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2020-04-27
Le mani straniere si allungano sulle aziende in crisi
iStock
Banche che finanziano soggetti stranieri per acquisire aziende italiane fiaccate dalla crisi, strategie predatorie perseguite entrando nel capitale delle società con quote di minoranza per condizionarne la direzione e poi impadronirsene, servizi segreti esteri che passano al setaccio i migliori brevetti made in Italy affinché le «rapine» siano a colpo sicuro. Il fenomeno dell'Italia in svendita è sotto l'attenzione dell'intelligence che se ne sta occupando da diversi anni.
A gennaio il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza) ha avviato delle audizioni, cominciando da banche e assicurazioni, per comprendere il rischio di scalate ostili dall'estero ad aziende strategiche italiane. Tra le manovre indagate c'è anche quella di banche che concedono prestiti a società estere per scalare le nostre imprese. Il Comitato starebbe riflettendo se sentire anche i rappresentanti italiani di Deutsche Bank, oltre ai vertici di Unicredit, Generali, Mediobanca, Ubi, Crédit Agricole Italia, Intesa SanPaolo e Mps. I servizi già nella relazione annuale del 2018 avevano sottolineato il fenomeno dell'incunearsi nei consigli d'amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da Stati esteri. La relazione non indica le nazioni in ballo ma è noto che alcuni Stati hanno un sistema di intelligence economica molto aggressiva: la Francia, la Cina e la Russia. All'attenzione dell'intelligence è anche l'ipotesi che banche italiane e estere abbiano utilizzato i risparmi italiani per finanziare operazioni di acquisizioni internazionali di dominio globale di soggetti stranieri concorrenti di quelli italiani in settori fondamentali del made in Italy.
Le banche e le assicurazioni estere sono zeppe di titoli del debito pubblico italiano, ne possiedono circa un terzo. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt, il primo investitore estero nel nostro debito (esclusa la Bce) è la Francia. Banche e assicurazioni d'oltralpe detengono oltre 285 miliardi di euro in titoli di Stato italiani (secondo i dati di Bloomberg e Eba), più del triplo degli istituti tedeschi (58 miliardi) e degli spagnoli (21 miliardi). Le banche francesi hanno acquisito due importanti gruppi italiani (Bnl da parte di Bnp Paribas e CariParma da parte di Credit Agricole). A questo tema si aggiunge quello dei Npl, i crediti deteriorati che le banche italiane hanno ceduto a grossi fondi stranieri, dimezzando la zavorra da 360 miliardi di euro. Questa massa critica rischia di tornare a crescere, come evidenziato dal generale Luciano Carta, in audizione quando era ancora direttore dell'Aise. Non solo. Tali gruppi internazionali potrebbero rivalersi sulle imprese a cui fanno capo gli Npl con condizioni da usura, come conferma Adolfo Urso.
Il presidente del Copasir Raffaele Volpi ha detto che intende verificare se nel medio e breve periodo «si intravedono azioni internazionali che con la raccolta dei risparmi degli italiani abbiano direttamente o indirettamente aperto linee di credito ingenti a soggetti fuori dal Paese, ascrivibili forse addirittura a quell'elenco di attori interessati all'aggressione degli asset nazionali». I servizi segreti, nella relazione annuale, avevano evidenziato l'interesse costante da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo, specialmente delle Pmi. Poi hanno acceso i riflettori su quelle strategie d'investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali del settore manifatturiero, si sono tradotte nell'acquisizione di marchi e brevetti e nella delocalizzazione dei siti produttivi trasferendo oltre confine i centri decisionali. Contro le scalate ostili, il decreto liquidità ha esteso la Golden Power a nuovi settori strategici. Ma questo scudo non basta. La vera protezione delle impresa è la liquidità.
