2019-12-27
«Le mie fatine in questo Stato da horror»
Iginio Straffi ha inventato le Winx, fenomeno imprenditoriale mondiale. Adesso lancia «44 gatti», serie animata e musical: «La penso come antidoto al bullismo. All'estero i miei concorrenti sono agevolati. Da noi norme e vincoli ci soffocano. Per non parlare del fisco».Iginio Straffi, classe 1965, marchigiano di Gualdo, in quel di Macerata, è il presidente di Rainbow, la «fabbrica di contenuti» da lui fondata nel 1995, famosa nel mondo soprattutto per le fatine Winx.Una storia imprenditoriale di successo al punto che la London business school ne ha fatto una case history per gli studenti di strategia e management internazionale: cartoni animati e merchandising, bambole e oggettistica.Alle Winx si sono ora affiancati i 44 gatti, serie animata appena premiata come la migliore allo Xiamen international animation festival in Cina, un mercato da 250 milioni di persone, calcolando solo la fascia da 0 a 14 anni. Il titolo è proprio quello della canzoncina forse più celebre dello Zecchino d'oro, anno Domini 1968, che è anche un musical ora nei teatri: un inno all'uguaglianza, all'amicizia, al non fermarsi alle apparenze, «mi piace pensarla anche come un antidoto al bullismo», aggiunge Straffi. I suoi agiografi la descrivono come «il Walt Disney tricolore», c'è chi si spinge a definire le Winx, con Pinocchio, il prodotto della fantasia italica più conosciuto all'estero. Io però vorrei partire da una domanda ineludibile: perché i suoi genitori ce l'avevano così tanto con lei da appiopparle il nome Iginio?«Era il nome di uno zio di mio padre, andato in America a cercare fortuna a inizio Novecento. E la fece, consentendo alla famiglia qui in Italia di comprare terreni e intraprendere attività nel commercio. Però può immaginare l'effetto che ebbe su di me il vedere il mio nome su una lapide al cimitero, sotto la foto di un vetusto antenato».Le Winx hanno compiuto 15 anni, con otto serie tv distribuite in 150 paesi. Perché ha scelto questo nome?«Hanno le ali, wings in inglese. Come è facilmente intuibile sotto il profilo dei diritti di sfruttamento, non era un termine utilizzabile. Basti solo pensare al nome della band di Paul McCartney e sua moglie Linda. Del resto, anche i Pokemon giapponesi si chiamano così perché Pocket monsters sarebbe andato in rotta di collisione con i Monster in my pocket della Mattel». Sono anche uno show itinerante da tutto esaurito. Un fenomeno maturo?«Tutt'altro. L'anno prossimo arriverà perfino un live action in collaborazione con Netflix, una serie tv con Winx in carne ed ossa».Lavorare con gli americani di Netflix è stato difficile?«No. Fin da quando le Winx sono esplose ho ragionato in termini di mercato internazionale. Ho “girato" da sempre in inglese perché nessuno parla italiano fuori dai nostro confini, e negli Usa non amano il doppiaggio. Dopo di che, visto che la serie con Netflix andrà in onda contemporaneamente in 190 Paesi, è chiaro che a un pubblico di 20 o 30 anni non si possono raccontare le stesse storie di un cartone per bambine». Tutto inizia nel 2004: sei eroine che sono studentesse di un college per aspiranti fate. Come le venne l'idea?«Dall'osservazione del mercato. Molti cartoni avevano eroi maschili, ma c'era un vuoto: niente che facesse sognare le bambine. Così ho pensato di offrire loro qualcosa in cui identificarsi: ho svecchiato l'immagine delle fate tradizionali, facendole giovanissime, ispirandomi a personaggi noti: per Bloom, Britney Spears; per Stella, Cameron Diaz; per Flora, Jennifer Lopez; per Musa, Lucy Liu; per Aisha, Beyoncé; per Tecna, Pink. E ribaltando i canoni: non aspettano il principe azzurro, sono loro a salvare i maschi». Fatine femministe?«Direi piuttosto ambasciatrici di valori come amicizia, positività, generosità».E beltà: sono tutte avvenenti, non ce n'è una che sia, che so, paffutella. Roba da far scattare il piagnisteo del politicamente corretto in nome dell'egualitarismo.«In realtà provammo a inserire un personaggio così, ma non funzionò. Il meccanismo d'identificazione scatta con il modello da emulare. Ne ho avuto la certezza quando una bambina mi disse: “Io sono Stella", una delle sei protagoniste. Pensai: si riferirà al carattere, visto che la fatina è bionda e snella, e lei cicciottella e castana. Invece riusciva a vedersi fisicamente proprio come lei: “È uguale a me"». Da chi ha ereditato la passione per carta e matite?«Forse da mia madre, ma solo perché era una sarta e quindi usava quei materiali per disegni e misure. Mio padre invece era un'autista di pullman. Volevano che dopo il liceo scientifico puntassi alla laurea per trovare il classico posto fisso, una casa, una famiglia. Ma io ho sempre coltivato l'ottimismo della volontà. Con l'ansia di fare, anche perché continuo a pensare che è meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi ugualmente. Però tuttora appena raggiungo un traguardo non riesco a godermelo perché devo subito darmi una nuova sfida da affrontare. Ha presente Bruce Chatwin, uno dei miei scrittori preferiti?».Anatomia dell'irrequietezza?