2019-03-01
L’Eco della grandezza plasma in capolavoro la fiction della Rai
Il nome della rosa riesce a tradurre la complessità del libro. Giallo, storia, Chiesa e inquisizione ingredienti di sicuro appeal.Fiction e serie tv sono stati due mondi agli antipodi. L'uno rappresentava il vecchiume paludato nel quale languiva la televisione italiana. L'altro il genio americano. L'estro, il guizzo, «la visione». C'erano loro e c'eravamo noi, mestamente ancorati a un incedere da sceneggiato che, difficilmente, ancora eroderà i palinsesti tv. La Rai, alla quale si era imputata la colpa di rifiutare il progresso, si è rimboccata le maniche e della fiction formato tv generalista ha finito per fare un piccolo capolavoro. Il lavoro è stato tanto, il percorso accidentato. Ma a vederla, la prima puntata di Il Nome della Rosa, a respirarne le arie cupe, rotte a tratti dal Penitenziagite dolciniano, pare che lo sforzo sia stato fruttuoso. La miniserie, al debutto su Rai 1 alle 21.25 di lunedì 4 marzo, è la sintesi di un ragionamento compiuto e completo. È il vecchio che incontra il nuovo, la tradizione che della diversità ha scelto di fare una ricchezza.Il format della fiction Rai, adattamento del capolavoro che Umberto Eco scrisse nel 1980, è quello moderno, americaneggiante, della miniserie. Quattro puntate, la promessa di farla breve e la certezza di non veder perso l'approfondimento verticale che solo la dimensione seriale ha da giocarsi. La struttura è data dall'alternarsi - alla True Detective - di passato e presente, così che ogni personaggio tratteggiato da Eco possa avere nei propri flashback un'adeguata sintesi storica. La sigla, stracolma di riferimenti all'iconografia pittorica medievale, è accattivante. Alla True Detective, di nuovo. Ma, nel mezzo della veste progressista che la Rai s'è data, c'è il rispetto della tradizione italiana. Di quella lentezza vagamente riflessiva che, se da una parte ricalca la narrazione di Eco, dall'altra riflette l'andatura dello sceneggiato, del Commissario Montalbano, delle grandi storie Rai. È pigra, Il Nome della Rosa, quel tanto che basta da garantirle l'approvazione del pubblico agée senza precluderle il sostegno dei giovani. E, a guardarla, se ne resta affascinati, un po' intorpiditi, depredati della capacità di scegliere a chi dare il merito: se a Giacomo Battiato, regista, se alla bellezza di un'Italia senza tempo, se alla penna di Umberto Eco o alla bravura, stratosferica, degli interpreti scelti dentro e fuori il Paese.John Turturro, nella serie Rai prodotta - insieme - da 11 Marzo Film e Palomar, è Guglielmo da Baskerville, il francescano designato a condurre la Disputa nella cornice datata 1327 di un'abbazia benedettina. È, cioè, Turturro l'individuo scelto per guidare il convegno nel quale si affrontino l'Ordine francescano, secondo cui la Chiesa e il Papa dovrebbero abbracciare la vita povera che Cristo ebbe, e Giovanni XXII, rappresentato nel romanzo e nella serie Rai dall'inquisitore Bernardo Gui. Gui ha il volto di Rupert Everett. Adso, novizio alle dipendenze di Guglielmo da Baskerville, quello dell'attore tedesco Damian Hardung. Il cast della fiction è un insieme di nomi e provenienze. C'è Fabrizio Bentivoglio, magistrale nel ruolo del monaco Remigio. C'è Stefano Fresi, ancor più grande, laddove possibile, nella parte del «picchiatello» Salvatore. C'è Greta Scarano, moglie nella serie dell'eretico Dolcino (Alessio Boni), e c'è Michael Emerson di Lost, perfetto abate francescano. E poi c'è il mistero di Eco, la complessità di un libro che in sole 600 pagine è riuscito a racchiudere stralci della storia italiana, la diatriba sul potere temporale della Chiesa e l'orrore dell'inquisizione, il giallo fittizio di un monaco assassino.Il Nome della Rosa, di cui già nel 1986 fu fatto un film con Sean Connery e Christian Slater, è innanzitutto un giallo, ché Guglielmo da Baskerville è chiamato a scoprire chi, nell'abbazia nella quale avrà sede la Disputa, stia uccidendo i monaci residenti. Uno a uno, come nell'avverarsi di una profezia angosciosa dove riecheggi lo spettro della sodomia e quello dell'Apocalisse. «Quello che mi ha attirato di più di questo progetto è stata la possibilità di inserire nella serie (già venduta in quasi tutti i Paesi esteri e comprata, in Inghilterra, dalla Bbc, ndr) quanto più Eco possibile: tanto più ne avremmo inserito, tanto meglio sarebbe venuta la serie», ha spiegato Turturro, punta di diamante di un cast che ha saputo mantenere integro lo spirito del romanzo originale, restituendone la complessità e contestualizzandola nel presente balordo nel quale tutti si è costretti a vivere.«Il progetto di Il Nome della Rosa rientra nella volontà di internalizzazione del prodotto Rai, ma, al contempo, tratta tematiche attuali che, nel largo dispiegarsi della dimensione seriale, possono trovare il proprio compimento», ha dichiarato Eleonora Andreatta, direttrice di Rai fiction. «C'è la tolleranza, in Eco, l'importanza della cultura e del sapere, la razionalità capace di vincere la paura». C'è un'Italia che è tornata a Cinecittà, l'esaltazione del mondo antico, a ribadire che si ha da essere «nani sulle spalle dei giganti», ricordando, di tanto in tanto, l'Apolegeticum di Tertulliano e il minuzioso lavoro dei monaci amanuensi. E c'è un valore simbolico in Eco. Come detto da Teresa De Santis, direttrice di Rai 1, Eco è stato parte del gruppo cosiddetto dei corsari, istruito da Pier Emilio Gennarini per svecchiare la Rai. «È stato un punto di partenza per il Servizio pubblico di Filiberto Guala e, forse, potrà essere per noi un punto di rilancio. Ci aspettiamo grandissimi risultati». E chissà che Eco, che alla serie aveva dato il benestare, nell'epoca dominata dalla «democrazia degli imbecilli», non guardi giù, sorridendo al bel futuro che al suo libro immortale è stato accordato.
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