L’esperto di Toninelli davanti al pm: «Ho detto soltanto delle cazzate»
- Gaetano Francesco Intrieri, l'uomo per cui parte del M5s sta facendo le barricate, è stato condannato per bancarotta. Nella vicenda massoneria, banche svizzere e documenti falsi. In un interrogatorio ammise di aver mentito.
- Le Fiamme gialle acquisiscono computer e cellulari al Politecnico, cui fu richiesto uno studio sul ponte Morandi. A Genova aprono scuole e Salone Nautico: è allarme traffico.
Lo speciale contiene due articoli.
Si è vantato di essere l'uomo che ha scoperchiato le magagne dell'Air force Renzi. Ma viste le bugie che ha raccontato e sta raccontando a magistrati, giornalisti e politici (nel M5s c'è chi fa le barricate per lui) viene il dubbio che non sia tutto oro quello che denuncia. Stiamo parlando del professor Gaetano Francesco Intrieri, l'esperto scelto dal ministro Danilo Toninelli per la struttura di missione del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti. La Verità nei giorni scorsi ha svelato che Intrieri è stato condannato definitivamente nel 2017 per bancarotta fraudolenta patrimoniale, avendo distratto dalle casse di un'azienda in difficoltà circa 480.000 euro (in tre tranche) per pagare dei debiti personali. Ma ai cronisti e ai grillini ha subito offerto una versione autoassolutoria che fa decisamente a pugni con le sentenze, i verbali e le informative della Guardia di finanza.
Nel 2004 Intrieri, quando venne arrestato, non solo non ammise il reato, ma provò a farla franca in maniera goffa, proponendo agli inquirenti una patacca che fece di lui un indagato poco credibile.
L'esperto calabrese (anche se è nato a Messina) nel 2003 era stato, per cinque mesi, l'amministratore delegato della Gandalf spa, una compagnia aerea in difficoltà. La riportò in Borsa, ma subito dopo lui e il presidente Giovanni Laterza si dimisero «per irregolarità dovute ad alcune operazioni da loro effettuate». Nel 2004 Intrieri, per giustificare l'incasso di due assegni della Gandalf (rispettivamente da 221.080 e 208.412 euro), si difese così: quel denaro serviva a pagare delle commissioni alla società americana Aviation world services inc e la transazione sarebbe avvenuta tramite una società elvetica. Ecco la ricostruzione del manager, come risulta dal verbale d'interrogatorio: «A questo proposito ho interpellato la Soft one sa con sede a Roveredo (Svizzera), la quale ha eseguito per mio conto le transazioni pari all'importo di 449.000 euro (…) Per i pagamenti sopra citati non furono fatti dei bonifici in quanto l'Aws, nella persona di Bryan Johnston, ha preteso i pagamenti “estero su estero"». A questo punto Intrieri ha esibito davanti al giudice «copia della documentazione comprovante l'operazione», ossia un attestato notarile di avvenuta transazione verso la Aws da parte della società anonima Soft one, copia dell'estratto conto intestato alla Soft one con l'indicazione dei bonifici effettuati, copia del passaporto del rappresentate legale della società fiduciaria (il signor Francesco F.). Per Intrieri la Soft one gli doveva 386.000 euro «già maturati» e 62.000 «maturandi».
Ebbene, sembra che questa arzigogolata spiegazione non fosse altro che una gigantesca panzana.
