Il socialista spagnolo Pedro Sanchez prima ha fatto di tutto per piazzare alla vicepresidenza della Commissione europea, Teresa Ribera, ferma sostenitrice del Green deal, considerata una seguace dell’ortodossia ecologista dell’ex commissario europeo Frans Timmermans, salvo poi accorgersi che le norme sulla transizione ecologica sono un boomerang per l’economia.
Dopo il blackout che ha messo in ginocchio vaste aree del Paese, paralizzando infrastrutture, telecomunicazioni e molte attività quotidiane, a causa dell’uso dissennato e squilibrato delle fonti energetiche alternative, ora il governo Sanchez deve vedersela con le proteste delle autorità portuali.
I principali scali del Paese, come Barcellona, Valencia e Algeciras, hanno denunciato che la tassa verde europea (Ets), introdotta per ridurre le emissioni dei trasporti marittimi, sta deviando il traffico verso i porti nordafricani, come Tangeri-Med, danneggiando il Pil spagnolo e vanificando gli obiettivi ambientali. L’imposta oltre a favorire Paesi che non ce l’hanno e non hanno alcuna intenzione di seguire l’Europa su questa linea, (anzi approfittano delle rigidità ideologiche di Bruxelles), fallisce l’obiettivo per il quale è stata introdotta, ovvero la riduzione dell’inquinamento. Come al solito (è accaduto anche per le regole e le sanzioni sulle emissioni delle auto) i tecnici della Commissione partoriscono norme stringenti senza considerarne l’impatto.
La tassa, che impone circa 65 euro per tonnellata di CO2, copre il 100% delle emissioni tra porti Ue e il 50% per quelli extra-Ue, con un’applicazione graduale: 40% nel 2024, 70% nel 2025, 100% nel 2026, includendo anche metano e ossido nitroso. L’Ets aumentando i costi di navigazione del 20%, spinge le compagnie a preferire porti fuori dalla Ue. La crisi del Canale di Suez, aggravata dagli attacchi Huthi nel Mar Rosso dal 2023, ha temporaneamente favorito i porti spagnoli (il traffico dei container a Barcellona è aumentato del 18% e quello a Valencia del 14%), ma Algeciras, porto di trasbordo, ha perso il 2% del traffico a favore di Tangeri. Con la ripresa del traffico via Suez, il rischio di perdite aumenta. Inoltre, la tassa globale dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), prevista per il 2028 fino a 380 dollari per tonnellata di CO2, creerà una doppia imposizione per i porti europei, penalizzandoli ulteriormente.
Puertos del Estado, ente pubblico di gestione della rete portuale, sta studiando l’impatto dell’imposta. Gerardo Landaluce, presidente del porto di Algeciras, ha criticato l’approccio Ue: «Se vuoi andare lontano, vai insieme». Pur sostenendo il Patto Verde, ha chiesto un allineamento con l’Omi per evitare danni economici, preservando la competitività e gli obiettivi ambientali.
Il rischio dello spostamento del traffico dei container dai porti europei a quelli dell’Africa settentrionale, dove le imposizioni delle norme anti emissioni non esistono, era stato già messo in evidenza dai governi europei e dalle autorità portuali Ue, da circa un anno, da quando cioè il settore marittimo è entrato nel sistema Ets, a gennaio 2024, ma non c’è stato alcun ripensamento da parte della Commissione europea e ora i nodi stanno venendo al pettine.
Inoltre, prima dell’entrata in vigore della direttiva sugli Ets, i porti e le istituzioni delle comunità autonome marittime della Spagna, avevano chiesto una moratoria dell’applicazione della tassa sulle emissioni. Oltre a Madrid anche i governi di Italia, Cipro, Croazia, Grecia, Malta, Portogallo si erano attivati chiedendo alla Commissione europea di riconsiderare la strategia della direttiva. Niente da fare. L’Europa ancora una volta si era messa il cappio al collo.
L’harakiri che Bruxelles sta facendo sul trasporto marittimo appartiene allo stesso fallimento della politica di sostituzione delle fonti energetiche fossili con quelle alternative ecologiche.
