2019-03-18
I paradisi fiscali di casa nostra. L'Europa fa sparire 200 miliardi
Dall'Olanda a Malta, dall'Irlanda al Lussemburgo di Jean Claude Juncker. Questi Stati ci fanno la morale sugli immigrati e la manovra, ma con accordi fittizi e trucchetti giuridici corteggiano le società che privano l'erario delle nazioni di milioni e milioni di risorse.Lo studioso Niels Johannesen: «Per una riforma, a Bruxelles serve il consenso di ciascun membro dell'Ue. Ma far pagare le aziende si può: spostare sempre fabbriche e lavoratori è impossibile».Lo speciale contiene due articoliScordatevi dei paesaggi tropicali, delle cassette di sicurezza e dei viaggi intercontinentali con le mazzette di banconote avvolte al nastro isolante sotto i vestiti. Al giorno d'oggi, nella scala geografica della globalizzazione, i paradisi fiscali si trovano letteralmente dietro l'angolo. Secondo un rapporto pubblicato proprio in questi giorni e commissionato dalla Tax3, la Commissione speciale del Parlamento europeo per i crimini fiscali, l'evasione e l'elusione fiscale, sono ben sette i Paesi dell'Unione europea che presentano i «tratti distintivi di un paradiso fiscale e promuovono una politica fiscale aggressiva». Di questo esclusivo club fanno parte Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Cipro e Ungheria. Nel saggio La ricchezza mancante delle nazioni, pubblicato a giugno del 2018, il team guidato dal professor Gabriel Zucman dell'Università di Berkeley stima che solo i primi cinque sottraggano ogni anno una base imponibile di circa 207 miliardi di euro, un importo pari a circa dieci volte una normale legge di bilancio italiana. Le tasse che derivano da questo tesoretto, anziché rimpolpare i bilanci dei Paesi di origine, vengono distratte altrove.Per le grosse corporation vale il principio del «piatto ricco, mi ci ficco». D'altronde, lo scopo principale di un'azienda è quello di massimizzare il profitto. Uno degli obiettivi strategici, perciò, è quello di studiare a tavolino meccanismi (e rintracciare luoghi) che consentano di pagare meno tasse possibili. Gli Stati «furbetti» vengono incontro a questa esigenza offrendo regimi fiscali agevolati, et voilà, il gioco è fatto. Ecco spiegato il motivo per cui negli ultimi decenni un lungo elenco di giganti della tecnologia, della finanza, dell'industria automobilistica e del petrolio (tanto per citare qualche settore) ha scelto di spostare la propria sede legale altrove. Prendiamo i Paesi Bassi, sempre in prima linea quando si tratta di predicare austerità e rigore di bilancio. Wopke Hoekstra, ministro delle Finanze olandese, ha criticato aspramente sin dall'inizio la manovra italiana, sollecitando l'apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese anche durante l'ultimo Eurogruppo svoltosi pochi giorni fa. Sulla carta, l'imposta sulle imprese è in linea rispetto al resto d'Europa. Le aziende che generano profitti inferiori ai 200.000 euro pagano il 20%, mentre a quelle che superano tale cifra viene applicata un'aliquota del 25%. Il «trucchetto» consiste nella possibilità concessa dal governo alle multinazionali di sottoscrivere condizioni fiscali stracciate. Questi protocolli godono di assoluta riservatezza, ma debbono risultare estremamente convenienti se molti colossi mondiali hanno deciso negli ultimi anni di stabilire un proprio quartier generale nel Paese dei tulipani. Le stime di Zucman parlano chiaro: ogni anno i Paesi Bassi distraggono profitti per 57 miliardi di dollari (circa 50 miliardi di euro). Come se non bastasse, il governo olandese ha messo su in questi anni un meccanismo battezzato «innovation box», un regime ultra agevolato (5% contro il 20-25% ordinario) sui profitti che derivano da ricerca e sviluppo e dall'innovazione. Un singolare primato detenuto dai Paesi Bassi è quello che riguarda una particolare categoria di shell companies (letteralmente «aziende conchiglia»), quello delle società «bucalettere», imprese fantasma che stabiliscono in questo Stato solamente la sede legale.Determinare il numero di queste entità è impossibile, ma stando ai dati di uno studio condotto nel 2018 per conto del Parlamento europeo, può bastare sapere che i Paesi Bassi detengono il primato di flussi esteri in entrata (3.300 miliardi di euro, pari al 535% del Pil) e in uscita (e 3.900 miliardi di euro, pari al 633% del Pil). Nel club degli aficionados del regime olandese è l'americana Nike a meritare di diritto un posto in prima fila. Come documentato nei Paradise papers, la raccolta di oltre 13 milioni di documenti relativi a investimenti offshore, l'accordo decennale firmato nel 2006 con il governo locale ha permesso di accumulare fino al 2014 profitti per 6,6 miliardi di dollari praticamente esentasse, anche grazie a una triangolazione con una sussidiaria delle Bermuda. Con l'approssimarsi della scadenza dell'accordo, i vertici di Nike hanno creato una nuova sussidiaria olandese, la Nike innovate cv, sfruttando una forma giuridica equivalente alla nostra società in accomandita