Le Pmi sono la preda più ambita. Alta tecnologia, pochi dipendenti, prodotti competitivi, grande flessibilità, sono le caratteristiche che le rendono uniche al mondo. Rappresentano circa il 90% del nostro tessuto produttivo. Le più competitive sono raggruppate nei circa 200 distretti manifatturieri e di questi oltre la metà sono impegnati nelle lavorazioni tipiche del Made in Italy, come l'agroalimentare, la moda e l'arredamento. Solo nel Nord Est se ne trovano più di 40, circa il 27% del totale nazionale. I più conosciuti sono quello della scarpa del Brenta, l'orafo vicentino, l'occhialeria di Belluno, il distretto del Prosecco, in provincia di Treviso. In Friuli c'è il distretto della sedia di Manzano, del coltello di Maniago o il famoso agroalimentare di San Daniele. Una particolarità di questa regione, poi, è il distretto delle tecnologie digitali Ditedi che ingloba 800 imprese in provincia di Udine, una piccola Silicon Valley italiana. Hanno un know how altissimo. Solo per gli occhiali si contano tremila marchi. Giovanni Lo Faro, amministratore delegato di Modo Eyewear, fabbrica di montature in Cadore, dice: «Oltre al colosso Luxottica c'è un mondo di migliaia di piccole aziende con mezzo milione di fatturato ma super specializzate e molto competitive. Quando un'azienda vive investendo gran parte del fatturato in innovazione e all'improvviso si trova bloccata e senza liquidità diventa facile preda. E se ha alta tecnologia è più appetibile».
Agnese Lunardelli, imprenditrice di Venezia con un'azienda di serramenti e arredamento, dice che nella sua regione l'avanzata cinese è strisciante e sistematica. «Basta guardarsi attorno: commercio e ristorazione sono nelle loro mani. Procedono in silenzio, magari iniziando con partnership e poi si impossessano dell'azienda. Oppure mettono un socio. La crisi che seguirà al Covid rischia di accelerare questo processo». L'unica salvezza è dare liquidità, afferma Lunardelli, «ma non nella formula del prestito garantito che comunque è un debito. Chi ha l'acqua alla gola non pensa a indebitarsi». Paolo Bastianello è un imprenditore veneto nel settore moda. «Le nostre aziende sono le più esposte. Stiamo perdendo quote di mercato. Facciamo gola soprattutto a cinesi e giapponesi. Talvolta ai gruppi esteri basta il marchio, poter scrivere made in Italy».
Nel Nord Ovest altri 40 distretti anche qui di piccole realtà come nel settore florovivaistico, nella cosmesi oltre all'indotto Fiat. Nel sud sono più di 10.000 le Pmi con 140.000 occupati. Se è in atto un'azione di intelligence straniera volta a individuare i migliori brevetti italiani per poi procedere con strategie di acquisto, il mirino è puntato sui distretti. Lì la pesca di qualità è sicura.
Le manovre dei fondi speculativi per impadronirsi degli hotel italiani
I fondi speculativi internazionali si sono già fatti avanti. Stanno fiutando quali sono gli affari migliori, le prede più deboli, i ribassi che possono spuntare. Non hanno fretta. Sanno che tra un paio di mesi, quando la crisi comincerà a mordere davvero, potranno passare con la rete a strascico.
Nomi non ne vuole fare il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ma dice che le grandi manovre per accaparrarsi i più prestigiosi asset alberghieri sono cominciate. Gli avvoltoi del Covid non hanno perso tempo. «Fino a due mesi fa era l'albergatore a fare il prezzo, ora sfiancato dall'azzeramento del fatturato, con i costi che continuano a correre, senza sapere quando e come riaprirà, potrebbe essere costretto a vendere alle condizioni del compratore. E, mi creda, liquidità in giro ce n'è tanta. La Cina è stata la prima a uscire dall'emergenza Covid, la sua economia ha ripreso a marciare e non ha mai nascosto l'interesse per i nostri gioielli turistici. Fino a gennaio c'era più domanda che offerta, figurarsi ora».
I grandi brand internazionali hanno avviato da tempo una strategia di espansione nelle principali città italiane. Molti hanno puntato sul franchising per la difficoltà di acquisire asset. Ora il gioco potrebbe essere più facile.
«I fondi speculativi sanno che passata la tempesta, il settore si riprenderà. Noi già sappiamo che faremo un buon 2021. Il problema è il 2020. Quindi acquistare oggi, a prezzi bassi con tassi bancari ai minimi, consente di realizzare, dal prossimo anno, grosse plusvalenze. I fondi non investono comprando Btp. Mi aspetto il passaggio di mano anche di grandi proprietà immobiliari da trasformare in alberghi di lusso» ci spiega Bernabò Bocca.
