L’esperto di Toninelli davanti al pm: «Ho detto soltanto delle cazzate»
- Gaetano Francesco Intrieri, l'uomo per cui parte del M5s sta facendo le barricate, è stato condannato per bancarotta. Nella vicenda massoneria, banche svizzere e documenti falsi. In un interrogatorio ammise di aver mentito.
- Le Fiamme gialle acquisiscono computer e cellulari al Politecnico, cui fu richiesto uno studio sul ponte Morandi. A Genova aprono scuole e Salone Nautico: è allarme traffico.
Lo speciale contiene due articoli.
Si è vantato di essere l'uomo che ha scoperchiato le magagne dell'Air force Renzi. Ma viste le bugie che ha raccontato e sta raccontando a magistrati, giornalisti e politici (nel M5s c'è chi fa le barricate per lui) viene il dubbio che non sia tutto oro quello che denuncia. Stiamo parlando del professor Gaetano Francesco Intrieri, l'esperto scelto dal ministro Danilo Toninelli per la struttura di missione del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti. La Verità nei giorni scorsi ha svelato che Intrieri è stato condannato definitivamente nel 2017 per bancarotta fraudolenta patrimoniale, avendo distratto dalle casse di un'azienda in difficoltà circa 480.000 euro (in tre tranche) per pagare dei debiti personali. Ma ai cronisti e ai grillini ha subito offerto una versione autoassolutoria che fa decisamente a pugni con le sentenze, i verbali e le informative della Guardia di finanza.
Nel 2004 Intrieri, quando venne arrestato, non solo non ammise il reato, ma provò a farla franca in maniera goffa, proponendo agli inquirenti una patacca che fece di lui un indagato poco credibile.
L'esperto calabrese (anche se è nato a Messina) nel 2003 era stato, per cinque mesi, l'amministratore delegato della Gandalf spa, una compagnia aerea in difficoltà. La riportò in Borsa, ma subito dopo lui e il presidente Giovanni Laterza si dimisero «per irregolarità dovute ad alcune operazioni da loro effettuate». Nel 2004 Intrieri, per giustificare l'incasso di due assegni della Gandalf (rispettivamente da 221.080 e 208.412 euro), si difese così: quel denaro serviva a pagare delle commissioni alla società americana Aviation world services inc e la transazione sarebbe avvenuta tramite una società elvetica. Ecco la ricostruzione del manager, come risulta dal verbale d'interrogatorio: «A questo proposito ho interpellato la Soft one sa con sede a Roveredo (Svizzera), la quale ha eseguito per mio conto le transazioni pari all'importo di 449.000 euro (…) Per i pagamenti sopra citati non furono fatti dei bonifici in quanto l'Aws, nella persona di Bryan Johnston, ha preteso i pagamenti “estero su estero"». A questo punto Intrieri ha esibito davanti al giudice «copia della documentazione comprovante l'operazione», ossia un attestato notarile di avvenuta transazione verso la Aws da parte della società anonima Soft one, copia dell'estratto conto intestato alla Soft one con l'indicazione dei bonifici effettuati, copia del passaporto del rappresentate legale della società fiduciaria (il signor Francesco F.). Per Intrieri la Soft one gli doveva 386.000 euro «già maturati» e 62.000 «maturandi».
Ebbene, sembra che questa arzigogolata spiegazione non fosse altro che una gigantesca panzana.
Infatti la Guardia di finanzia inizia a cercare i riscontri e viene a sapere dalla Polizia cantonale svizzera che «la società Soft one sa era stata messa in liquidazione e in data 3 settembre 1999 era stata radiata (quattro anni prima delle presunte transazioni, ndr)»; «che il signor Francesco F. risulta fortemente indebitato e ha avuto altre cinque società che attualmente sono in liquidazione o fallimento e altre due in attività»; la polizia cantonale ha informato i finanzieri di aver ricevuto nel settembre 1998 «una richiesta di informazioni da parte dell'Interpol di Roma sul conto della Soft one sa» e nel 2001 «una richiesta da parte dell'Interpol tedesca sul conto del signor Francesco F., il quale era sospettato di furto d'auto e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». Successivamente i finanzieri scopriranno che «i documenti a supporto del presunto pagamento alla Aws erano falsi» e «che la banca svizzera asseritamente utilizzata per il pagamento non era più esistente». Il 13 maggio 2005 Intrieri, smascherato dagli investigatori, decide di collaborare con i magistrati. Il pm di Parma (sede della Gandalf) Pietro Errede domanda: «Come l'ha pagata Aws, tramite Francesco F.?». Intrieri: «No, non c'entrava niente». In tutta questa storia non poteva mancare una spruzzata di massoneria. Infatti a suggerire a Intrieri questa versione e a mettere in piedi il «marchingegno» sarebbe stato l'avvocato d'affari cosentino Domenico L.. gran maestro della Serenissima Gran Loggia d'Italia («In sonno» precisa il diretto interessato), con studio legale a La Valletta (Malta). Ai magistrati Intrieri disse di avergli girato per il disturbo quattro assegni da 5.000 euro l'uno. Con La Verità, ma anche con gli inquirenti, Domenico L. ha negato tutto: «Intrieri è diventato esperto di Toninelli? In che mondo siamo finiti! Io avevo rapporti con lui quando era uno dei soci del Pascolo, un caseificio di Catanzaro (fallito nel 2008, ndr). Nella vicenda Gandalf non c'entro nulla. Gli investigatori mi convocarono per un confronto all'americana a Como con Intrieri e lo svizzero, ma mi presentai solo io».