Un fallimento che è anche di quei governi, a cominciare da Madrid, sponsor della transizione ecologica «senza se e senza ma». Peraltro Sanchez non ha ancora fornito una spiegazione ufficiale del blackout.
Il premier deve vedersela anche con lo scandalo per corruzione che ha travolto il suo partito e la sua famiglia. Santos Cerdán, segretario organizzativo del Partito socialista spagnolo, braccio destro del premier dal 2012, ancora prima di essere eletto segretario del partito, potrebbe avere ricevuto ingenti tangenti. Cerdán si è dimesso immediatamente sia dagli incarichi di partito, che come deputato. Sono indagati anche l’ex ministro socialista José Luis Abalos e l’ex consigliere, Koldo Garcia.
Le opposizioni hanno organizzato una manifestazione di protesta a Madrid per chiedere a Sanchez di dimettersi. «Un tipo che è circondato dalla corruzione, che ha la moglie e il fratello imputati, deve lasciare la Moncloa», ha detto il leader di Vox, Santiago Abascal. La moglie del premier è stata indagata per presunti reati di traffico di influenze e corruzione in affari. Sanchez ha definito il caso contro la consorte come «una brutta montatura fomentata da gruppi di estrema destra» per provocare il suo «crollo personale e politico«. Il fratello del premier, Davide, è sotto processo con l’accusa di traffico di influenze e altri reati.
L’incertezza per l’entità dei dazi che sarà comunicata domani e le dichiarazioni di fuoco del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump all’indirizzo di Vladimir Putin, mandano in tilt le Borse di tutto il mondo.
In una sola giornata sono andati in fumo sulle piazze europee 245 miliardi di euro, mentre in mattinata pesanti cali si sono registrati sui mercati azionari asiatici, guidati da Tokyo che ha perso il 4%. Secondo il Wall Street Journal, Trump starebbe valutando dazi universali del 20% per tutti i Paesi che hanno scambi commerciali con gli Usa. Allo stesso tempo, però, le tariffe, secondo quanto dichiarato dal tycoon, «saranno più miti di quelle che questi Paesi hanno concesso agli Stati Uniti d’America nel corso dei decenni». Smentisce, così, quanto dichiarato nei giorni scorsi, invece, dal segretario al Tesoro, secondo il quale sarebbero state colpite solo le 15 nazioni con i maggiori squilibri commerciali con gli Usa. In questo balletto di annunci, smentite e minacce, sul fronte commerciale regna l’incertezza, mentre su quello geopolitico, sembrano riaccendersi le tensioni tra Stati Uniti e Russia.
Risultato? Il Ftse Mib di Milano ha chiuso in calo dell’1,77% (bruciati 16,43 miliardi), su livelli simili anche il Cac di Parigi (-1,6%), il Dax di Francoforte (-1,3%), l’Aex di Amsterdam (-1%) e l’Ibex di Madrid (-1,3%). Fiacco pure il petrolio, con il Wti che ha ceduto lo 0,1% a 69,26 dollari al barile, dopo che Trump ha minacciato «tariffe secondarie» sul greggio russo e su chi lo acquista, in mancanza di una tregua con l’Ucraina. In una intervista alla Nbc, il tycoon ha detto di essere «rimasto in un certo senso deluso da alcune delle cose che sono state dette», da Putin «negli ultimi giorni». Ha poi accusato anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di volersi «ritirare dall’intesa sulle terre rare». «Se lo fa», ha avvertito il presidente Usa, «avrà dei problemi, grossi». Parole incendiarie che sono piombate sui mercati.
Altra benzina sul fuoco è gettata dagli scenari prospettati da esperti e grandi investitori. «Tutti questi cambiamenti politici aggressivi e disordinati che abbiamo visto dall’amministrazione Trump stanno avendo impatti economici negativi», ha affermato Katrina Ell, direttore della ricerca economica di Moody’s Analytics, citata da Bloomberg. «Ed è per questo che stiamo vedendo una crescita piuttosto aggressiva delle probabilità di una recessione negli Usa». C’è poi l’avvertimento che arriva dal più grande investitore del mondo, il fondatore, chairman e amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink. Se gli Stati Uniti non risanano il loro deficit federale e la dinamica del debito pubblico non sarà messa sotto controllo, il dollaro rischia di perdere il suo status di grande moneta di riserva dell’economia mondiale. Ma non a favore dell’euro o dello yuan cinese. Piuttosto, a favore del bitcoin o di qualche altra attività digitale emessa da un operatore privato, dice nella sua lettera annuale agli investitori.
