2022-09-25
Le poesie e i sogni di Clara nascono tra le foglie del platano bicentenario
Il grande vegliardo sta da 250 anni nell’orto botanico di Pavia. Sotto le sue fronde una giovane universitaria cerca l’ispirazione con un taccuino in mano. Seguendo le orme dei suoi miti romantici: Shelley, Byron e Keats.C’è una giovane poetessa di nome Clara, è studentessa di Lettere moderne all’università, ama tutto quel piccolo mondo reciso e ombroso che secondo lei, quantomeno, incarna il profondo spirito caduco che attrae, come un magnete, lo spirito del poeta. Ama in particolar modo la poesia maschile inglese romantica, Shelley, Byron, Keats e le ballate liriche, il marinaio, gli amori impossibili e le nostalgie sbocciate nella nebbia. Dei fiori che raccoglie in giardino ama più che la bellezza di quei giorni d’incanto, le ore che seguono, il fiore che appassisce, le teste che si reclinano, le foglie che sciupano. Anche i colori si fanno meno intensi, meno sfacciati, quasi volessero per un eccesso di timidezza farsi da parte, scomparire, rendersi poco o per nulla visibili.Quando Clara pensa alle rose del suo giardino sciupate, pensa che esistano dei minuscoli attori che si travestono ma con abiti diversi: nei primi giorni sono abiti da gran galà, da carnevale di Rio de Janeiro nel Sambodromo; nei giorni a lei preferiti, invece, sono abiti scoloriti, vecchi, di feste di paese, magari dismessi venti o trent’anni addietro. Ci sono poeti, e poetesse, che amano il fulgore, la lucentezza, il colmo dell’eleganza e della perfezione, l’inappuntabilità, se esiste la parola (esiste?). E ci sono poeti, e poetesse, che amano la dimenticanza, l’uscita di scena mesta, forse si potrebbe dire addirittura il declino, l’invecchiamento, l’impoverimento. Quando riesce, si organizza e vaga in giro per la sua città e nei territori della provincia a caccia di ruderi, di chiese abbandonate, di monasteri spettrali. Ama gli affreschi precipitati, ammuffiti, irriconoscibili. Le statue senza braccia e senza mani, con vaghi rigonfiamenti al posto del viso. La sua stagione preferita è l’autunno, ma non proprio il cadere delle foglie dei pioppi e degli olmi, o i boschi di faggio tutti colorati, tra sentieri ricoperti di foglie. No, ama il dopo, quando i rami sono completamente spogli, le foglie già macerate da giorni di pioggia, le nebbie tagliano in due i paesi, le case, le torri.Quelle settimane di transizione tra l’autunno secco e coloratissimo, sgargiante, e l’inverno che alle quattro del pomeriggio invoca già il buio, tutti stretti-stretti nei cappotti, gli occhi bassi, qualche pensiero fugace alle prossime feste di Natale, i regali da fare, il cenone e cose così.Clara abita a Pavia. C’è un posto che occupa uno spazio d’onore nel suo cuore: l’antico orto botanico. Fu istituito nel 1773, contemporaneamente alla nascita dell’orto botanico di Brera, in epoca austriaca. Cinque anni più tardi, il naturalista Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788), docente trentino di chimica e botanica e direttore del neonato orto pavese, pianta alcuni alberi tra i quali l’albero che oggi, 250 anni dopo, ne è diventato il simbolo: un platano spagnolo o ibrido, nato dall’incrocio tra un platano orientale - i primi platani presenti in Italia fin dai tempi dei fenici e dei romani - e un platano occidentale o nordamericano. Il nome latino è Platanus hispanica, nome spesso soppiantato da Platanus x acerifolia, platano ibrido (x) con la foglia a forma di acero (a cinque punte, tipo bandiera del Canada). C’è chi dice che questo albero venne piantato in onore della scomparsa del padre della botanica sistematica, lo svedese Carlo Linneo.Un recente studio di stabilità ha decreta che il grande albero ha raggiunto un’altezza di 45 metri, una circonferenza del tronco pari a 10 metri (a petto d’uomo) e un’ampiezza della chioma di ben 30 metri. Davvero uno dei platani più maestosi presenti in Lombardia e nel nord Italia. Si trova al centro dell’arboreto dell’orto, è un vero gigante che sorveglia il quartiere, svettando anche al di sopra dei tetti circostanti. Il suo tronco procede dritto-dritto verso l’alto, aprendosi in tanti rami, di cui alcuni sparati nel cielo e altri ricurvi verso il basso. Parte del vasto piede è ricoperto di muschi che indicano la direzione della stella polare. Gli alberi e le profondità della terra dialogano con le distanze planetarie. C’è un laghettino circolare vicino all’albero, Clara si inginocchia spesso lì, quando viene in visita, slaccia le scarpe da ginnastica e si inginocchia aprendo lo zaino.Talvolta ne tira fuori il libro da studiare per il prossimo esame, talora invece sono i suoi poeti romantici che le fanno degna compagnia. E talora è un taccuino, uno di quelli che lei usa portarsi appresso, come fosse una protesi d’ombra. Vi lei cuce le parole e gli spazi bianchi, descrive i suoi sentimenti, le sue fantasie, prova a comporre dei testi che audacemente vorrebbe che qualcuno chiamasse poesie.Ma poi ci pensa e dice: ma come puoi tu pensare di essere una poetessa, magari addirittura una grande poetessa, come lo sono stati quegli uomini spesso molto sfortunati, dei tempi di una volta, quando rispondere alla domanda «Che lavoro svolge lei, Signore?», con un «Sono un poeta» portava la gente a sollevare la manica degli abiti per nascondersi il volto, per celare quel sorriso tutt’altro che benevolo. E per di più lei è una poetessa, una donna, e anche se oggi le poetesse sono molte, come Alda Merini, come Patrizia Cavalli, la Valduga, Mariangela Gualtieri o Chandra Candiani, che cosa lei si crede davvero di poter scoprire e quindi di poter dire? Di poter enunciare? Clara viene qui, sotto il grande vegliardo arboreo, il testimone vivente della storia di questa città, dei suoi cambiamenti, delle sue famiglie, le sue radici fonde che magari pescano addirittura nelle acque del Ticino, o così almeno a lei piace immaginare. Prova ad farsi innervare dai rumori sfrigolanti delle sue foglie che il vento accarezza e smuove, scodinzolando tra le chiome degli alberi. Chissà dove è nato il vento che in questo pomeriggio spira, se è di qui, di queste zone, delle campagne lavorate attorno a Pavia, o se invece è un vento straniero, un vento di esplorazione, un vento che si porta dietro i canti di altri uccelli e i sogni di altri popoli diversi dal suo, diversi da lei.Apre il taccuino dalla copertina nera e scrive una parola, al centro, in cima, anzi due: «Tu, albero».