2019-05-11
Le rivolte antinomadi senza i gialloblù
Se ci sono sommosse di popolo contro i campi la causa non è in un governo che alimenterebbe un «clima di odio». Giusto o meno che sia, l'insofferenza verso le baraccopoli si è manifestata anche in città, regioni e con governi rossi.Molti Comuni hanno adottato il criterio della residenzialità storica: le assegnazioni premiano chi abita in città da molti anni e non i primi venuti Da Terni all'Aquila, ecco chi lo ha fatto.Lo speciale contiene due articoliLa rivolta degli abitanti di Casal Bruciato, pur nella ferma condanna di violenza, minacce e insulti, conferma un dato di fatto: i rom non sono ben visti, i residenti non li vogliono nei loro quartieri e se non lavorano, non pagano le tasse, se non vogliono integrarsi, se delinquono e rappresentano un problema sicurezza, saranno sempre meno accettati nelle nostre città. Non è colpa del clima politico, non sono le affermazioni del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ad agitare gli animi e a infuocare la protesta. L'insofferenza verso i rom non è atteggiamento degli ultimi mesi né è nata sotto questo governo, basta guardare un po' indietro negli anni per rendersi conto che è di lunga data e che ha caratterizzato scontri, rivolte non controllate né da destra, né da sinistra. Quando Giovanna Reggiani, 47 anni, moglie del capitano di vascello Giovanni Gumiero, fu assalita, violentata e massacrata il 30 ottobre del 2007 (durante l'ultimo governo Prodi) a Roma, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto e dell'omicidio venne accusato Romulus Nicolae Mailat, un muratore romeno di 24 anni alloggiato nel campo rom vicino alla stazione, le proteste degli abitanti contro i nomadi furono violentissime. La donna morì dopo due giorni di agonia, gli agenti perquisirono 78 baracche e 75 romeni, il campo a ridosso della stazione di Tor di Quinto venne raso al suolo, ma l'ondata di indignazione e di rabbia che si sollevò in città portò il sindaco piddino Walter Veltroni a dichiarare: «La sicurezza è una grande questione nazionale che chiama in causa iniziative d'urgenza sul piano legislativo». Aggiunse: «I prefetti devono poter espellere i cittadini comunitari che hanno commesso reati contro cose e persone», mentre il premier Romano Prodi cercava di tranquillizzare la città e l'intero Paese affermando che l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, era «d'accordo sul contenuto e l'urgenza del decreto legge sulle espulsioni». In quegli anni non era certo la destra al governo, nemmeno amministrava la capitale, eppure i rom finirono nel mirino sicurezza. Accade anche a Napoli, il 13 maggio del 2008. Era sindaco un altro esponente del Partito democratico, Rosa Russo Iervolino (già prima donna al ministero dell'Interno), quando il rione Ponticelli reagì con spranghe e molotov contro i nomadi che avevano ospitato una sedicenne, accusata di aver tentato di rapire una bimba di sei mesi. Centinaia di abitanti inferociti, al grido: «Basta, andatevene via», aggredirono con bastoni e taniche di benzina il grosso insediamento di via Malibran. Quattro baracche vennero bruciate, un ragazzo rom fu accoltellato. Francesca Pilla, la corrispondente del Manifesto prematuramente scomparsa due anni fa, scriveva di quelle giornate convulse: «Ieri nel pomeriggio un gruppo di donne ha preso a sassate e accerchiato per ore l'accampamento di via Argine. Poi sono arrivati anche i mariti armati di spranghe che hanno intonato “strani" cori, tipici dei cortei rossi, come è rossa Ponticelli: “La lotta è dura e non ci fa paura", il più gettonato». Avete capito? Contro i rom con canti comunisti. Altri accampamenti erano andati a fuoco dieci anni prima, nel campo abusivo di via Zuccarini a Scampia, come vendetta contro un rom ubriaco che aveva investito, uccidendole, due ragazze napoletane. Fu un rogo enorme, in quel giugno del 1999. Secondo l'allora assessore alle Politiche sociali, Maria Fortuna Incostante, per la paura lasciarono Napoli «circa 800-900 rom su 