Infatti la Guardia di finanzia inizia a cercare i riscontri e viene a sapere dalla Polizia cantonale svizzera che «la società Soft one sa era stata messa in liquidazione e in data 3 settembre 1999 era stata radiata (quattro anni prima delle presunte transazioni, ndr)»; «che il signor Francesco F. risulta fortemente indebitato e ha avuto altre cinque società che attualmente sono in liquidazione o fallimento e altre due in attività»; la polizia cantonale ha informato i finanzieri di aver ricevuto nel settembre 1998 «una richiesta di informazioni da parte dell'Interpol di Roma sul conto della Soft one sa» e nel 2001 «una richiesta da parte dell'Interpol tedesca sul conto del signor Francesco F., il quale era sospettato di furto d'auto e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». Successivamente i finanzieri scopriranno che «i documenti a supporto del presunto pagamento alla Aws erano falsi» e «che la banca svizzera asseritamente utilizzata per il pagamento non era più esistente». Il 13 maggio 2005 Intrieri, smascherato dagli investigatori, decide di collaborare con i magistrati. Il pm di Parma (sede della Gandalf) Pietro Errede domanda: «Come l'ha pagata Aws, tramite Francesco F.?». Intrieri: «No, non c'entrava niente». In tutta questa storia non poteva mancare una spruzzata di massoneria. Infatti a suggerire a Intrieri questa versione e a mettere in piedi il «marchingegno» sarebbe stato l'avvocato d'affari cosentino Domenico L.. gran maestro della Serenissima Gran Loggia d'Italia («In sonno» precisa il diretto interessato), con studio legale a La Valletta (Malta). Ai magistrati Intrieri disse di avergli girato per il disturbo quattro assegni da 5.000 euro l'uno. Con La Verità, ma anche con gli inquirenti, Domenico L. ha negato tutto: «Intrieri è diventato esperto di Toninelli? In che mondo siamo finiti! Io avevo rapporti con lui quando era uno dei soci del Pascolo, un caseificio di Catanzaro (fallito nel 2008, ndr). Nella vicenda Gandalf non c'entro nulla. Gli investigatori mi convocarono per un confronto all'americana a Como con Intrieri e lo svizzero, ma mi presentai solo io».
Ritorniamo ai verbali d'interrogatorio. Nel 2005 il pm incalza il manager: «Quindi non è vera quella circostanza che (…) aveva un credito nei confronti di Francesco F.?». Intrieri: «No, tutto quello che ho detto su Francesco F. le altre volte sono tutte cazzate». Pm: «Ma lei si rende conto che una delle esigenze cautelari che mi hanno portato a chiedere la sua cattura è l'inquinamento delle prove? Le si dà la possibilità di difendersi tranquillamente e lei racconta balle al pm mettendo altra carne al fuoco». A questo punto Intrieri ammette che i soldi che aveva incassato non sono serviti per la Aws, ma per appianare un suo debito personale con Banca Intesa e che non ci fu nessun pagamento «estero su estero».
Un anno dopo l'indagato è ancora più esplicito. Pm: «Lei mi ha detto nel secondo interrogatorio, quando poi si è illuminato, che questi famosi 429.000 euro in realtà non sono mai giunti nelle tasche di Bryan Johnston (…) Che destinazione ha dato a questi denari?». Intrieri: «Li ho usati per fini miei, ero debitore di Banca Intesa». Pm: «Lei è sicuro di ricordare che i soldi sono serviti per delle sue esigenze?». Intrieri: «Sì, sì assolutamente (…) i soldi agli americani non arrivarono mai». Pm: «Ma lei chiese agli americani di fare delle certificazioni? Delle quietanze?». Intrieri: «Sì, poi le chiesi, secondo me anche sbagliando perché poi io e Laterza litigammo con gran parte del consiglio d'amministrazione, per cui cercai a quel punto, in qualche modo, di mettere a posto la situazione (…) Laterza sapeva che quei soldi li avrei girati agli americani, si fidava di me e sapeva questo». In un altro passaggio, il pubblico ministero chiede in cambio di che cosa Johnston della Aws gli avrebbe fatto avere le certificazioni e Intrieri risponde: «In cambio di nulla, io avevo detto a lui che comunque (…) gli avrei dato dei soldi, poi però non glieli diedi anche perché ci fu l'esposto». Denuncia che innescò l'inchiesta e che venne presentata da un gruppo di azionisti truffati (difesi dagli avvocati Francesco Verri e Vincenzo Cardone).
Infine il pm pone il quesito delle cento pistole: «Lei non aveva dunque un rapporto di credito con la Aws?». E Intrieri fa venire giù tutto il castello (di bugie): «No, quella cosa lì me la sono inventata». Quattordici anni e una condanna dopo, la verità sta tornando a galla.