L'unico scudo, sostiene Federalberghi, è dare liquidità alle aziende. «Ma non tramite il Decreto liquidità perché rappresenta un ulteriore indebitamento, i soldi arrivano in ritardo e sei anni di finanziamento e tre di preammortamento in una situazione in cui il 2020 è bruciato, è una strada senza uscita».
Le offerte più sfacciate si registrano sulla costiera romagnola. Gli albergatori ne stanno ricevendo in continuazione talvolta con toni da stalking usuraio. «Ora ti offriamo tot milioni, se aspetti tre mesi te ne diamo due terzi e se ci pensi ancora ti prendi la metà».
Così il proprietario dell'albergo, con la cassa a secco che ha investito nell'ammodernamento della struttura facendo con un mutuo, se fino a due mesi fa avrebbe messo alla porta l'acquirente, anche in malo modo, ora fa fatica a non prendere in considerazione l'offerta. Tanto più che oltre ai soldi cash, spesso il passaggio di proprietà prevede il trasferimento dei debiti.
Simone Battistoni, proprietario di uno stabilimento a Cesenatico e presidente del sindacato balneari dell'Emilia-Romagna, ci riferisce che la Guardia di Finanza sta facendo girare un questionario per verificare se sono state vendute quote di aziende. «Io penso però che se qualcuno vuole fare l'affare e speculare sulle nostre difficoltà, aspetta la fine dell'estate quando ci saremo fatti male davvero. Chi ora è con l'acqua alla gola, tra un paio di mesi è affogato» dice Battistoni.
Queste situazioni sono arrivate all'attenzione delle istituzioni. Dietro agli acquirenti stranieri potrebbe anche nascondersi un giro di denaro sporco, riconducibile alla malavita. Non a caso il Viminale ha diramato una circolare a tutti i prefetti lanciando l'allarme sul rischio di infiltrazioni mafiose in settori resi vulnerabili dalla crisi.
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Fiaccate dallo stop, le nostre imprese fanno gola oltralpe. L'allarme del Copasir che teme scalate ostili, anche con l'aiuto dei servizi segreti esteri. Sotto osservazione le mosse di Pechino, Parigi e Mosca.Bernabò Bocca (Federalberghi): «Molte strutture senza incassi finiranno per svendere I cinesi hanno già cominciato a muoversi» E il Viminale ha allertato i prefetti sul rischio di infiltrazioni della malavita.Lo speciale contiene due articoli.Banche che finanziano soggetti stranieri per acquisire aziende italiane fiaccate dalla crisi, strategie predatorie perseguite entrando nel capitale delle società con quote di minoranza per condizionarne la direzione e poi impadronirsene, servizi segreti esteri che passano al setaccio i migliori brevetti made in Italy affinché le «rapine» siano a colpo sicuro. Il fenomeno dell'Italia in svendita è sotto l'attenzione dell'intelligence che se ne sta occupando da diversi anni. A gennaio il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza) ha avviato delle audizioni, cominciando da banche e assicurazioni, per comprendere il rischio di scalate ostili dall'estero ad aziende strategiche italiane. Tra le manovre indagate c'è anche quella di banche che concedono prestiti a società estere per scalare le nostre imprese. Il Comitato starebbe riflettendo se sentire anche i rappresentanti italiani di Deutsche Bank, oltre ai vertici di Unicredit, Generali, Mediobanca, Ubi, Crédit Agricole Italia, Intesa SanPaolo e Mps. I servizi già nella relazione annuale del 2018 avevano sottolineato il fenomeno dell'incunearsi nei consigli d'amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da Stati esteri. La relazione non indica le nazioni in ballo ma è noto che alcuni Stati hanno un sistema di intelligence economica molto aggressiva: la Francia, la Cina e la Russia. All'attenzione dell'intelligence è anche l'ipotesi che banche italiane e estere abbiano utilizzato i risparmi italiani per finanziare operazioni di acquisizioni internazionali di dominio globale di soggetti stranieri concorrenti di quelli italiani in settori fondamentali del made in Italy. Le banche e le assicurazioni estere sono zeppe di titoli del debito pubblico italiano, ne possiedono circa un terzo. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt, il primo investitore estero nel nostro debito (esclusa la Bce) è la Francia. Banche e assicurazioni d'oltralpe detengono oltre 285 miliardi di euro in titoli di Stato italiani (secondo i dati di Bloomberg e Eba), più del triplo degli istituti tedeschi (58 miliardi) e degli spagnoli (21 miliardi). Le banche francesi hanno acquisito due importanti gruppi italiani (Bnl da parte di Bnp Paribas e CariParma da parte di Credit Agricole). A questo tema si aggiunge quello dei Npl, i crediti deteriorati che le banche italiane hanno ceduto a grossi fondi stranieri, dimezzando la zavorra da 360 miliardi di euro. Questa massa critica rischia di tornare a crescere, come evidenziato dal generale Luciano Carta, in audizione quando era ancora direttore dell'Aise. Non solo. Tali gruppi internazionali potrebbero rivalersi sulle imprese a cui fanno capo gli Npl con condizioni da usura, come conferma Adolfo Urso. Il presidente del Copasir Raffaele Volpi ha detto che intende verificare se nel medio e breve periodo «si intravedono azioni internazionali che con la raccolta dei risparmi degli italiani abbiano direttamente o indirettamente aperto linee di credito ingenti a soggetti fuori dal Paese, ascrivibili forse addirittura a quell'elenco di attori interessati all'aggressione degli asset nazionali». I servizi segreti, nella relazione annuale, avevano evidenziato l'interesse costante da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo, specialmente delle Pmi. Poi hanno acceso i riflettori su quelle strategie d'investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali del settore manifatturiero, si sono tradotte nell'acquisizione di marchi e brevetti e nella delocalizzazione dei siti produttivi trasferendo oltre confine i centri decisionali. Contro le scalate ostili, il decreto liquidità ha esteso la Golden Power a nuovi settori strategici. Ma questo scudo non basta. La vera protezione delle impresa è la liquidità. Le Pmi sono la preda più ambita. Alta tecnologia, pochi dipendenti, prodotti competitivi, grande flessibilità, sono le caratteristiche che le rendono uniche al mondo. Rappresentano circa il 90% del nostro tessuto produttivo. Le più competitive sono raggruppate nei circa 200 distretti manifatturieri e di questi oltre la metà sono impegnati nelle lavorazioni tipiche del Made in Italy, come l'agroalimentare, la moda e l'arredamento. Solo nel Nord Est se ne trovano più di 40, circa il 27% del totale nazionale. I più conosciuti sono quello della scarpa del Brenta, l'orafo vicentino, l'occhialeria di Belluno, il distretto del Prosecco, in provincia di Treviso. In Friuli c'è il distretto della sedia di Manzano, del coltello di Maniago o il famoso agroalimentare di San Daniele. Una particolarità di questa regione, poi, è il distretto delle tecnologie digitali Ditedi che ingloba 800 imprese in provincia di Udine, una piccola Silicon Valley italiana. Hanno un know how altissimo. Solo per gli occhiali si contano tremila marchi. Giovanni Lo Faro, amministratore delegato di Modo Eyewear, fabbrica di montature in Cadore, dice: «Oltre al colosso Luxottica c'è un mondo di migliaia di piccole aziende con mezzo milione di fatturato ma super specializzate e molto competitive. Quando un'azienda vive investendo gran parte del fatturato in innovazione e all'improvviso si trova bloccata e senza liquidità diventa facile preda. E se ha alta tecnologia è più appetibile».Agnese Lunardelli, imprenditrice di Venezia con un'azienda di serramenti e arredamento, dice che nella sua regione l'avanzata cinese è strisciante e sistematica. «Basta guardarsi attorno: commercio e ristorazione sono nelle loro mani. Procedono in silenzio, magari iniziando con partnership e poi si impossessano dell'azienda. Oppure mettono un socio. La crisi che seguirà al Covid rischia di accelerare questo processo». L'unica salvezza è dare liquidità, afferma Lunardelli, «ma non nella formula del prestito garantito che comunque è un debito. Chi ha l'acqua alla gola non pensa a indebitarsi». Paolo Bastianello è un imprenditore veneto nel settore moda. «Le nostre aziende sono le più esposte. Stiamo perdendo quote di mercato. Facciamo gola soprattutto a cinesi e giapponesi. Talvolta ai gruppi esteri basta il marchio, poter scrivere made in Italy». Nel Nord Ovest altri 40 distretti anche qui di piccole realtà come nel settore florovivaistico, nella cosmesi oltre all'indotto Fiat. Nel sud sono più di 10.000 le Pmi con 140.000 occupati. Se è in atto un'azione di intelligence straniera volta a individuare i migliori brevetti italiani per poi procedere con strategie di acquisto, il mirino è puntato sui distretti. Lì la pesca di qualità è sicura. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-mani-straniere-si-allungano-sulle-aziende-in-crisi-2645848486.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-manovre-dei-fondi-speculativi-per-impadronirsi-degli-hotel-italiani" data-post-id="2645848486" data-published-at="1587923965" data-use-pagination="False"> Le manovre dei fondi speculativi per impadronirsi degli hotel italiani I fondi speculativi internazionali si sono già fatti avanti. Stanno fiutando quali sono gli affari migliori, le prede più deboli, i ribassi che possono spuntare. Non hanno fretta. Sanno che tra un paio di mesi, quando la crisi comincerà a mordere davvero, potranno passare con la rete a strascico. Nomi non ne vuole fare il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ma dice che le grandi manovre per accaparrarsi i più prestigiosi asset alberghieri sono cominciate. Gli avvoltoi del Covid non hanno perso tempo. «Fino a due mesi fa era l'albergatore a fare il prezzo, ora sfiancato dall'azzeramento del fatturato, con i costi che continuano a correre, senza sapere quando e come riaprirà, potrebbe essere costretto a vendere alle condizioni del compratore. E, mi creda, liquidità in giro ce n'è tanta. La Cina è stata la prima a uscire dall'emergenza Covid, la sua economia ha ripreso a marciare e non ha mai nascosto l'interesse per i nostri gioielli turistici. Fino a gennaio c'era più domanda che offerta, figurarsi ora». I grandi brand internazionali hanno avviato da tempo una strategia di espansione nelle principali città italiane. Molti hanno puntato sul franchising per la difficoltà di acquisire asset. Ora il gioco potrebbe essere più facile. «I fondi speculativi sanno che passata la tempesta, il settore si riprenderà. Noi già sappiamo che faremo un buon 2021. Il problema è il 2020. Quindi acquistare oggi, a prezzi bassi con tassi bancari ai minimi, consente di realizzare, dal prossimo anno, grosse plusvalenze. I fondi non investono comprando Btp. Mi aspetto il passaggio di mano anche di grandi proprietà immobiliari da trasformare in alberghi di lusso» ci spiega Bernabò Bocca. L'unico scudo, sostiene Federalberghi, è dare liquidità alle aziende. «Ma non tramite il Decreto liquidità perché rappresenta un ulteriore indebitamento, i soldi arrivano in ritardo e sei anni di finanziamento e tre di preammortamento in una situazione in cui il 2020 è bruciato, è una strada senza uscita». Le offerte più sfacciate si registrano sulla costiera romagnola. Gli albergatori ne stanno ricevendo in continuazione talvolta con toni da stalking usuraio. «Ora ti offriamo tot milioni, se aspetti tre mesi te ne diamo due terzi e se ci pensi ancora ti prendi la metà». Così il proprietario dell'albergo, con la cassa a secco che ha investito nell'ammodernamento della struttura facendo con un mutuo, se fino a due mesi fa avrebbe messo alla porta l'acquirente, anche in malo modo, ora fa fatica a non prendere in considerazione l'offerta. Tanto più che oltre ai soldi cash, spesso il passaggio di proprietà prevede il trasferimento dei debiti. Simone Battistoni, proprietario di uno stabilimento a Cesenatico e presidente del sindacato balneari dell'Emilia-Romagna, ci riferisce che la Guardia di Finanza sta facendo girare un questionario per verificare se sono state vendute quote di aziende. «Io penso però che se qualcuno vuole fare l'affare e speculare sulle nostre difficoltà, aspetta la fine dell'estate quando ci saremo fatti male davvero. Chi ora è con l'acqua alla gola, tra un paio di mesi è affogato» dice Battistoni. Queste situazioni sono arrivate all'attenzione delle istituzioni. Dietro agli acquirenti stranieri potrebbe anche nascondersi un giro di denaro sporco, riconducibile alla malavita. Non a caso il Viminale ha diramato una circolare a tutti i prefetti lanciando l'allarme sul rischio di infiltrazioni mafiose in settori resi vulnerabili dalla crisi.
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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