«Perfetto. Volevo raccontare storie a fumetti. A 13 anni scrissi a Sergio Bonelli, il papà di Tex, perché sognavo di lavorare con lui. Anche se ero più affascinato da Ken Parker, personaggio atipico del genere western». I suoi alla fine li ha comunque accontentati: ha una moglie, una figlia, un'azienda - con una sede avveniristica a Loreto, con tanto di strutture sportive e asilo per i figli dei dipendenti, per metà donne - che impiega un migliaio di persone tra Italia ed estero, un patrimonio personale stimato dal mensile Gq in 400 milioni di euro.«Avrebbero dovuto aggiungere: potenziali, anche perché tutti i miei guadagni li ho sempre reinvestiti nella Rainbow. Quanto alla sede, è stata disegnata e progettata da mia sorella Elisabetta e suo marito Sergio Bianchi, architetti, con la collaborazione di quel grande visionario di Syd Mead, il designer di Alien e di Blade Runner, film culto della mia giovinezza, che è un loro amico». A quanto si attesta il suo fatturato?«A 85 milioni. Se pensa che il primo lavoro, un cd interattivo, me lo pagarono con un assegno scoperto... ».Con Bonelli andò meglio?«Certo, a 22 anni guadagnavo una cifra che oggi corrisponderebbe a 2.000 euro al mese. Disegnavo le tavole di Nick Raider, investigatore della squadra omicidi di New York. Ma nel 1992, a 27 anni, con un gesto di lucida follia mi trasferii a Parigi per lavorare in una società che realizzava film di animazione. Volevo passare dai disegni su carta alle immagini in movimento. Feci un'esperienza di due anni, poi tornai per aprire il mio primo studio. Da cui nel 1995 nacque la Rainbow». Quanto investì?«90 milioni di lire, insieme a don Lamberto Pigini, un sacerdote impegnato nella qualificazione professionale dei giovani della zona e l'imprenditore Giuseppe Casali, che hanno poi venduto nel 2011 - con soddisfazione, visti i multipli - le loro quote, pari al 30%, agli americani della Viacom (gigante mondiale per i contenuti di intrattenimento: Paramount pictures, Dream worksmovie studios, Mtv, Nickelodeon, ndr)». Da lì una marcia trionfale: nel 1999 il cartoon Tommy&Oscar, trasmesso in 40 Paesi. Cinque anni dopo, le Winx. Poi addirittura un parco tematico a Valmontone, a sud di Roma.«Il Rainbow magic land è un investimento da 300 milioni di euro, in cui noi siamo soci di minoranza, titolari del 10%. Nel 2015 abbiamo invece acquisito in prima persona la canadese Bardel entertainment: in dote, collaborazioni con Disney, Warner Bros, Cartoon network, e un patrimonio tecnologico di primissimo piano».Che c'entra lei con la Colorado film e con lo scrittore di best seller Donato Carrisi?«Siamo entrati al 60% nel gruppo Iven, di cui fa parte Colorado film di Maurizio Totti, Diego Abatantuono e Gabriele Salvatores, che però ne è uscito. Mentre con Carrisi, autore e regista di film come La ragazza nella nebbia, abbiamo dato vita a Gavila, etichetta dedicata al noir.». Vi siete avvicinati due volte alla Borsa per la quotazione, ma poi vi siete fermati, ritirando l'Ipo, l'offerta pubblica. Come mai?«Nel 2008 il contagio partito con lo scandalo dei mutui subprime negli Usa ci ha fatto desistere. Dieci anni dopo, ci siamo ritrovati nelle turbolenze successive al voto del 4 marzo, con l'Italia di nuovo al centro del ciclone spread, e andare avanti in condizioni di mercato non favorevoli non avrebbe avuto senso».All'estero la maionese impazzita della politica italiana come la giudicano?«L'instabilità è valutata negativamente. Poi ci sono gli echi delle polemiche nostrane, come quella sul presunto fascismo di Matteo Salvini. Cerco di spiegare che - per quanto si tratti di persona lontana da me quanto a toni, modi e stile - non è la reincarnazione di Benito Mussolini, ma un politico che ha intercettato, strumentalmente quanto si vuole, un disagio che con evidenza covava sotto la cenere e che nessuno ha saputo o voluto affrontare prima. Per esempio con un'immigrazione non regolata, che non si è tradotta in un'integrazione funzionante. Ma i veri problemi per chi fa impresa rimangono comunque altri».Tipo?«All'estero i miei concorrenti sono aiutati, sovvenzionati, agevolati dallo Stato. Da noi le norme, i vincoli e i tempi infiniti della burocrazia spesso ci soffocano. Per non parlare del peso del fisco. Mi è capitato di veder definito come spesa indeducibile una consulenza forfettaria da 70.000 euro - si badi: annuale - al mio avvocato perché non c'erano sufficienti prove documentali a sostegno. Quindi la prossima volta in cui discuto verbalmente con lui i termini di un contratto o di un accordo, dovrò registrare o fotografare l'incontro, così da fornire un adeguato riscontro dell'accaduto. Vi sembra un sistema razionale? A me, più che un allegro cartoon, pare un film horror».