Ponte Morandi, sequestri a Milano
«Se la guerra diventa l’unico tema si perde il contatto con la realtà». Parla agli studenti e pensa all’Europa, Carlo Messina all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Luiss a Roma. Davanti alla classe dirigente del futuro, il ceo di Banca Intesa decide di abbandonare grafici e coefficienti, di tenersi in tasca proiezioni e citazioni da banker stile Wall Street per mettere il dito nella piaga di un’Unione Europea votata ottusamente al riarmo fine a se stesso. «La difesa è indispensabile, ma è possibile che la priorità di quelli che ci governano sia affrontare tutti i giorni il tema di come reagire alla minaccia di una guerra?».
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
Da tempo, Luca Casarini preferisce il mare alla terra ferma. Tolta la tuta bianca che lo aveva reso famoso, ha iniziato a indossare il salvagente e a navigare attorno alle coste della Libia alla disperata ricerca di migranti da salvare. Da disobbediente è diventato credente, anche se solo in ciò che gli fa comodo, imbarcando un don Chichì, per dirla con Giovannino Guareschi, come Mattia Ferrari.
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
È noto da tempo che le regole Ue, dai Trattati in giù, siano dotate di eccezionale flessibilità, in modo da essere applicate ai nemici e interpretate per gli amici. Ma ciò che sta accadendo pur di erogare un prestito (di fatto un sussidio) all’Ucraina rischia davvero di superare ogni limite di fantasia legale e finanziaria.
Il primo ostacolo era la procedura in forma scritta per prorogare a tempo indeterminato la sanzione del sequestro degli asset russi (circa 210 miliardi di euro immobilizzati e detenuti in gran parte presso il depositario belga Euroclear). Proprio ieri, è arrivata l’adozione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio della proposta basata sull’articolo 122 del Tfue, che permette di agire in caso di emergenze economiche gravi, senza richiedere l’unanimità. Come prevedibile, l’Ungheria ha già annunciato ricorso alla Corte di Giustizia Ue, definendo la mossa «illegale».
Su questo punto, si sprecano i dubbi dei giuristi - da ultimo Marina Castellaneta sul Sole 24 Ore di ieri - sulla legittimità di questa scelta.
Ma il peggio, se possibile, è ancora davanti a noi. Perché si sta preparando, sempre che la Bce accetti di «fare il palo», un’operazione di finanziamento monetario degli Stati membri, vietata dai Trattati. In questo senso, una spia di allarme si era già accesa mercoledì scorso, leggendo l’intervista dell’amministratore delegato di Euroclear, Valerie Urbain, sul Corriere della Sera.
Il timore della Urbain è che se la Ue costringesse Euroclear a cedere la liquidità (e non anche altre attività finanziarie, si badi bene) dei russi immobilizzata nei loro conti, contro un «pagherò» firmato dalla Commissione improduttivo di interessi, si realizzerebbe una confisca di quei beni russi con tutte le conseguenze sulla stabilità finanziaria e sull’affidabilità del mercato dei capitali europeo.
Accadrebbe infatti che, qualora i russi vedessero riconosciuto il loro diritto a vedersi restituire quelle somme, Euroclear non avrebbe più un centesimo in cassa, ma solo un inservibile «pagherò» della Ue. Che la Ue potrebbe onorare soltanto se e quando la Russia pagasse i danni di guerra all’Ucraina, in modo da permettere a quest’ultima di rimborsare Bruxelles. Roba da fantapolitica. È quindi necessario che Euroclear abbia la liquidità necessaria per restituire i soldi ai russi e c’è solo una banca in grado di prendere il «pezzo di carta» della Commissione in garanzia per erogare un prestito di liquidità al depositario belga: la Bce. Ed è proprio lo scenario ipotizzato nell’intervista, quando la Urbain ha risposto che se la Commissione offrisse un titolo di credito «che dia interessi e che dunque la Bce accetti», si andrebbe «in una direzione migliore: sarebbe uno strumento rivendibile in cui possiamo investire».
Da qui si può dedurre - perché se la Bce fosse stata contraria, la Urbain avrebbe dovuto dirlo - che lo spazio a Francoforte c’è. Tanto è vero che la domanda se avesse parlato di questo a Ursula von der Leyen ha ricevuto una risposta possibilista (Be’, stiamo discutendo…).
