2020-02-23
L’educazione depressiva che rovina i giovani
Produttività, sicurezza e natalità sono problemi cruciali ma la vera emergenza riguarda il sistema della formazione. Appiattito sullo scientismo e incapace di stimolare nei ragazzi la virtù. Caratteristica dimenticata che era invece al centro dell'Umanesimo.In Italia di emergenze ce n'è anche troppe. Dal territorio alla produzione, alla sicurezza, alla natalità. La più grave però, quella che le peggiora tutte a cominciare dalla natalità, è l'emergenza educativa. Quella che ci stringe il cuore quando i suicidi dei giovani si fanno più numerosi e vicini, o quando arrivano le classifiche internazionali della scuola e degli impieghi, o dell'Istat sulla popolazione che diminuisce.Perché è da ciò che succede nella testa e nel cuore dei nostri figli e nipoti che dipende la vita del Paese. Il resto, le liti tra i partiti e al loro interno, le mitologie del momento, l'«odio», il fascismo alle porte, Greta, le sardine, la prossima scoperta mediatica, sono buone per la tv. Strumenti delle strategie di distrazione, come si chiamano in sociologia. Far parlare del niente per allontanare l'attenzione da ciò che brucia. E ciò che brucia di più - non solo a me - sono i ragazzi che (come assicura chi li conosceva bene) «stanno benissimo» e «non gli manca niente», e poi un giorno si buttano dalla finestra. O si buttano via in qualche altro modo, più o meno fantasioso, sempre agghiacciante.Noi, dopo, diciamo che «si buttano via». Ma la verità è che siamo noi, i grandi, gli adulti, quelli che dovrebbero organizzare e pensare la loro educazione, a buttarli via. È tutto il Paese, a cominciare dalla politica, ad aver accuratamente evitato il tema della formazione dei giovani, dagli anni Sessanta in poi, quando è stato evidente che il mondo stava cambiando rapidamente, con fenomeni nuovi e centrali, come la crescente importanza del consumo, la crisi della famiglia (promossa dallo Stato), l'apertura al mondo intero, Internet, le nuove scienze. È solo affrontando questi temi che si forma un'educazione, e si mette in sicurezza una civiltà. Questioni che chiedono di alzare lo sguardo, smettere di vedere tutto con la lente stretta dell'economia, importante ma secondaria rispetto alla visione della vita e il suo senso. Dopo gli anni Cinquanta e Sessanta, pur con le nostre fragilità, eravamo diventati ricchi. Potevamo, anzi dovevamo affrontare la questione più difficile: «che fare» della ricchezza? Quali virtù e impegni proponevamo dunque ai nostri figli, ormai di là della dignitosa povertà (ancora in gran parte contadina, tranne qualche isola) lasciata dall'Italia fascista? Perché è la virtù (come sapevano benissimo gli umanisti che i giuseppi citano a casaccio nei loro penosi discorsi, per fare i ganzi) il vero pilastro dell'educazione umana, ed è costruita su temi alti: il buono e il cattivo, il bello e il brutto, l'elevato e il dissoluto. Di fronte a questioni del genere, i partiti hanno appaltato la scuola ai sindacati per averne i voti senza fare fatiche. E i sindacati hanno sostituito l'educazione con l'ideologia. Proprio sull'educazione e i suoi elevati obiettivi era nato in Italia l'Umanesimo, nel XV secolo. Alla sua base fu l'intuizione di proporre agli allievi ideali pratiche sufficientemente ampie e forti da entusiasmarli e convincerli ad impegnarsi fino in fondo nella vita; (come racconta perfettamente Maestri e pratiche educative in età umanistica. A cura di Ferrari, Morandi e Piseri, Scholé ed.). Questa visione alta della scuola ebbe un tale successo da formare poi la civiltà europea, (spesso proprio con i maestri italiani, che anche allora andavano negli altri paesi a portare i propri saperi e intuizioni). Una forma di vita, quella europea, destinata a restare la più influente nel mondo fino al Novecento, il secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali, che accantonò il primato dell'essere umano integrale per svilupparne due importanti aspetti: la tecnica e l'economia.L'Umanesimo fu anche una società chiamata ad affrontare i problemi della nuova ricchezza, prodotta allora come oggi, dallo sviluppo dei commerci e della tecnica. I suoi trattati educativi raccomandavano quindi innanzitutto: «L'esercizio dell'indurimento fisico, l'evitare le comodità, sopportare ogni sorta di disagi e usare sobrietà nel mangiare e vestire» (tipo Public school inglesi). Perché se ti rammollisci, poi ti deprimi e ti passa la voglia di fare qualsiasi cosa, come conferma qualsiasi arte marziale o pratica ginnica e spirituale. Un capitolo questo, saltato completamente dalla scuola italiana, che è diventata rapidamente una fiera delle vanità, succursale ordinaria di Pitti donna e Pitti uomo e teatro delle suggestioni maniacali degli influencer.Altro grande attualissimo insegnamento dell'Umanesimo fu che l'educazione non può essere solo «umanistica» cioè letteraria, filosofica, artistica etc. e neppure solo matematico-tecnoscientifica, come si insiste oggi, perché l'essere umano ha in sé entrambe le direzioni, e deve coltivarle. Invece sono anni che i soloni della scuola puntano sulle materie scientifiche, hanno provato addirittura a far fuori il liceo classico (di cui invece c'è grande richiesta, anche dalle industrie), e per poco ci riuscivano. Purtroppo la maggior parte dei suicidi viene dallo scientifico, un corso che lascia intravedere possibilità che poi non coltiva. L'uomo dell'Umanesimo invece «di tutte le discipline fa esperienza: non solo perché sono tra loro collegate, ma anche per saggiare le proprie attitudini e scegliere, quindi, la materia più congeniale». Altro aspetto, questo, ampiamente trascurato dai padroni della scuola pubblica: non puoi imparare bene qualcosa che ti è affettivamente o cerebralmente estraneo o avverso. Il primo significato di educare non è infatti: nutro, insegno, ma: tiro fuori, estraggo dall'allievo ciò che ha dentro. Di questo, però, nessuno si occupa. Ciò fa grandi danni, soprattutto se contemporaneamente si pretende che si imparino cose di cui invece non importa nulla.Decisivo poi, in età umanistica fu l'addestramento del corpo: «L'importanza del gioco, delle discipline atletiche», della cui rimozione nella scuola di oggi abbiamo accennato nello sguardo di domenica scorsa. L'insegnante Livio Marchese ne ha così descritto le vittime nel suo intervento sugli zombetti sulla rivista Gli asini: «torma di anime a brandelli, prigionieri di corpi disabituati al movimento... corpi ingombranti, con i quali non si riesce più a giocare, a divertirsi». La vera mancanza dell'attuale educazione depressiva sta però nel non sviluppare obiettivi e sentimenti elevati, capaci di suscitare entusiasmi e visioni positive. Senza obiettivi alti (come ricordava Simone Weil) non c'è alcuna educazione. Nei manuali umanistici il primo obiettivo «è lo sviluppo della virtù» (anche attraverso lo studio della storia, oggi ridotta a optional). L'Umanesimo sapeva bene che il successo da solo non serve: «La vita dei principi, se priva di virtù, solerzia, alacrità e consapevolezza, è una tragedia piena di infelicità». La virtù poi, spiegano i maestri umanisti con competenza psicologica ormai rara, non nasce dal moralismo, ma dall'equilibrio e genera libertà: «L'uomo trova la sua piena libertà nella realizzazione delle virtù, mentre i vizi lo rendono loro servo».
Julio Velasco e Alessia Orro (Ansa)
Rod Dreher (Getty Images)