Ci sarebbe un po' più di rispetto per la cosa pubblica. Ma da una generazione di sradicati, che cosa possiamo aspettarci?Sarebbe bello leggere nelle classi il bel saggio di Simone Weil intitolato La prima radice. «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima umana», scrive la filosofa. «Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all'esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l'essere umano ha una radice».E dove ci si radica «naturalmente» se non nella patria? Ciò non significa chiudersi a ogni influenza esterna. «Un determinato ambiente», scriveva ancora la Weil, «dev'essere influenzato dall'esterno, non per essere arricchito, ma per essere stimolato a rendere più intensa la propria vita. Deve nutrirsi degli apporti esterni soltanto dopo averli assorbiti». Negli ultimi decenni, tutto è stato fatto pur di reciderla, questa «prima radice». Tutto è stato fatto pur di creare giovani senza patria, pronti a spostarsi alla bisogna, sempre disponibili, mobili, neutri, disinteressati alle sorti del loro Paese e concentrati soltanto sulla riuscita personale. È il momento di invertire la rotta.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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