Intanto Bruxelles sarebbe pronta a imbracciare il bazooka contro Washington. Il quotidiano spagnolo El Pais, citando qualificate fonti comunitarie, scrive che l’Ue prepara la sua risposta «senza linee rosse nel catalogo europeo di rappresaglie». Questo significa che starebbe valutando di applicare anche il cosiddetto strumento anti-coercizione per la sicurezza economica, che consentirebbe di chiudere il mercato Ue a determinati beni e servizi e anche di impedire ad aziende statunitensi di partecipare a concorsi di licitazione pubblica o a progetti finanziati con il bilancio comunitario. Questo meccanismo è consentito quando l’esecutivo europeo ritiene che un Paese terzo stia utilizzando il commercio per far pressione sull’Unione (o anche su un solo Paese) e interferire con le sue scelte sovrane. Sono previsti anche il ritiro delle licenze di importazione, la preclusione dell’accesso ai mercati assicurativi e finanziari e limitazioni allo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale.
El Pais ricorda che le relazioni commerciali fra Ue e Usa sono fra le più intense al mondo, con un intercambio di beni di circa 900 miliardi di euro e un saldo positivo per l’Unione europea di 235,5 miliardi. Il quotidiano spagnolo riporta che, sempre secondo la fonte comunitaria, nelle varie capitali europee ci sono posizioni diverse in materia di tariffe. Parigi, Roma e Dublino, che temono i dazi sul vino e sul whisky, hanno chiesto alla Commissione più tempo per negoziare con la Casa Bianca. L’articolo, poi, evidenza il timore che i Paesi europei agiscano in modo indipendente per proteggere i propri interessi. «Se Trump riesce a rompere l’unità, l’Ue è perduta», dice la fonte dell’Ue. E siccome il meccanismo anticoercizione richiede un voto a maggioranza qualificata in Consiglio, potrebbe essere difficilmente percorribile.
La diplomazia continua a lavorare. Il portavoce della Commissione europea responsabile per il Commercio, Olof Gill, ha ribadito che «i contatti» tra Bruxelles e i governi nazionali «si sono intensificati e c’è un alto grado di convergenza su come agire».
Doveva essere una manna per i tanti proprietari di immobili, una sorta di vincita alla lotteria anche per chi aveva un buco di pochi metri quadrati, invece si sta rivelando un flop gigantesco. Tutti nella Capitale avevano scommesso sul Giubileo che avrebbe dovuto drenare a Roma frotte di pellegrini pronti a contendersi anche uno strapuntino in periferia, ad affollare alberghi, ristoranti e negozi. Invece la città è deserta e gli unici a brindare sono i locali gestiti da religiosi che risucchiano nei loro palazzi, i pellegrini in tour. Il faccione del sindaco, Roberto Gualtieri, con tanto di caschetto di sicurezza, immortalato mentre taglia nastri e sovrintende ai lavori, non convince i turisti. Alla comunicazione positiva del Campidoglio si sovrappone quella veritiera dei giornali online con la mappa dei cantieri ancora aperti, delle strade dissestate e dei bus straripanti di passeggeri. Poco è cambiato con il Giubileo, i problemi cronici della città sono gli stessi nonostante il governo abbia ceduto alle richieste di maggiori fondi e pure il Vaticano abbia più volte strigliato il sindaco a fare presto. Così considerato che i disagi permangono, meglio aspettare che almeno la bella stagione, con un inizio anticipato di primavera faccia sopportare meglio le transenne dei lavori.
Nel frattempo i romani che speravano di compensare i problemi di una città-cantiere, riuscendo almeno ad arrotondare il proprio bilancio con gli affitti, sono rimasti delusi. Oltre ai danni la beffa. Anche perché sulle loro spalle sono piombate le nuove norme fiscali per le locazioni transitorie e lo stigma di rubacase per i romani.