Quindi è uno scenario concreto che la Bce - pur di non vedere Euroclear diventare insolvente davanti al rimborso dei fondi ai russi, come espressamente ammesso dalla Urbain - crei liquidità dal nulla per fornire un prestito a Euroclear, e accetti come garanzia dai belgi il «pagherò» della Ue, munito delle garanzie pro-quota di tutti gli Stati membri e del bilancio Ue.
È notizia di ieri pomeriggio che la Banca Centrale russa ha citato in giudizio Euroclear davanti al tribunale di Mosca accusando l’istituzione belga di aver reso inaccessibili fondi e titoli con azioni illegali e chiedendo danni pari al valore dei fondi, dei titoli e dei mancati guadagni. La Russia promette di contestare la misura in ogni tribunale internazionale e minaccia ritorsioni, tra cui il sequestro di 17 miliardi di Euroclear detenuti in Russia e possibili nazionalizzazioni.
E qui si concretizza lo scenario del finanziamento monetario. Perché se la Russia non pagasse i danni di guerra o, ancora prima, vedesse riconosciuto il suo diritto al rimborso di quei fondi sequestrati in Belgio, chi rimarrà col cerino in mano sarà Christine Lagarde.
Infatti, a cascata, l’Ucraina non rimborserà il prestito alla Ue, la Ue non rimborserà Euroclear e quest’ultima utilizzerà il prestito Bce per rimborsare i russi, lasciando la garanzia in mano alla Bce. Così a Francoforte si vedranno costretti a chiedere alla Commissione di onorare il «pagherò» ed escutere le garanzie degli Stati membri, a meno di non voler subire una perdita patrimoniale comunque priva di effetti concreti, perché la Bce non potrà mai essere insolvente in euro.
Una versione più raffinata di questa struttura è stata ipotizzata sul Financial Times il 7 dicembre, sempre terminante col cerino in mano alla Bce e in cui si ammette che l’alternativa, costituita dall’emissione di debito comune, non esiste, perché la «capacità di indebitamento della Ue e degli Stati membri è limitata».
Di fronte a tale marchingegno finanziario e legale, la memoria va immediatamente ai tanti «non si può… non ci sono i soldi… è vietato dai Trattati, ecc…» che ascoltiamo in modo ricorrente quando si respingono richieste di fondi per la sanità, l’istruzione, le pensioni o per un taglio di tasse.
Qui sono al lavoro da settimane per tirare come una molla tutte le regole e permettere alla Bce di stampare 90 miliardi con un click e farli partire, via Euroclear e Ue, verso Kiev. Il 18 dicembre ci sarà la decisione finale del Consiglio Europeo e il trucco di questo gioco delle tre carte sarà svelato.
Resta per il momento aggrovigliato il processo di pace in Ucraina. Donald Trump si è mostrato disponibile verso delle garanzie di sicurezza nei confronti di Kiev ma ha al contempo ammesso che un accordo tra i belligeranti sia più lontano del previsto. «Daremmo una mano con la sicurezza perché è, credo, un fattore necessario», ha dichiarato il presidente americano, per poi aggiungere: «Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con la Russia. Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con l’Ucraina. In realtà, a parte il presidente Zelensky, la gente ha apprezzato l’idea dell’accordo».
L’inquilino della Casa Bianca non ha infine del tutto escluso la partecipazione statunitense all’incontro in programma oggi a Parigi sulla crisi ucraina. «Vedremo se partecipare o meno all’incontro», ha detto Trump. «Parteciperemo all’incontro di sabato in Europa se pensiamo che ci siano buone probabilità. E non vogliamo perdere troppo tempo se pensiamo che sia negativo», ha proseguito.
«Il nostro obiettivo è avere una base comune solida per i negoziati. Questo terreno comune deve unire ucraini, americani ed europei», ha affermato, sempre ieri, un funzionario francese. «Ciò dovrebbe consentirci, insieme, di fare un’offerta negoziale, un’offerta di pace solida e duratura che rispetti il diritto internazionale e gli interessi sovrani dell’Ucraina, un’offerta che i negoziatori americani sono disposti a presentare ai russi», ha continuato. Nel frattempo, il governo tedesco ha confermato che Volodymyr Zelensky prenderà parte a un vertice sull’Ucraina che si terrà lunedì a Berlino: un vertice a cui è attesa anche Giorgia Meloni.