1200-1500 nomadi», raggiungendo Roma e Salerno. Ricordate chi era sindaco della città partenopea? Il piddino Antonio Bassolino, che l'anno seguente avrebbe lasciato la poltrona di primo cittadino per occupare quella di governatore della Regione Campania. Al governo si era da poco insediato Carlo Azeglio Ciampi, scelto dai partiti fuori dal Parlamento. Premier era Massimo D'Alema, subentrato al primo governo Prodi durato 876 giorni. Nel 2003, sempre a Napoli, in via Botteghelle a Portici, un campo allestito dal Comune e pronto per l'accoglienza di nomadi fu devastato dagli abitanti che non volevano saperne, mentre nell'estate dello stesso anno a Saviano, in provincia di Napoli, l'arrivo di rom negli autobus comunali fu accolto con schiaffi e calci. Nel 2008 «in molte città si verificavano episodi di aggressione verbale e fisica nei confronti di rom e romeni. A Milano, Genova, Viareggio, Trento, Asti e Bologna gruppi di cittadini protestavano contro la presenza dei campi nomadi nei loro quartieri. A Pisa, un giovane rom veniva aggredito e picchiato senza alcun motivo apparente», si legge nella Relazione sugli avvenimenti. Violenti attacchi contro la popolazione rom nel quartiere Ponticelli di Napoli, Italia dell'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali. Nel luglio del 2001, a Foggia don Francesco Lombardi usò il bastone per allontanare 32 famiglie nomadi accampate vicino al santuario di San Nazario. Tenne a precisare che la sua non era «una presa di posizione razzista o persecutoria; al contrario, è un invito alla tolleranza. Ma ci vuole decoro. La zona è il biglietto da visita del territorio». Gli diede ragione l'allora sindaco del vicino Comune di Poggio Imperiale, Onorato D'Amato (esponente di Forza Italia), commentando: «Purtroppo il problema è di carattere generale e nazionale. Come si fa a cacciare gli immigrati che abbiamo in Italia? Io una ricetta ce l'avrei, ma chissà se i miei superiori mi daranno retta». Sempre in quel luglio, ma a 1.500 chilometri di distanza, il primo cittadino di Grassobbio, alle porte di Bergamo, fece scavare una sorta di trincea profonda ottanta centimetri e lunga un centinaio di metri, per impedire alle auto e alle roulotte dei nomadi di entrare in un prato di proprietà comunale. Il solco fu poi ricoperto, ma l'idea del sindaco leghista Luciano Sangaletti rappresentò un segnale ben chiaro di chiusura verso gli accampamenti. Nel gennaio 2002, durante il secondo governo Berlusconi, i genitori di alcuni alunni della scuola elementare Pallavicino di Palermo tennero fuori dalla classe i figli, per protestare contro la presenza di sette bambini rom (fra gli 8 e gli 11 anni), imposta da un provvedimento del Tribunale per i minori. Le famiglie di diversi bambini palermitani avevano avvertito il direttore didattico che se i rom fossero stati accolti avrebbero fatto disertare le lezioni ai figli. In precedenza, anche in un'altra elementare palermitana, la De Gasperi, piccoli alunni non erano entrati in classe quando erano arrivati bimbi rom. Ed era sindaco di Roma Ignazio Marino, piddino, quando a marzo 2014 in una panetteria di Roma comparve il cartello «Vietato l'ingresso agli zingari», testimonianza di un'ostilità che andrebbe valutata non utilizzando solo parametri politici.Patrizia Floder Ritter<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-rivolte-antinomadi-senza-i-gialloblu-2636806730.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="esiste-una-soluzione-al-problema-delle-case-popolari-ai-soli-stranieri" data-post-id="2636806730" data-published-at="1757586446" data-use-pagination="False"> Esiste una soluzione al problema delle case popolari ai soli stranieri Garantire la giustizia sociale in materia di assegnazione delle case popolari è possibile. A dircelo sono le amministrazioni regionali e comunali che hanno adottato un semplice criterio, quello della residenzialità storica, che vale per tutti, italiani e stranieri. Questo criterio premia le famiglie già stanziate sul territorio e si