Ritorniamo ai verbali d'interrogatorio. Nel 2005 il pm incalza il manager: «Quindi non è vera quella circostanza che (…) aveva un credito nei confronti di Francesco F.?». Intrieri: «No, tutto quello che ho detto su Francesco F. le altre volte sono tutte cazzate». Pm: «Ma lei si rende conto che una delle esigenze cautelari che mi hanno portato a chiedere la sua cattura è l'inquinamento delle prove? Le si dà la possibilità di difendersi tranquillamente e lei racconta balle al pm mettendo altra carne al fuoco». A questo punto Intrieri ammette che i soldi che aveva incassato non sono serviti per la Aws, ma per appianare un suo debito personale con Banca Intesa e che non ci fu nessun pagamento «estero su estero».
Un anno dopo l'indagato è ancora più esplicito. Pm: «Lei mi ha detto nel secondo interrogatorio, quando poi si è illuminato, che questi famosi 429.000 euro in realtà non sono mai giunti nelle tasche di Bryan Johnston (…) Che destinazione ha dato a questi denari?». Intrieri: «Li ho usati per fini miei, ero debitore di Banca Intesa». Pm: «Lei è sicuro di ricordare che i soldi sono serviti per delle sue esigenze?». Intrieri: «Sì, sì assolutamente (…) i soldi agli americani non arrivarono mai». Pm: «Ma lei chiese agli americani di fare delle certificazioni? Delle quietanze?». Intrieri: «Sì, poi le chiesi, secondo me anche sbagliando perché poi io e Laterza litigammo con gran parte del consiglio d'amministrazione, per cui cercai a quel punto, in qualche modo, di mettere a posto la situazione (…) Laterza sapeva che quei soldi li avrei girati agli americani, si fidava di me e sapeva questo». In un altro passaggio, il pubblico ministero chiede in cambio di che cosa Johnston della Aws gli avrebbe fatto avere le certificazioni e Intrieri risponde: «In cambio di nulla, io avevo detto a lui che comunque (…) gli avrei dato dei soldi, poi però non glieli diedi anche perché ci fu l'esposto». Denuncia che innescò l'inchiesta e che venne presentata da un gruppo di azionisti truffati (difesi dagli avvocati Francesco Verri e Vincenzo Cardone).
Infine il pm pone il quesito delle cento pistole: «Lei non aveva dunque un rapporto di credito con la Aws?». E Intrieri fa venire giù tutto il castello (di bugie): «No, quella cosa lì me la sono inventata». Quattordici anni e una condanna dopo, la verità sta tornando a galla.
Ponte Morandi, sequestri a Milano
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Da 56 giorni i genitori non vedono i figli. Gli assistenti sociali però non rispondono
«Voglio sapere dove sono i bambini. Sono passati 56 giorni senza vederli. Neppure una telefonata. Non sappiamo come stanno, cosa mangiano, se dormono…». Le lacrime scivolano giù con dignità sul bel volto di mamma Nadya, mentre si siede con noi sulla panca fuori, all’ingresso di casa. Siamo nel bosco di Caprese Michelangelo, piccolo borgo in provincia di Arezzo. «Con mio marito Harald», racconta Nadya, «siamo andati più volte ai servizi sociali. Ci hanno detto che non possiamo vederli perché sono in un luogo segreto. Tutto questo è un abuso. Una violenza che viene fatta a noi e ai nostri figli».
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
- Una ricerca di recente pubblicazione mostra come, dati alla mano, Covid e preparati genici velocizzino la crescita delle masse cancerogene. Chi ha ricevuto le dosi è più esposto perché più sollecitato.
- Boccia (Pd) durante l’audizione di Sileri in commissione: «Decidevano Cts e Cdm» L’allora viceministro conferma: «Io isolato. Non so chi abbia imposto la tachipirina».
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I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.