A febbraio il termometro di Booking e di Airbnb segna rosso. Booking a oggi riporta ben 8.665 appartamenti disponibili, di cui 1.350 in zona Vaticano-Prati. Su Airbnb, solo per l’area Colosseo-Monti, ci sono oltre 1.000 immobili in attesa di un contratto. I prezzi non sono nemmeno alti. Passato il primo mese dall’apertura della Porta Santa senza il riscontro che ci si aspettava, i proprietari hanno cominciato ad abbassare i prezzi. Su Airbnb un alloggio per cinque ospiti, completamente ristrutturato, a pochi passi dal Colosseo, è passato da 178 euro a notte a 70 euro. Nel rione Monti, molto gettonato per la movida, un locale adatto anche a quattro ospiti, è stato ribassato da 91 euro a 72 euro.
Su Facebook proliferano i gruppi di proprietari che lamentano l’assenza di prenotazioni. «Ho messo l’annuncio da 20 giorni per la mia casa vicino al Vaticano ma ancora nessuna richiesta, sono avvilita, mi dicono che c’è un calo generale delle prenotazioni», commenta un proprietario e c’è chi gli risponde: «Fino a fine marzo non vedrai grandi differenze», dice Arianna. «Il Giubileo ha allontanato i turisti che temono l’orda di pellegrini», dice Edoardo. «Da novembre è tutto morto, mai stato così», lamenta Stefania. «Disastro totale. La prossima prenotazione è a fine marzo», dice Claudio.
D’altronde basta recarsi di sabato sera nella piazzetta al centro di Monti per accorgersi che il turismo, quello che spende, ancora è latitante. I bar e i ristoranti chiudono prima per mancanza di clienti e i vicoli, al tramonto, si fanno deserti. Qualche statistica parla di un calo delle presenze rispetto al 2024 anche del 30%. I 450.000 turisti delle festività natalizie sono un lontano ricordo. Al momento è un Giubileo «molto piatto» commenta l’associazione di B&B Albaa.
«Ma che c’è il Giubileo? Io non me ne sono accorto, forse si sono sbagliati» commenta ironico alla Verità, il presidente di Federalberghi Roma, Giuseppe Roscioli. «Le case vacanza si sono buttate come api sul miele ma il miele non ci sta. Chi ha un doppio immobile si è improvvisato albergatore pensando di fare un business ma ora si pente. Mi risulta che tanti stiano tornando indietro agli affitti tradizionali». Roscioli poi sottolinea che anche «per gli alberghi il trend è tiepido, non ci sono grosse variazioni rispetto all’anno scorso. Questo è il mio quinto Giubileo», afferma, «e ogni volta si annunciano sciami di turisti che poi non arrivano. C’è stata un’aspettativa molto alta, troppo, senza considerare che i turisti del Giubileo di solito hanno pochi soldi e scelgono le strutture religiose. Poi mancano gli americani perché nel periodo delle elezioni non viaggiano e li rivedremo verso marzo e aprile».
Insomma, tanto polverone per nulla con il risultato che gran parte degli affitti a lungo termine sono stati riconvertiti a case vacanza, complice anche la maggiore sicurezza che offrono questi tipi di locazioni rispetto alle morosità. Tra giugno e settembre scorso sono apparsi su Airbnb quasi 3.000 nuovi annunci. Soltanto su questa piattaforma oscillano tra 34.000 e 40.000, per il 75% si tratta di interi appartamenti. Prima della pandemia erano 30.000, sono scesi a 27.000 durante il Covid per risalire ora a 34.000. Gli annunci a medio-lungo termine si sono rarefatti. Su Immobiliare.it sono qualche migliaio, dieci volte meno di Airbnb, ma il 60% è a medio termine (contratti transitori da uno a 18 mesi) ovvero precluso ai residenti.
Ora tutti sperano di rifarsi in primavera o per Pasqua, e che nel frattempo i cantieri siano terminati. È presto capire se i 51,4 milioni di turisti del 2024 saranno superati grazie al Giubileo. Intanto le nuove regole fiscali con l’introduzione del Cin, il Codice identificativo nazionale assegnato, sta rendendo la vita dura ai proprietari di immobili, sommersi da incombenze burocratiche. Benvenuto Giubileo.




