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2020-04-27
Le mani straniere si allungano sulle aziende in crisi
iStock
Banche che finanziano soggetti stranieri per acquisire aziende italiane fiaccate dalla crisi, strategie predatorie perseguite entrando nel capitale delle società con quote di minoranza per condizionarne la direzione e poi impadronirsene, servizi segreti esteri che passano al setaccio i migliori brevetti made in Italy affinché le «rapine» siano a colpo sicuro. Il fenomeno dell'Italia in svendita è sotto l'attenzione dell'intelligence che se ne sta occupando da diversi anni.
A gennaio il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza) ha avviato delle audizioni, cominciando da banche e assicurazioni, per comprendere il rischio di scalate ostili dall'estero ad aziende strategiche italiane. Tra le manovre indagate c'è anche quella di banche che concedono prestiti a società estere per scalare le nostre imprese. Il Comitato starebbe riflettendo se sentire anche i rappresentanti italiani di Deutsche Bank, oltre ai vertici di Unicredit, Generali, Mediobanca, Ubi, Crédit Agricole Italia, Intesa SanPaolo e Mps. I servizi già nella relazione annuale del 2018 avevano sottolineato il fenomeno dell'incunearsi nei consigli d'amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da Stati esteri. La relazione non indica le nazioni in ballo ma è noto che alcuni Stati hanno un sistema di intelligence economica molto aggressiva: la Francia, la Cina e la Russia. All'attenzione dell'intelligence è anche l'ipotesi che banche italiane e estere abbiano utilizzato i risparmi italiani per finanziare operazioni di acquisizioni internazionali di dominio globale di soggetti stranieri concorrenti di quelli italiani in settori fondamentali del made in Italy.
Le banche e le assicurazioni estere sono zeppe di titoli del debito pubblico italiano, ne possiedono circa un terzo. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt, il primo investitore estero nel nostro debito (esclusa la Bce) è la Francia. Banche e assicurazioni d'oltralpe detengono oltre 285 miliardi di euro in titoli di Stato italiani (secondo i dati di Bloomberg e Eba), più del triplo degli istituti tedeschi (58 miliardi) e degli spagnoli (21 miliardi). Le banche francesi hanno acquisito due importanti gruppi italiani (Bnl da parte di Bnp Paribas e CariParma da parte di Credit Agricole). A questo tema si aggiunge quello dei Npl, i crediti deteriorati che le banche italiane hanno ceduto a grossi fondi stranieri, dimezzando la zavorra da 360 miliardi di euro. Questa massa critica rischia di tornare a crescere, come evidenziato dal generale Luciano Carta, in audizione quando era ancora direttore dell'Aise. Non solo. Tali gruppi internazionali potrebbero rivalersi sulle imprese a cui fanno capo gli Npl con condizioni da usura, come conferma Adolfo Urso.
Il presidente del Copasir Raffaele Volpi ha detto che intende verificare se nel medio e breve periodo «si intravedono azioni internazionali che con la raccolta dei risparmi degli italiani abbiano direttamente o indirettamente aperto linee di credito ingenti a soggetti fuori dal Paese, ascrivibili forse addirittura a quell'elenco di attori interessati all'aggressione degli asset nazionali». I servizi segreti, nella relazione annuale, avevano evidenziato l'interesse costante da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo, specialmente delle Pmi. Poi hanno acceso i riflettori su quelle strategie d'investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali del settore manifatturiero, si sono tradotte nell'acquisizione di marchi e brevetti e nella delocalizzazione dei siti produttivi trasferendo oltre confine i centri decisionali. Contro le scalate ostili, il decreto liquidità ha esteso la Golden Power a nuovi settori strategici. Ma questo scudo non basta. La vera protezione delle impresa è la liquidità.