semplice. Nell'ordinamento dei Paesi Bassi queste società risultano di proprietà di partner esteri, e perciò non sono soggette a tassazione, mentre all'estero vengono riconosciute come società straniere e perciò non viene loro richiesto il pagamento di alcuna imposta. Un fenomeno chiamato «discrepanza ibrida», e che di fatto consente all'impresa che ne beneficia di pagare zero tasse. Complessivamente, si calcola che Nike abbia camuffato una base imponibile di 12 miliardi di dollari, riuscendo a portare la propria percentuale di tassazione dal 34,9% al 13,2% del 2017. Lo scorso gennaio, la Commissione europea ha aperto un'inchiesta per stabilire se queste pratiche si possano configurare come aiuto di Stato. Nel sistema olandese sono finite, tra le altre, l'americana Starbucks (firmataria di un accordo agevolato nel 2014), le band musicali U2 e Rolling Stones e la svedese Ikea (accusata dall'Ue di aver risparmiato 1 miliardo di euro).Se nel presente Amsterdam fa la parte del leone, non si può negare che la storia dei paradisi fiscali in Europa sia stata scritta a Dublino. L'Irlanda ha dalla sua una corporate tax estremamente bassa (12,5%), che da sempre la rende appetibile per le grandi firme. Grazie a un generoso sistema di deduzioni e detrazioni, la percentuale effettiva scende però all'incirca al 4%. Secondo le stime del professor Zucman, l'Irlanda è il Paese che distrae la maggior quantità di profitti (circa 96 miliardi di euro l'anno). Tra i big che hanno scelto di mettere radici nell'isola verde troviamo Apple, Google, Microsoft, Facebook, Oracle, Pfizer e Merck. Il caso più eclatante è rappresentato dall'azienda fondata da Steve Jobs. Nel 2016, la Commissione europea ha stabilito che regime fiscale agevolato concesso da Dublino poteva configurarsi come aiuto di Stato, decretando la restituzione di 13,1 miliardi di euro. Sia il governo sia Apple hanno giudicato senza fondamento le accuse di Bruxelles, presentando ricorso alla Corte di giustizia europea.Brutte sorprese anche dal Lussemburgo, che giusto ieri il Corriere della Sera glorificava come «baluardo dell'europeismo» e «cuore degli affari». Già: nella patria di Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea, un personaggio che da quando si è insediato il governo gialloblù non ha perso occasione per attaccare il nostro Paese, di affari se ne fanno tanti. Proprio quando Juncker si trovava a capo del governo del Granducato, si consumava uno dei più grandi scandali finanziari di tutti i tempi, noto come Luxleaks. Centinaia di sweetheart deals (letteralmente «contratti fasulli», ndr), accordi di pagamento agevolati autorizzati direttamente dall'esecutivo. Anziché diminuire, come evidenzia il network Eurodad, dal 2013 al 2015 questo tipo di accordi è aumentato del 50%, passando da 199 a 519. Tra i beneficiari troviamo Amazon, azienda alla quale la Ue ha intimato nel 2017 la restituzione di 250 milioni di euro di aiuti di Stato. Per la reticenza a fornire informazioni, il Lussemburgo è considerato oggi il sesto Paese con la più elevata segretezza finanziaria nel mondo, primo in Europa.Chiudiamo la carrellata con Malta, Paese schizzinoso quando si parla di migranti ma non quando c'è da spalancare la porta le multinazionali. Formalmente, la tassa sulle imprese è piuttosto alta (35%), ma grazie a un complesso sistema di compensazione l'aliquota può scendere tra lo 0% e il 5%. Secondo Oxfam, il permissivo regime fiscale maltese ha permesso a Vodafone di dividere il 40% dei propri profitti totali tra Malta e Lussemburgo. Stando ai numeri di uno studio commissionato dal gruppo dei Verdi europei, dal 2012 al 2015 Malta ha distratto profitti per 14 miliardi di euro. È per questo che diverse istituzioni, tra le quali la stessa Oxfam, chiedono da tempo che l'isola venga inserita nella blacklist dei paradisi fiscali Ue.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/leuropa-dei-furbetti-i-paradisi-fiscali-dello-stato-accanto-fanno-sparire-210-miliardi-di-tasse-2631940418.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-paesi-sleali-combatterli-diventa-sempre-piu-difficile-per-colpa-del-mercato-unico" data-post-id="2631940418" data-published-at="1758085420" data-use-pagination="False"> «I Paesi sleali? Combatterli diventa sempre più difficile per colpa del mercato unico» Ogni anno flussi immensi di capitali transitano da un capo all'altro del pianeta e centinaia di miliardi di profitti vengono distratti dai legittimi mercati di appartenenza per essere dirottati verso i paradisi fiscali. La comunità internazionale tenta di arginare questo fenomeno mettendo a punto strategie sempre più efficaci. Ne abbiamo parlato con Niels Johannesen, professore del dipartimento di Economia dell'Università di Copenhagen e autore di numerose pubblicazioni sul fenomeno dell'erosione fiscale. Professore, di recente il Parlamento europeo ha messo nero su bianco che sette membri dell'Ue si comportano in tutto e per tutto come dei paradisi fiscali. «Questi Paesi riescono a offrire aliquote reali