2020-10-06
«L’emergenza manovrata per il culto di Giuseppi e per comprare consenso»
Il politologo dell'ateneo di Firenze Marco Tarchi: «Governo in crisi d'ansia per la gestione della pandemia. I grillini verso l'estinzione e Matteo Salvini si guardi da Giancarlo Giorgetti».Il governo Conte blinda la propria (smunta) sopravvivenza con l'ennesima proroga dello stato di emergenza fino al 31 gennaio. Che fa storcere il naso anche a costituzionalisti di sinistra i quali si spingono a parlare di «negazionismo del diritto costituzionale» (vedi Michele Ainis). La conversazione con il professor Marco Tarchi, politologo e ordinario di scienza politica, comunicazione, analisi e teoria politica all'università di Firenze, non può non partire da qui. «Sarebbe stato meglio (il tempo c'era) trasformare in provvedimenti ordinari quelli che si reputano più necessari, invocati come motivo - o pretesto - per tali proroghe. Questi stravolgimenti della prassi, con il ricorso sistematico ai decreti «presidenziali», alla lunga fanno in effetti pensare a una volontà di personalizzare un potere che il nostro ordinamento attribuisce a un organo collegiale» è l'esordio di Tarchi.Dall'emergenza all'abuso dell'emergenza è un attimo.«Io parlerei soprattutto di un uso strumentale del concetto, al fine di rafforzare la propria figura. Su questo versante, Giuseppe Conte ha dimostrato di saperci fare».Impresa non titanica, visti i «nani e ballerine» che nella maggioranza non scarseggiano. Come giudica l'azione del governo da quando è scattato l'allarme pandemia?«Dominata dall'ansia. Tanto da gettare la responsabilità degli atti su una “comunità scientifica" tutt'altro che coesa. Poi ha prevalso la convinzione che la situazione potesse essere sfruttata per allargare la base di consenso, e si è proceduto con la logica dei sussidi a pioggia».L'ormai celebre Sussidistan.«Ma senza neppure un progetto coerente. Sperando solo nella benevolenza dell'Unione europea. Che visto il “colore" politico del governo, ha accondisceso alle richieste».Referendum per il taglio dei parlamentari. Esito già scritto? Una vittoria del populismo?«Risultato scontato fin dall'inizio. Ma direi che ha vinto la nota - e non ingiustificata - disaffezione di gran parte dei cittadini verso una classe politica accusata di inefficienze, autoreferenzialità, eccessivo amore per i privilegi. Del resto, la critica agli organi pletorici da decenni veniva da ogni parte, e tutti i partiti - per raccogliere voti - proponevano tale riduzione. Sperando che non si realizzasse».Come sempre, il partito più forte è quello dell'astensione.«Una vittoria di Pirro. A lungo andare, scegliere di non scegliere - rifiuto che può avere molti motivi validi - giova più al consolidamento dell'establishment che al suo logoramento. Il «sono tutti uguali» lascia la situazione immutata».Anche se a lamentarsi di più, poi, sono proprio coloro che alle urne ci sono andati. Il risultato è comunque una polizza vita per il governo di Giuseppi: difficile che i parlamentari, non avendo la certezze su chi siano i 345 di loro che non rivedranno più Montecitorio o Palazzo Madama, facciano cadere l'esecutivo per andare anzitempo alle elezioni.«Il Conte 2 durerà molto probabilmente fino al 2023. A cambiare lo scenario potrebbero essere solo sondaggi che mostrassero, in caso di nuove elezioni, un completo risucchio del residuo elettorato del M5s da parte del Pd. Difficile ipotizzarlo».In mezzo c'è l'elezione del capo dello Stato, che sarà eletto da un Parlamento in cui i rapporti di forza cristallizzati sono difformi da quelli che, a dar retta ai sondaggi, ci sono di fatto nel Paese, orientato verso il centrodestra.«E' un problema serissimo per chi, decretando la fine del Conte 1, sorretto dalla maggioranza gialloverde Lega-M5s, ha regalato al fronte avverso non solo il prossimo presidente della Repubblica ma anche il posto di commissario Ue. Un atto di autolesionismo che peserà per molti anni».Quel «chi» è Matteo Salvini, o sbaglio? Cui non è riuscita la «spallata» - nonostante nell'ultima tornata regionale i consiglieri della Lega siano aumentati - ritentata in Toscana dopo quella fallita in Emilia Romagna («le spine rosse nel cuore d'Italia», insieme all'Umbria del tempo, come le definì il dc Arnaldo Forlani). Non numericamente, ma politicamente è da considerarsi uno sconfitto?«Se avesse evitato di sbandierare di continuo l'ambizione di vincere per 7 a 0 non darebbe questa impressione. Certamente è in una fase di impasse. Dopo la mossa insensata del Papeete ha proceduto senza una linea strategica ben definita, zigzagando anche sulle vicende dell'epidemia».Be', lì è stato in buona compagnia, a destra come a sinistra.