Le Pmi sono la preda più ambita. Alta tecnologia, pochi dipendenti, prodotti competitivi, grande flessibilità, sono le caratteristiche che le rendono uniche al mondo. Rappresentano circa il 90% del nostro tessuto produttivo. Le più competitive sono raggruppate nei circa 200 distretti manifatturieri e di questi oltre la metà sono impegnati nelle lavorazioni tipiche del Made in Italy, come l'agroalimentare, la moda e l'arredamento. Solo nel Nord Est se ne trovano più di 40, circa il 27% del totale nazionale. I più conosciuti sono quello della scarpa del Brenta, l'orafo vicentino, l'occhialeria di Belluno, il distretto del Prosecco, in provincia di Treviso. In Friuli c'è il distretto della sedia di Manzano, del coltello di Maniago o il famoso agroalimentare di San Daniele. Una particolarità di questa regione, poi, è il distretto delle tecnologie digitali Ditedi che ingloba 800 imprese in provincia di Udine, una piccola Silicon Valley italiana. Hanno un know how altissimo. Solo per gli occhiali si contano tremila marchi. Giovanni Lo Faro, amministratore delegato di Modo Eyewear, fabbrica di montature in Cadore, dice: «Oltre al colosso Luxottica c'è un mondo di migliaia di piccole aziende con mezzo milione di fatturato ma super specializzate e molto competitive. Quando un'azienda vive investendo gran parte del fatturato in innovazione e all'improvviso si trova bloccata e senza liquidità diventa facile preda. E se ha alta tecnologia è più appetibile».
Agnese Lunardelli, imprenditrice di Venezia con un'azienda di serramenti e arredamento, dice che nella sua regione l'avanzata cinese è strisciante e sistematica. «Basta guardarsi attorno: commercio e ristorazione sono nelle loro mani. Procedono in silenzio, magari iniziando con partnership e poi si impossessano dell'azienda. Oppure mettono un socio. La crisi che seguirà al Covid rischia di accelerare questo processo». L'unica salvezza è dare liquidità, afferma Lunardelli, «ma non nella formula del prestito garantito che comunque è un debito. Chi ha l'acqua alla gola non pensa a indebitarsi». Paolo Bastianello è un imprenditore veneto nel settore moda. «Le nostre aziende sono le più esposte. Stiamo perdendo quote di mercato. Facciamo gola soprattutto a cinesi e giapponesi. Talvolta ai gruppi esteri basta il marchio, poter scrivere made in Italy».
Nel Nord Ovest altri 40 distretti anche qui di piccole realtà come nel settore florovivaistico, nella cosmesi oltre all'indotto Fiat. Nel sud sono più di 10.000 le Pmi con 140.000 occupati. Se è in atto un'azione di intelligence straniera volta a individuare i migliori brevetti italiani per poi procedere con strategie di acquisto, il mirino è puntato sui distretti. Lì la pesca di qualità è sicura.
Le manovre dei fondi speculativi per impadronirsi degli hotel italiani
I fondi speculativi internazionali si sono già fatti avanti. Stanno fiutando quali sono gli affari migliori, le prede più deboli, i ribassi che possono spuntare. Non hanno fretta. Sanno che tra un paio di mesi, quando la crisi comincerà a mordere davvero, potranno passare con la rete a strascico.
Nomi non ne vuole fare il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ma dice che le grandi manovre per accaparrarsi i più prestigiosi asset alberghieri sono cominciate. Gli avvoltoi del Covid non hanno perso tempo. «Fino a due mesi fa era l'albergatore a fare il prezzo, ora sfiancato dall'azzeramento del fatturato, con i costi che continuano a correre, senza sapere quando e come riaprirà, potrebbe essere costretto a vendere alle condizioni del compratore. E, mi creda, liquidità in giro ce n'è tanta. La Cina è stata la prima a uscire dall'emergenza Covid, la sua economia ha ripreso a marciare e non ha mai nascosto l'interesse per i nostri gioielli turistici. Fino a gennaio c'era più domanda che offerta, figurarsi ora».
I grandi brand internazionali hanno avviato da tempo una strategia di espansione nelle principali città italiane. Molti hanno puntato sul franchising per la difficoltà di acquisire asset. Ora il gioco potrebbe essere più facile.
«I fondi speculativi sanno che passata la tempesta, il settore si riprenderà. Noi già sappiamo che faremo un buon 2021. Il problema è il 2020. Quindi acquistare oggi, a prezzi bassi con tassi bancari ai minimi, consente di realizzare, dal prossimo anno, grosse plusvalenze. I fondi non investono comprando Btp. Mi aspetto il passaggio di mano anche di grandi proprietà immobiliari da trasformare in alberghi di lusso» ci spiega Bernabò Bocca.