In questo quadro, il presidente ucraino ha diffuso un proprio video, registrato nella città di Kupiansk. «Oggi è estremamente importante ottenere risultati in prima linea affinché l’Ucraina possa ottenere risultati nella diplomazia», ha affermato. Dall’altra parte, secondo il Financial Times, il piano di pace attualmente in discussione tra americani e ucraini prevedrebbe un’adesione di Kiev all’Ue entro gennaio 2027. In tutto questo, il primo ministro ucraino, Yulia Svyrydenko, ha reso noto che, ieri, la delegazione di Kiev e quella di Washington hanno tenuto una nuova tornata di colloqui dedicati alla ricostruzione dell’Ucraina.
Sta frattanto trapelando un certo irrigidimento da parte di Mosca. «Non abbiamo visto le versioni riviste delle bozze americane. Quando le vedremo, potremmo non apprezzare molte cose: questa è la mia sensazione», ha affermato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. «Un cessate il fuoco potrà avvenire solo dopo il ritiro delle truppe ucraine», ha continuato, riferendosi al Donbass. «Se non attraverso negoziati, allora con mezzi militari, questo territorio passerà sotto il pieno controllo della Federazione russa. Tutto il resto dipenderà interamente da questo», ha altresì specificato. Ushakov ha anche respinto la proposta, avanzata da Zelensky, di tenere un referendum sul futuro del Donbass. «Il Donbass è russo. Tutto il Donbass è russo», ha detto. Nel frattempo, ieri Vladimir Putin si è incontrato ad Ashgabat con Recep Tayyip Erdogan. Nell’occasione, il presidente turco ha proposto «l’attuazione di un cessate il fuoco limitato, mirato principalmente agli impianti energetici e ai porti». Il sultano ha anche precisato che Ankara sta «seguendo i processi negoziali volti a porre fine alla guerra» e che è «pronta a ospitare colloqui in tutti i formati all’interno di questo quadro».
In tutto questo, sempre ieri, il Washington Post ha rivelato che, in occasione del suo soggiorno negli Stati Uniti per i colloqui diplomatici, il capo delegazione ucraino, Rustem Umerov, ha avuto degli incontri con il direttore dell’Fbi, Kash Patel, e con il suo vice, Dan Bongino. «Alcuni ritengono che Umerov e altri funzionari ucraini abbiano contattato Patel e Bongino nella speranza di ottenere un’amnistia da eventuali accuse di corruzione», ha riferito il quotidiano americano, che ha poi aggiunto: «Altri temono che il canale appena istituito possa essere usato per esercitare pressioni sul governo Zelensky affinché accetti un accordo di pace, proposto dall’amministrazione Trump, che prevede ampie concessioni territoriali per Kiev». Vale a tal proposito la pena di sottolineare come sia Patel che Bongino abbiano manifestato scetticismo, in passato, verso il sostegno statunitense all’Ucraina.
In questo quadro, Guido Crosetto ha espresso delusione sul debole ruolo europeo nei negoziati. «Sono molto deluso dal fatto che siano gli Usa che intervengano per trattare una pace nel cuore dell’Europa. Se domani gli Stati europei dicessero che c’è una persona a rappresentare tutto il negoziato, né Trump né la Russia potrebbero dire di no», ha detto il ministro della Difesa. «Il principio non può essere muovere guerra per fare la pace: è paradossale. Appare insensata la pace evocata da parte di chi, muovendo guerra, pretende in realtà di imporre le proprie condizioni», ha inoltre affermato, riferendosi alla Russia, Sergio Mattarella, che ha anche auspicato che l’Ucraina sia coinvolta nel processo d’integrazione Ue. «L’Europa e l’Italia restano saldamente al fianco dell’Ucraina e del suo popolo», ha altresì detto il capo dello Stato. Si registrano frattanto tensioni tra Roma e Mosca. «Le relazioni fra Italia e Russia stanno attraversando la crisi peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale», ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, secondo cui l’Italia sarebbe «oggetto di pressioni da parte della Nato e del mondo anglosassone».