«Il problema per lui è che appiattirsi su un'immagine di destra, per giunta con alleati-concorrenti pronti alla bisogna a mettergli i bastoni tra le ruote, non può che depotenziare il suo messaggio. Il 34,3% alle europee indicava uno sfondamento trasversale, nel segno del populismo. Proseguire l'alleanza di governo con i pentastellati gli avrebbe giovato».Torneremo sugli alleati-concorrenti, ma intanto Salvini non deve guardarsi le spalle dai leghisti non sovranisti, o «governisti»: Luca Zaia, trionfatore in Veneto, e il defilato Giancarlo Giorgetti?«Da Giorgetti sicuramente sì, perché è il portavoce di settori intenzionati a servirsi della Lega per i propri interessi, piegandola ai propri desideri. Zaia mi pare abbia un altro profilo: immischiarsi in una lotta di potere interno non gli gioverebbe».Zaia, Vincenzo De Luca, Michele Emiliano: è l'affermazione dei governatori - in apparenza: «sceriffi anti-Covid» i primi due, un coltivatore di clientele l'altro - e non dei partiti da cui provengono o che li appoggiano.«La personalizzazione del ruolo di presidenti di regione era evidente da tempo. Grazie alle vicende emergenziali è esplosa pienamente, anche per l'ulteriore risalto mediatico che hanno dato a ciascuno dei citati (nel caso del governatore lombardo Attilio Fontana la sovraesposizione si è rivelata un boomerang). Quanto al clientelismo, si sa: è una pianta nociva che da sempre fiorisce rigogliosa nei giardini della politica, ed è pressoché inestirpabile». Luigi Di Maio si è intestato il successo referendario, ma a livello locale il M5s ha rimediato una batosta, per dirla con il «dissidente» Alessandro Di Battista, «epocale». Come vede il futuro dei grillini?«Grigio. Se non nero. Accettando di fatto la logica bipolare, si sono condannati al disastro. Un ritorno alle origini, con Di Battista, salverebbe il salvabile, ma su percentuali elettorali dimezzate. La linea governista è una condanna alla subalternità e poi alla scomparsa».Nicola Zingaretti sarebbe un vincitore perché pareggiando non ha perso. Ma il Pd appare ai più una gelatina senza una precisa identità. Quanto si può andare avanti sfruttando la chiamata alle armi per una «vigilanza democratica e antifascista» contro la destra razzista e i barbari alle porte?«Questo dovrebbero dirlo gli elettori. Molti dei quali, come pare in Toscana e Puglia, sono ancora sensibili al “richiamo della foresta" e continuano a comportarsi secondo schemi manichei. Del resto i fautori del bipolarismo fanno di tutto per convincerli che destra e sinistra sono stelle polari irrinunciabili. E gran parte di coloro che non abboccano preferiscono non andare a votare. Ma finché le cose andranno così, anche il piccolo cabotaggio del Pd basterà a tenerlo a galla».Se a sinistra c'è un'unione che mette insieme un'armata eterogenea - «Mazinga» (M5s e Pd), la sinistra più radicale e Italia Viva - per meri interessi di bottega governativa, a destra, al di là delle dichiarazioni rassicuranti di prammatica, s'intuiscono problemi crescenti di coabitazione tra una Giorgia Meloni in ascesa, anche in Europa quanto a ruolo e immagine, e un Salvini che non sfonda.«E ce ne sono ancora di più con Forza Italia e Udc, per certi versi più vicine al Pd che a Lega e Fratelli d'Italia. La “destra" è un'area non meno frammentata e contraddittoria della dirimpettaia, la cui solidità è di facciata. Non è solo un problema di ambizioni personali ma anche di identità e progetti eterogenei. E la Lega ha potuto da sempre moltiplicare i consensi solo quando si è proiettata oltre il vecchio spartiacque destra/sinistra».Un dato è certo: l'unico partito in crescita costante è quello di Giorgia Meloni. Con una road map positiva costruita nel tempo. Ormai la tirano tutti per la giacchetta, perfino dalle barricate opposte, tanto da farla sbottare: «Sono stanca di vedere gente di sinistra che vuole spiegarmi come deve esser la destra».«Se intendeva dire che molti di quelli che ora le rivolgono attestati di stima vorrebbero imporle i loro punti di vista (che di destra spesso non sono) ha ragione. Ma la sua leadership deve ancora affrontare molte prove. Puntare su un profilo più conservatore le impedirà di conservare i toni urlati e radicali su temi che l'hanno resa famosa, come immigrazione e sicurezza. Se invece li conservasse, i moderati la rimprovererebbero. In più, Fdi non ha ancora un'articolazione territoriale omogenea né una classe dirigente solidamente formata all'altezza dei nuovi compiti. Ancorarsi a un'immagine di “destra" impedisce di raccogliere quei consensi trasversali che hanno portato la Lega ai suoi massimi storici. Senza quei voti, difficilmente Meloni potrà sopravanzare Salvini».