applica mettendo un prerequisito di un minino di anni di residenza nella città, per accedere alla domanda con cui si fa richiesta di un alloggio di edilizia residenziale pubblica (Erp). Le giunte che hanno adottato questa soluzione non sono state mosse da alcun intento discriminatorio, ma si sono limitate a fare i conti con la realtà, che vedeva famiglie in graduatoria da anni essere ripetutamente superate da nuovi nuclei arrivati in città, quasi sempre stranieri, a reddito zero, privi di alcuna proprietà e assistiti in strutture di accoglienza. Insomma, gli ultimi degli ultimi superavano i poveri già stanziati da anni e si garantivano la maggior parte dei servizi del welfare. Un andazzo che, tra l'altro, non favoriva nemmeno l'integrazione e visto che il sistema metteva in una condizione di svantaggio anche gli immigrati già presenti sul territorio, con lavoro e un affitto pagato a caro prezzo. È successo quindi che molte amministrazioni hanno iniziato ad approvare nuovi regolamenti, ovviamente i più propensi all'adozione di questa misura sono state quelle di centrodestra, ma non mancano regioni e comuni «rossi» che non si sono fatti problemi ad introdurre il criterio di residenzialità. Difatti, nel 2015, l'assemblea regionale dell'Emilia Romagna, guidata dal centrosinistra, ha stabilito che per accedere a un alloggio Erp di qualsiasi comune bisogna essere residenti in quella località da almeno tre anni. Di anni ne ha invece richiesti cinque la Regione Veneto, governata dal leghista Luca Zaia, tramite la legge 39 del 2017. Anche la Liguria con il governatore forzista, Giovanni Toti, si è data nuove regole: come requisiti preliminari è necessaria la cittadinanza italiana o almeno 10 anni consecutivi di residenza sul territorio nazionale, in regola con la normativa in materia di immigrazione. Il criterio della residenzialità è stato reso ancora più robusto a Terni. Nella città umbra, amministrata dal giugno scorso da una coalizione di coalizione di centrodestra e dal primo cittadino leghista, Leonardo Latini, è stato approvato un nuovo regolamento per l'edilizia sociale che premia con 4 punti chi possiede almeno 15 anni di residenza continuativa in città. «In un momento come questo, ci è sembrato di buon senso riservare una priorità ai cittadini ternani e abbiamo ritenuto necessario aiutare quelle famiglie che hanno contribuito alla crescita economica del territorio e che vogliono restare qui», ha commentato alla Verità l'assessore Valeria Alessandrini. Emblematico è stato poi il caso dell'Aquila. Nella città ferita dal terremoto dal 2009 esisteva la concreata possibilità che gran parte dei nuovi alloggi del Comune realizzati a seguito del sisma venissero assegnati a nullatenenti stranieri, poiché era possibile farne richiesta anche se non si risiedeva a L'Aquila, forse un modo per invogliare a ripopolare la città. Fatto sta che il sindaco Pierluigi Biondi di Fratelli d'Italia, poco dopo essere entrato in carica nel 2017, ha rivisto i criteri mettendo come condizioni indispensabile cinque anni minimi di residenza e premiando con il massimo del punteggio coloro che avevano almeno 10 anni di residenza «sotto il Gran Sasso» prima del terremoto. «Il nostro ragionamento è stato che chi vuole venire a vivere a L'Aquila è perché la ama e non perché vuole ottenere una casa», ha spiegato Biondi al nostro giornale. Sono comunque decine in tutta Italia le amministrazioni pubbliche che hanno legiferato in questa direzione, come fa notare Gian Luigi Pascoletti, segretario del sindacato degli inquilini Federcasa, che esprime apprezzamento per questi interventi. Stupisce quindi che a Roma e nel Lazio, la proposta, avanzata da Fdi di inserire un criterio di residenzialità di appena 5 anni sia stata ostinatamente respinta dalla maggioranza 5 stelle al comune e ignorata dal Pd alla Regione. Marco Guerra
Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea (Getty Images)
Manfred Weber e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Ursula von der Leyen (Ansa)