estremamente basse grazie all'utilizzo di schemi molto sofisticati. Inoltre, spesso fungono da trampolino di lancio per il trasferimento di profitti realizzati da aziende che hanno sede nell'Ue verso paradisi fiscali offshore. L'Italia può anche avere le migliori norme antielusione, ma se i capitali transitano per un Paese dell'Unione (prendiamo ad esempio il Lussemburgo), la legge nazionale non si applica. Peggio ancora, l'Italia non può fermare il flusso di capitali dal momento che questi debbono poter circolare liberamente all'interno dell'Ue». Un problema piuttosto spinoso per le istituzioni europee… «La questione riveste carattere istituzionale per due motivi. Primo, non possiamo forzare i paradisi fiscali europei a cambiare il proprio comportamento dal momento che le riforme fiscali in sede europea richiedono l'unanimità. Inoltre, la presenza del mercato interno rende di fatto impossibile l'attivazione di schemi di autoprotezione utili a prevenire lo spostamento dei profitti verso i paradisi fiscali Ue». Messa così sembra un vicolo cieco. Quali soluzioni potrebbe essere messe in campo per risolvere questo problema? «L'unica via percorribile è che i grandi Paesi dell'Ue esercitino una forte pressione politica sui piccoli paradisi fiscali. Questo in parte sta già accadendo, e molta carne è stata messa al fuoco dal punto di vista legislativo. Tuttavia, non siamo ancora in grado di quantificare gli effetti positivi di queste riforme». Pensa che una politica fiscale comune possa aiutare a evitare il ricorso alla pratica degli aiuti di stato? «La possibilità di introdurre una soglia minima all'aliquota per le imprese mi trova scettico, perché il problema non è dato solo dalle basse percentuali applicate dai singoli Paesi, ma dalla capacità di erodere la base imponibile. Da questo punto vista, credo che definire un'imposta europea sulle aziende con aliquote e base imponibile prefissati, magari rinforzati dalla presenza di una agenzia comunitaria potrebbe essere un'idea valida. Ma gli Stati solitamente sono riluttanti ad assegnare questo tipo di competenze a Bruxelles, e probabilmente hanno anche le loro buone ragioni. Non sono preoccupato che una maggiore tassazione provochi una fuga delle imprese dall'Europa. Ricordiamoci che i profitti possono essere mobili, ma le fabbriche e i lavoratori non lo sono». Come valuta la nuova lista sui paradisi fiscali appena pubblicata dall'Unione europea? «Una blacklist può essere uno strumento efficace per indurre i paradisi fiscali a cooperare nella condivisione delle informazioni e per fermare le pratiche predatorie. Allo stesso tempo, però, è incredibile che la lista non includa nessuno dei paradisi fiscali all'interno dell'Unione europea, di gran lunga i principali attori per quanto riguarda l'elusione delle imprese continentali». Nel suo saggio, il team del professor Gabriel Zucman afferma che i paradisi fiscali europei spostano ogni anno profitti per quasi 210 miliardi di euro. Che effetti ha questo fenomeno in termini di ineguaglianza da un lato, e distorsione del mercato dall'altra? «Le ricadute sulle diseguaglianze sono tutt'altro che ovvie, dal momento che parte dei risparmi fiscali delle aziende ricade sui lavoratori (salari più alti) e sui consumatori (prezzi più bassi). Naturalmente, le imprese sono le prime a beneficiare di questa situazione. Ma in linea generale, il mio giudizio è che il circolo vizioso dei paradisi fiscali non faccia altro che peggiorare l'ineguaglianza a livello globale». Ovviamente il problema dei paradisi fiscali non riguarda solo l'Europa. Può raccontarci in breve la situazione a livello mondiale? «Le sfide sono principalmente tre. Il segreto bancario consente ai soggetti più abbienti di far transitare le ricchezze all'interno di conti segreti, evadendo così le tasse. L'approccio globale delle nuove norme rappresenta un tentativo ambizioso di affrontare la problematica attraverso il rafforzamento della condivisione automatica delle informazioni tra le varie giurisdizioni. Se domani apro un conto in Svizzera, l'autorità fiscale italiana ne verrà a conoscenza da parte di quella svizzera. Nascondere i soldi sarà sempre più difficile. Secondo punto: se è vero che le norme antiriciclaggio sono diventate sempre più severe, i recenti scandali (ad esempio Danske Bank in Estonia) dimostrano che c'è ancora molto lavoro da fare per fermare gli abusi. Infine, le aliquote reali molto basse che permettono alle multinazionali di incassare i propri profitti praticamente esentasse. La strategia dell'Ocse denominata Base erosion and profit shifting (Beps) tenta di mettere mano al problema attraverso una serie di misure, tra la quali vi è la condivisione delle informazioni e la chiusura di specifica scappatoie fiscali, ma è ancora troppo presto per giudicarne gli effetti».
Papa Leone XIV (Getty Images)
Sergio Mattarella con la mamma di Willy Monteiro Duarte (Ansa)
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L'amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)