
All'origine del fiasco, il pallino del vincolo esterno e le regole comunitarie elefantiache, che rallentano le scelte cruciali. Ma l'Italia soffre pure di un deficit democratico: il Parlamento esautorato (con il placet del Quirinale).Il seguito del Consiglio europeo ricorda da vicino la Casa delle libertà di Corrado Guzzanti: ognuno fa un po' quello che gli pare. O almeno lo dice. L'ex premier e commissario Ue, Paolo Gentiloni, usa per esempio la tattica delle basse aspettative: «Vertice europeo di oggi aveva un obiettivo: evitare No insormontabili sulla proposta della @EU_Commission. Obiettivo raggiunto. #NextGenerationEU procede», twitta con understatement. Anche voler guardare un ipotetico bicchiere mezzo pieno, però, procura frustrazioni: perfino un Giuseppe Conte che incassa il «passo avanti» derivante dalla maturazione del «giusto clima» è costretto a spostare in là nel tempo qualche risultato concreto.Il nostro premier trae motivo di conforto dal fatto che il Recovery fund sarà inserito all'interno del Quadro finanziario pluriennale, cioè del bilancio Ue del prossimo settennato. La cosa in realtà pareva scontata: tutto dipende dalla portata di questo bilancio (di cui restiamo contribuenti netti, fino a prova contraria) e dai criteri di distribuzione che queste risorse avranno (prestiti? Finanziamenti? In che quota?). Di questi «dettagli» non si sa nulla perché non c'è accordo. Per Conte, però, «non ci saranno Paesi che hanno vinto o perso, vincerà l'Europa». Qui inizia una serie di pernacchie politiche a cui la versione italiana del Consiglio viene sottoposta. Il premier accenna addirittura alla «possibilità» di un «modesto anticipo» di questi fondi già nel 2020. Ipotesi che Angela Merkel commenta così: «Non credo che si possano versare i fondi già quest'anno». Come spiegato a pagina 2, sostanzialmente ieri - in un giro di tavolo che fonti descrivono come molto teso e di scontro - si è registrato l'ovvio, ovvero che serve un negoziato durissimo per costruire il perimetro di un allargamento del bilancio Ue (da finanziare con nuove tasse) la cui redistribuzione pare al momento un'incognita talmente ampia da legittimare i dubbi su un esito favorevole. Gentiloni può anche non vedere «no» insormontabili, ma ieri il blocco ostile a veicoli diversi dai prestiti (cioè ostile a quelle che impropriamente vengono chiamate erogazioni a fondo perduto) si è ampliato con la discesa in campo della Finlandia accanto ai quattro cosiddetti «frugali», tra i quali l'Olanda, il cui premier Mark Rutte si è speso in un elogio dell'Italia difficile da non leggere come una beffa. Le probabilità che si raggiunga un accordo nel mese di luglio sono dunque scarse, ma presenti, e legate alla necessità di Angela Merkel e, in subordine, di Emmanuel Macron, di incassare un risultato, qualsiasi esso sia. Chi, come l'Italia, è partito con entusiasmo inspiegabile sembra essersi bruciato il terreno per un effettivo gioco negoziale. Al netto del giudizio sulla linea tenuta da Conte e dai ministro coinvolti, lo stallo che ieri emergeva persino nei resoconti delle fonti abitualmente più ottimiste impone almeno due riflessioni.La prima, più generale, riguarda il vincolo esterno, abbracciato nei suoi fondamenti politici da questo esecutivo: l'affidarsi a un complesso di poteri e decisori estranei al perimetro di consenso nazionale come fonte certa di provvedimenti utili al Paese conosce con la pandemia uno dei banchi di prova più deludenti. La silenziosa corsa, prima ridicolizzata poi rivendicata dal Mef, ad aumentare le aste di titoli per approvvigionarsi ne è uno dei segnali particolari. Ma è tutto il sistema europeo, a parte la garanzia inevitabilmente offerta dalla Bce, ad apparire drammaticamente inadeguato alla negoziazione rapida di interessi nazionali divergenti e al sostegno concreto di 27 Paesi messi in ginocchio dal Covid-19. Tanto che chi sta rispondendo meglio lo sta facendo da solo, senza l'attesa quasi eucaristica che molti paiono qui riporre negli strumenti del «pacchetto» europeo. Anzi, a cominciare dalla Germania, lo sta facendo sfasciando le regole europee. La pressione culturale e politica del vincolo esterno, del resto, produce un decadimento del processo decisionale interno, gravato da una presunzione di sfiducia nella governabilità e nell'efficacia democratica che, neppure troppo paradossalmente, si autorealizza.La seconda considerazione è più legata, appunto, alla questione stessa della democrazia. Dalle dichiarazioni post Consiglio è di fatto impossibile conoscere la posizione negoziale italiana (mentre, nel merito, quella di chi si oppone al Recovery fund è chiara e ribadita). Ciò non è dovuto solo all'ambiguità del premier, ma a una precisa scelta politica obiettivamente contraria alla legge: quella di non fare votare il Parlamento prima di questo vertice, con l'aggravante di averlo descritto come non decisivo e informale, cosa smentita dallo scontro che si è palesato ieri. Comunque vadano le cose di qui in avanti, è una ferita per tutto il Paese e per il meccanismo della rappresentanza, che purtroppo ha avuto il pieno avallo da parte del capo dello Stato, il quale ha ricevuto la delegazione del governo prima del Consiglio Ue. Difficile non registrare quindi anche una sconfitta per lo stesso Mattarella, che si era speso invocando «risposte rapide e concrete sui fondi».Per quanto diversa e minore, c'è un'altra decisione presa ieri che sottolinea, nel metodo, un problema di natura simile. Da anni la politica italiana riflette sui danni per il nostro Paese derivanti dalle sanzioni contro la Russia. Più volte il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha invocato un ripensamento. Ieri il Consiglio dell'Unione ha deliberato una proroga di sei mesi alle sanzioni. Non si registra una posizione divergente dell'Italia.
Ansa
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(IStock)
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