L'unico scudo, sostiene Federalberghi, è dare liquidità alle aziende. «Ma non tramite il Decreto liquidità perché rappresenta un ulteriore indebitamento, i soldi arrivano in ritardo e sei anni di finanziamento e tre di preammortamento in una situazione in cui il 2020 è bruciato, è una strada senza uscita».
Le offerte più sfacciate si registrano sulla costiera romagnola. Gli albergatori ne stanno ricevendo in continuazione talvolta con toni da stalking usuraio. «Ora ti offriamo tot milioni, se aspetti tre mesi te ne diamo due terzi e se ci pensi ancora ti prendi la metà».
Così il proprietario dell'albergo, con la cassa a secco che ha investito nell'ammodernamento della struttura facendo con un mutuo, se fino a due mesi fa avrebbe messo alla porta l'acquirente, anche in malo modo, ora fa fatica a non prendere in considerazione l'offerta. Tanto più che oltre ai soldi cash, spesso il passaggio di proprietà prevede il trasferimento dei debiti.
Simone Battistoni, proprietario di uno stabilimento a Cesenatico e presidente del sindacato balneari dell'Emilia-Romagna, ci riferisce che la Guardia di Finanza sta facendo girare un questionario per verificare se sono state vendute quote di aziende. «Io penso però che se qualcuno vuole fare l'affare e speculare sulle nostre difficoltà, aspetta la fine dell'estate quando ci saremo fatti male davvero. Chi ora è con l'acqua alla gola, tra un paio di mesi è affogato» dice Battistoni.
Queste situazioni sono arrivate all'attenzione delle istituzioni. Dietro agli acquirenti stranieri potrebbe anche nascondersi un giro di denaro sporco, riconducibile alla malavita. Non a caso il Viminale ha diramato una circolare a tutti i prefetti lanciando l'allarme sul rischio di infiltrazioni mafiose in settori resi vulnerabili dalla crisi.
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Fiaccate dallo stop, le nostre imprese fanno gola oltralpe. L'allarme del Copasir che teme scalate ostili, anche con l'aiuto dei servizi segreti esteri. Sotto osservazione le mosse di Pechino, Parigi e Mosca.Bernabò Bocca (Federalberghi): «Molte strutture senza incassi finiranno per svendere I cinesi hanno già cominciato a muoversi» E il Viminale ha allertato i prefetti sul rischio di infiltrazioni della malavita.Lo speciale contiene due articoli.Banche che finanziano soggetti stranieri per acquisire aziende italiane fiaccate dalla crisi, strategie predatorie perseguite entrando nel capitale delle società con quote di minoranza per condizionarne la direzione e poi impadronirsene, servizi segreti esteri che passano al setaccio i migliori brevetti made in Italy affinché le «rapine» siano a colpo sicuro. Il fenomeno dell'Italia in svendita è sotto l'attenzione dell'intelligence che se ne sta occupando da diversi anni. A gennaio il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza) ha avviato delle audizioni, cominciando da banche e assicurazioni, per comprendere il rischio di scalate ostili dall'estero ad aziende strategiche italiane. Tra le manovre indagate c'è anche quella di banche che concedono prestiti a società estere per scalare le nostre imprese. Il Comitato starebbe riflettendo se sentire anche i rappresentanti italiani di Deutsche Bank, oltre ai vertici di Unicredit, Generali, Mediobanca, Ubi, Crédit Agricole Italia, Intesa SanPaolo e Mps. I servizi già nella relazione annuale del 2018 avevano sottolineato il fenomeno dell'incunearsi nei consigli d'amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da Stati esteri. La relazione non indica le nazioni in ballo ma è noto che alcuni Stati hanno un sistema di intelligence economica molto aggressiva: la Francia, la Cina e la Russia. All'attenzione dell'intelligence è anche l'ipotesi che banche italiane e estere abbiano utilizzato i risparmi italiani per finanziare operazioni di acquisizioni internazionali di dominio globale di soggetti stranieri concorrenti di quelli italiani in settori fondamentali del made in Italy. Le banche e le assicurazioni estere sono zeppe di titoli del debito pubblico italiano, ne possiedono circa un terzo. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt, il primo investitore estero nel nostro debito (esclusa la Bce) è la Francia. Banche e assicurazioni d'oltralpe detengono oltre 285 miliardi di euro in titoli di Stato italiani (secondo i dati di Bloomberg e Eba), più del triplo degli istituti tedeschi (58 miliardi) e degli spagnoli (21 miliardi). Le banche francesi hanno acquisito due importanti gruppi italiani (Bnl da parte di Bnp Paribas e CariParma da parte di Credit Agricole). A questo tema si aggiunge quello dei Npl, i crediti deteriorati che le banche italiane hanno ceduto a grossi fondi stranieri, dimezzando la zavorra da 360 miliardi di euro. Questa massa critica rischia di tornare a crescere, come evidenziato dal generale Luciano Carta, in audizione quando era ancora direttore dell'Aise. Non solo. Tali gruppi internazionali potrebbero rivalersi sulle imprese a cui fanno capo gli Npl con condizioni da usura, come conferma Adolfo Urso. Il presidente del Copasir Raffaele Volpi ha detto che intende verificare se nel medio e breve periodo «si intravedono azioni internazionali che con la raccolta dei risparmi degli italiani abbiano direttamente o indirettamente aperto linee di credito ingenti a soggetti fuori dal Paese, ascrivibili forse addirittura a quell'elenco di attori interessati all'aggressione degli asset nazionali». I servizi segreti, nella relazione annuale, avevano evidenziato l'interesse costante da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo, specialmente delle Pmi. Poi hanno acceso i riflettori su quelle strategie d'investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali del settore manifatturiero, si sono tradotte nell'acquisizione di marchi e brevetti e nella delocalizzazione dei siti produttivi trasferendo oltre confine i centri decisionali. Contro le scalate ostili, il decreto liquidità ha esteso la Golden Power a nuovi settori strategici. Ma questo scudo non basta. La vera protezione delle impresa è la liquidità. Le Pmi sono la preda più ambita. Alta tecnologia, pochi dipendenti, prodotti competitivi, grande flessibilità, sono le caratteristiche che le rendono uniche al mondo. Rappresentano circa il 90% del nostro tessuto produttivo. Le più competitive sono raggruppate nei circa 200 distretti manifatturieri e di questi oltre la metà sono impegnati nelle lavorazioni tipiche del Made in Italy, come l'agroalimentare, la moda e l'arredamento. Solo nel Nord Est se ne trovano più di 40, circa il 27% del totale nazionale. I più conosciuti sono quello della scarpa del Brenta, l'orafo vicentino, l'occhialeria di Belluno, il distretto del Prosecco, in provincia di Treviso. In Friuli c'è il distretto della sedia di Manzano, del coltello di Maniago o il famoso agroalimentare di San Daniele. Una particolarità di questa regione, poi, è il distretto delle tecnologie digitali Ditedi che ingloba 800 imprese in provincia di Udine, una piccola Silicon Valley italiana. Hanno un know how altissimo. Solo per gli occhiali si contano tremila marchi. Giovanni Lo Faro, amministratore delegato di Modo Eyewear, fabbrica di montature in Cadore, dice: «Oltre al colosso Luxottica c'è un mondo di migliaia di piccole aziende con mezzo milione di fatturato ma super specializzate e molto competitive. Quando un'azienda vive investendo gran parte del fatturato in innovazione e all'improvviso si trova bloccata e senza liquidità diventa facile preda. E se ha alta tecnologia è più appetibile».Agnese Lunardelli, imprenditrice di Venezia con un'azienda di serramenti e arredamento, dice che nella sua regione l'avanzata cinese è strisciante e sistematica. «Basta guardarsi attorno: commercio e ristorazione sono nelle loro mani. Procedono in silenzio, magari iniziando con partnership e poi si impossessano dell'azienda. Oppure mettono un socio. La crisi che seguirà al Covid rischia di accelerare questo processo». L'unica salvezza è dare liquidità, afferma Lunardelli, «ma non nella formula del prestito garantito che comunque è un debito. Chi ha l'acqua alla gola non pensa a indebitarsi». Paolo Bastianello è un imprenditore veneto nel settore moda. «Le nostre aziende sono le più esposte. Stiamo perdendo quote di mercato. Facciamo gola soprattutto a cinesi e giapponesi. Talvolta ai gruppi esteri basta il marchio, poter scrivere made in Italy». Nel Nord Ovest altri 40 distretti anche qui di piccole realtà come nel settore florovivaistico, nella cosmesi oltre all'indotto Fiat. Nel sud sono più di 10.000 le Pmi con 140.000 occupati. Se è in atto un'azione di intelligence straniera volta a individuare i migliori brevetti italiani per poi procedere con strategie di acquisto, il mirino è puntato sui distretti. Lì la pesca di qualità è sicura. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-mani-straniere-si-allungano-sulle-aziende-in-crisi-2645848486.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-manovre-dei-fondi-speculativi-per-impadronirsi-degli-hotel-italiani" data-post-id="2645848486" data-published-at="1587923965" data-use-pagination="False"> Le manovre dei fondi speculativi per impadronirsi degli hotel italiani I fondi speculativi internazionali si sono già fatti avanti. Stanno fiutando quali sono gli affari migliori, le prede più deboli, i ribassi che possono spuntare. Non hanno fretta. Sanno che tra un paio di mesi, quando la crisi comincerà a mordere davvero, potranno passare con la rete a strascico. Nomi non ne vuole fare il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ma dice che le grandi manovre per accaparrarsi i più prestigiosi asset alberghieri sono cominciate. Gli avvoltoi del Covid non hanno perso tempo. «Fino a due mesi fa era l'albergatore a fare il prezzo, ora sfiancato dall'azzeramento del fatturato, con i costi che continuano a correre, senza sapere quando e come riaprirà, potrebbe essere costretto a vendere alle condizioni del compratore. E, mi creda, liquidità in giro ce n'è tanta. La Cina è stata la prima a uscire dall'emergenza Covid, la sua economia ha ripreso a marciare e non ha mai nascosto l'interesse per i nostri gioielli turistici. Fino a gennaio c'era più domanda che offerta, figurarsi ora». I grandi brand internazionali hanno avviato da tempo una strategia di espansione nelle principali città italiane. Molti hanno puntato sul franchising per la difficoltà di acquisire asset. Ora il gioco potrebbe essere più facile. «I fondi speculativi sanno che passata la tempesta, il settore si riprenderà. Noi già sappiamo che faremo un buon 2021. Il problema è il 2020. Quindi acquistare oggi, a prezzi bassi con tassi bancari ai minimi, consente di realizzare, dal prossimo anno, grosse plusvalenze. I fondi non investono comprando Btp. Mi aspetto il passaggio di mano anche di grandi proprietà immobiliari da trasformare in alberghi di lusso» ci spiega Bernabò Bocca. L'unico scudo, sostiene Federalberghi, è dare liquidità alle aziende. «Ma non tramite il Decreto liquidità perché rappresenta un ulteriore indebitamento, i soldi arrivano in ritardo e sei anni di finanziamento e tre di preammortamento in una situazione in cui il 2020 è bruciato, è una strada senza uscita». Le offerte più sfacciate si registrano sulla costiera romagnola. Gli albergatori ne stanno ricevendo in continuazione talvolta con toni da stalking usuraio. «Ora ti offriamo tot milioni, se aspetti tre mesi te ne diamo due terzi e se ci pensi ancora ti prendi la metà». Così il proprietario dell'albergo, con la cassa a secco che ha investito nell'ammodernamento della struttura facendo con un mutuo, se fino a due mesi fa avrebbe messo alla porta l'acquirente, anche in malo modo, ora fa fatica a non prendere in considerazione l'offerta. Tanto più che oltre ai soldi cash, spesso il passaggio di proprietà prevede il trasferimento dei debiti. Simone Battistoni, proprietario di uno stabilimento a Cesenatico e presidente del sindacato balneari dell'Emilia-Romagna, ci riferisce che la Guardia di Finanza sta facendo girare un questionario per verificare se sono state vendute quote di aziende. «Io penso però che se qualcuno vuole fare l'affare e speculare sulle nostre difficoltà, aspetta la fine dell'estate quando ci saremo fatti male davvero. Chi ora è con l'acqua alla gola, tra un paio di mesi è affogato» dice Battistoni. Queste situazioni sono arrivate all'attenzione delle istituzioni. Dietro agli acquirenti stranieri potrebbe anche nascondersi un giro di denaro sporco, riconducibile alla malavita. Non a caso il Viminale ha diramato una circolare a tutti i prefetti lanciando l'allarme sul rischio di infiltrazioni mafiose in settori resi vulnerabili dalla crisi.
Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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