
Per il radicale e Mina Welby il fatto non sussiste. Primi effetti sulla giurisprudenza della sentenza della Consulta. Il Pd esulta: «Ora accelerare in Parlamento».Il fatto non sussiste: Mina Welby e Marco Cappato sono stati assolti dalla Corte d'assise di Massa. Erano finiti alla sbarra per aver accompagnato a morire in una clinica elvetica, nel 2017, Davide Trentini, cinquantatreenne affetto da sclerosi multipla. L'accusa, per la moglie di Piergiorgio (attivista pro eutanasia, morto nel 2006 a seguito del distacco del respiratore) e per il copresidente dell'associazione Luca Coscioni, era di aiuto al suicidio. Reato che la Corte costituzionale, a settembre 2019, in parte abrogò, spalancando le porte del nostro ordinamento alla «dolce morte».Invero, nemmeno la Procura della città toscana pareva credere a questo processo - come già le toghe dell'accusa, che avevano trascinato in aula Cappato per la vicenda di dj Fabo. Il pm, Marco Mansi, aveva proposto che fosse applicata una pena di 3 anni e 4 mesi, con una requisitoria insolitamente remissiva: «Chiedo la condanna, ma con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge». In effetti, nonostante il pronunciamento della Consulta, «il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai nobili intenti» degli imputati. «È stato compiuto un atto nell'interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare». Un magistrato costretto a compiere il suo dovere, controvoglia e contro coscienza. I giudicanti hanno tolto il pm dall'imbarazzo, assolvendo i due imputati. Quel richiamo all'«interesse» del malato ricorda drammaticamente la formula con cui i magistrati britannici hanno imposto l'infanticidio di Charlie Gard e Alfie Evans. Né il cuore degli inglesi né lo scettro del re, per citare Fabrizio De André, riuscirono a salvare i bimbi da giudici che li volevano morti nel loro «miglior interesse». L'ha scampata, invece, Tafida Raqeeb, 5 anni, accolta dal Gaslini di Genova e tenacemente attaccata alla vita.Con la sentenza del settembre 2019 (depositata due mesi dopo), la Corte costituzionale, guidata da una presidente formalmente cattolica come Marta Cartabia, aveva stabilito la non punibilità di Cappato ai sensi del reato di aiuto al suicidio (articolo 580 del Codice penale). Purché, precisavano le toghe, fosse garantito il rispetto «delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua». E purché fosse assicurata la «verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente». A ben vedere, l'attivista radicale, che pure fu assolto nel processo sulla morte di Fabiano Antoniani, aveva violato tutte queste condizioni. Quanto al consenso informato, non c'è garanzia che le strutture svizzere rispettino gli standard richiesti dalla legislazione italiana: lo dimostra la tragedia, scoperchiata dalla Verità, di Alessandra Giordano, colpita da depressione e soppressa nel Paese elvetico. E di sicuro, sul caso di dj Fabo, il Ssn non aveva mai infilato neppure la punta del naso.Ora, la storia si ripete: abbiamo Cappato (e la signora Welby) che accompagnano un uomo malato e disperato a porre fine alla sua vita in Svizzera, denunciandosi ai carabinieri di Massa subito dopo; abbiamo un reato che si consuma, come riconosce, suo malgrado, il pm di Massa; vediamo il sistema sanitario italiano escluso da ogni valutazione; eppure, tutto si conclude con l'assoluzione degli imputati.La decisione della Consulta ha aperto una breccia nell'ordinamento: il reato di aiuto al suicidio rimane sulla carta, però le Corti ormai premiano i «nobili intenti» dei fan dell'eutanasia. I quali inneggiano persino alla reiterazione del crimine: «Rifarei esattamente quello che ho fatto», ha scritto Cappato su Twitter. «Tornerei in Svizzera anche domani», ha rincalzato Mina Welby.Puntuali, gli avvoltoi del Pd ne hanno approfittato per rilanciare una legge sull'eutanasia. Andrea Marcucci, capogruppo dem in Senato, «contento dell'assoluzione», ha stigmatizzato «il ritardo intollerabile» del Parlamento «nel legiferare sul fine vita». Lo capiamo: la cultura della morte è uno dei pochi collanti in grado di tenere insieme lo scricchiolante pateracchio giallorosso.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.