
Il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, spiega che con il caso dj Fabo è iniziata la «collaborazione» tra giudici supremi e deputati. Ovvero, quella in cui i magistrati ordinano ai parlamentari che leggi approvare.Non è da ieri l'altro che La Verità s'interroga se, alla Corte costituzionale, qualcuno sia tentato dalla teoria del giudice legislatore. Il sospetto, da ultimo, lo ha alimentato proprio il numero uno della Consulta, Giorgio Lattanzi. Nella sua relazione annuale sugli indirizzi della giurisprudenza, il presidente della Suprema corte ha commentato così la sentenza sul caso di dj Fabo: «Con l'ordinanza Cappato, la Corte ha inteso evidentemente riconoscere il primato delle Camere nel definire dettagliatamente la regolamentazione della fattispecie in questione, perciò confido fortemente che il Parlamento dia seguito a questa nuova forma di collaborazione nel processo di attuazione della Costituzione e non perda l'occasione di esercitare lo spazio di sovranità che gli compete».Abbiamo letto bene? Il giudice Lattanzi sostiene che la sentenza sulla costituzionalità del reato di aiuto al suicidio, con cui la Consulta ha dato mandato al Parlamento di approvare entro un anno una legge per regolamentare il fine vita, inaugura una «nuova forma di collaborazione» tra magistrati supremi e deputati. Con la sottile differenza che i primi, dal momento che devono controllare, appunto, la conformità delle norme approvate dalle Camere con i principi della Costituzione, non sono eletti; mentre i secondi, dal momento che devono fare le leggi, vengono scelti dai cittadini. È quella banalità che ha fatto grande l'Occidente: separazione e bilanciamento dei poteri, rappresentanza democratica. E invece, il presidente della Corte costituzionale dichiara coram populo non solo che la Consulta ha introdotto un principio di concorso in legiferazione con il Parlamento, ma che questa «nuova forma di collaborazione» esalta lo «spazio di sovranità» dei rappresentanti eletti. Sovrani, ma tenuti ad approvare le leggi che stabilisce la Suprema corte, in base agli orientamenti della Suprema corte.Già, perché nel caso di Marco Cappato, che infatti si è affrettato a ritwittare i virgolettati di Lattanzi, è successo proprio questo. La Consulta ha messo in chiaro: o fate una legge per «salvare» quelli come l'attivista radicale, che misericordiosamente aiutano i malati a farla finita, oppure saremo noi a dichiarare incostituzionale il reato che punisce chi aiuta una persona a suicidarsi, di fatto (anzi, di diritto) legalizzando la condotta di Cappato. È quello che Il Manifesto ha giustamente definito «interventismo costituzionale». Impreziosito, come se non bastasse, da un'altra perla del giudice Lattanzi, che ha esaltato la tecnica «di “incostituzionalità prospettata"». Tecnica che «sarebbe anzitutto un successo per la funzione rappresentativa del legislatore, che andrebbe perduta se tale funzione non fosse in concreto esercitata». Fuor di giuridichese: se la Corte ritiene esista un vuoto nell'ordinamento, allora minaccerà di dichiarare incostituzionale una norma per costringere il Parlamento a esercitare la sua funzione legislativo. E il Parlamento dovrà pure ringraziare i premurosi togati, che lo salvano dalla sua inerzia. Anche se quell'inerzia dipendesse dalla delicatezza di una materia etica, da insoluti conflitti di valore, o addirittura dalla convinzione che, in politica, a volte è meglio non fare nulla, piuttosto che fare un danno. Torna in mente il vecchio Jean Jacques Rousseau, quello che, con la scusa della «volontà generale», voleva sopprimere la libertà individuale per costringere gli individui a essere liberi. Pare che, con metodo analogo, i magistrati costituzionali vogliano costringere il Parlamento a essere sé stesso. Vincolarlo per liberarlo.Che di «interventismo» nemmeno più celato si tratti, lo confermano le altre affermazioni del presidente Lattanzi. Il quale, rispondendo alle domande sul caso Diciotti e sul voto del Senato che ha «scagionato» Matteo Salvini, ha spiegato: «Se l'autorità giudiziaria dovesse ritenere che la decisione è ingiustificata, allora può sollevare un conflitto di attribuzione. Poi, ovviamente, si vedrà se è ammissibile o meno». Un passaggio che suona come un velato suggerimento alle toghe: non datevi per vinti, c'è ancora una strategia per trascinare alla sbarra il ministro leghista. Per non parlare della stoccata sulle tentate riforme della Costituzione: «Dovremmo tenercela così com'è, visto che anche due leggi per cambiarla, sottoposte a referendum, sono abortite. Credo che le stesse persone che le hanno proposte oggi sono ben contente». E ancora: «La Costituzione non può essere cambiata a ogni pie' sospinto. Essa è frutto della guerra. Ci vorrebbero una situazione analoga e un accordo analogo per modificarla». Al che uno si chiede: ma la Corte costituzionale ha il compito di giudicare l'ammissibilità di un referendum, o di tifare per la sua riuscita o il suo fallimento? Ha il compito di controllare che le leggi ordinarie non confliggano con la Costituzione, o di stabilire che per riformarla ci vuole un'altra guerra mondiale? Pensavamo di averle viste tutte, quando è diventato di moda per i giudici mettersi in politica. Ma la realtà è sempre capace di stupirci. E forse stiamo per assistere all'era dei giudici che la politica la vogliono fare senza neppure farsi eleggere.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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