Via libera all’emendamento sulle riserve auree della Banca d’Italia. Superati gli steccati issati dalla Bce, soddisfatte le perplessità della presidente Christine Lagarde, il testo riformulato sull’oro custodito da Bankitalia è approvato in commissione Bilancio del Senato e tutto lascia supporre che rimarrà fino al passaggio finale alla Camera.
Dall’opposizione definita come una «inutile norma», una bandierina che soprattutto la Lega si è voluta aggiudicare, in realtà ha un valore di sostanza. L’emendamento precisa un concetto che fino ad ora non era stato definito dall’ordinamento, ovvero che le riserve auree iscritte nel bilancio della Banca d’Italia appartengono al popolo italiano. Ciò nel rispetto dei trattati europei. Una precisazione necessaria, come spiegato in un dossier di Fratelli d’Italia per proteggere le riserve auree da speculazioni. Perché questo? Il capitale della Banca d’Italia, comprese quindi le riserve auree, è detenuto da banche, assicurazioni, fondazioni, enti e istituti di previdenza e fondi pensione aventi sede legale in Italia. In molti casi si tratta di soggetti privati, alcuni dei quali controllati da gruppi stranieri.
C’era quindi un motivo per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia e tantomeno prelude a un’appropriazione magari per ridurre il debito, come qualcuno aveva ventilato. E proprio per fugare qualsiasi sospetto di strane manovre, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha dovuto addirittura inviare al presidente della Bce, Lagarde, chiarimenti ufficiali per rassicurarla che nessuno si sogna di trasferire la gestione delle riserve auree o di permetterne la vendita per finanziare lo Stato.
E non è nemmeno una «stranezza» italiana dal momento che alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i trattati europei. Così, alla fine, dopo una serie di aggiustamenti di percorso, il testo approvato è questo: «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 123, 127 e 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il secondo comma dell’articolo 4 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di cui al decreto del presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia, come iscritte nel proprio bilancio, appartengono al Popolo Italiano».
Grande soddisfazione per l’approvazione soprattutto dal senatore leghista e relatore della manovra, Claudio Borghi: «È un momento molto importante, è una mia battaglia di 11 anni. Penso che sia una delle cose più importanti di questa manovra. Riaffermare il principio che l’oro della Banca d’Italia appartiene al popolo italiano ci riporta nella normalità».
«Affermando questo principio, mettiamo l’Italia sulla stessa linea della Francia e di molte altre nazioni. Sorprende che da sinistra ci sia la contrarietà a difendere questo patrimonio del popolo italiano», ha commentato il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, primo firmatario dell’emendamento. E sottolinea che così «le riserve auree italiane vengono messe al riparo da qualsiasi manovra che in futuro possa intaccare questo patrimonio del lavoro degli Italiani che oggi vale circa 290 miliardi, e che Romano Prodi voleva vendere nel 2007, quando valeva sette volte di meno». Sempre Lucio Malan ricorda che «già nel 2014 Giorgia Meloni, insieme a tutti i deputati di Fratelli d’Italia, presentò un ordine del giorno, nel 2019 ci fu una mozione di Giovanbattista Fazzolari con tutti i senatori».
Insomma un punto d’approdo importante per le forze della maggioranza, sollevato da tempo e riproposto al dibattito in più di un’occasione.
«Un risultato storico - dice il vice responsabile nazionale del dipartimento Imprese di Fdi, Lino Ricchiuti - che afferma un principio di buonsenso, rafforza la tutela del patrimonio nazionale e mette fine a decenni di ambiguità». L’Italia è tra i primi tre Paesi al mondo per quantità di oro custodito dalla propria banca centrale. Parliamo di oltre 2.400 tonnellate, una ricchezza accumulata nel tempo, difesa anche dopo la Seconda guerra mondiale, «e oggi - afferma Ricchiuti - protetta da ogni rischio di speculazione e di rivendicazione impropria».
Il socialista spagnolo Pedro Sanchez prima ha fatto di tutto per piazzare alla vicepresidenza della Commissione europea, Teresa Ribera, ferma sostenitrice del Green deal, considerata una seguace dell’ortodossia ecologista dell’ex commissario europeo Frans Timmermans, salvo poi accorgersi che le norme sulla transizione ecologica sono un boomerang per l’economia.
Dopo il blackout che ha messo in ginocchio vaste aree del Paese, paralizzando infrastrutture, telecomunicazioni e molte attività quotidiane, a causa dell’uso dissennato e squilibrato delle fonti energetiche alternative, ora il governo Sanchez deve vedersela con le proteste delle autorità portuali.
I principali scali del Paese, come Barcellona, Valencia e Algeciras, hanno denunciato che la tassa verde europea (Ets), introdotta per ridurre le emissioni dei trasporti marittimi, sta deviando il traffico verso i porti nordafricani, come Tangeri-Med, danneggiando il Pil spagnolo e vanificando gli obiettivi ambientali. L’imposta oltre a favorire Paesi che non ce l’hanno e non hanno alcuna intenzione di seguire l’Europa su questa linea, (anzi approfittano delle rigidità ideologiche di Bruxelles), fallisce l’obiettivo per il quale è stata introdotta, ovvero la riduzione dell’inquinamento. Come al solito (è accaduto anche per le regole e le sanzioni sulle emissioni delle auto) i tecnici della Commissione partoriscono norme stringenti senza considerarne l’impatto.
La tassa, che impone circa 65 euro per tonnellata di CO2, copre il 100% delle emissioni tra porti Ue e il 50% per quelli extra-Ue, con un’applicazione graduale: 40% nel 2024, 70% nel 2025, 100% nel 2026, includendo anche metano e ossido nitroso. L’Ets aumentando i costi di navigazione del 20%, spinge le compagnie a preferire porti fuori dalla Ue. La crisi del Canale di Suez, aggravata dagli attacchi Huthi nel Mar Rosso dal 2023, ha temporaneamente favorito i porti spagnoli (il traffico dei container a Barcellona è aumentato del 18% e quello a Valencia del 14%), ma Algeciras, porto di trasbordo, ha perso il 2% del traffico a favore di Tangeri. Con la ripresa del traffico via Suez, il rischio di perdite aumenta. Inoltre, la tassa globale dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), prevista per il 2028 fino a 380 dollari per tonnellata di CO2, creerà una doppia imposizione per i porti europei, penalizzandoli ulteriormente.
Puertos del Estado, ente pubblico di gestione della rete portuale, sta studiando l’impatto dell’imposta. Gerardo Landaluce, presidente del porto di Algeciras, ha criticato l’approccio Ue: «Se vuoi andare lontano, vai insieme». Pur sostenendo il Patto Verde, ha chiesto un allineamento con l’Omi per evitare danni economici, preservando la competitività e gli obiettivi ambientali.
Il rischio dello spostamento del traffico dei container dai porti europei a quelli dell’Africa settentrionale, dove le imposizioni delle norme anti emissioni non esistono, era stato già messo in evidenza dai governi europei e dalle autorità portuali Ue, da circa un anno, da quando cioè il settore marittimo è entrato nel sistema Ets, a gennaio 2024, ma non c’è stato alcun ripensamento da parte della Commissione europea e ora i nodi stanno venendo al pettine.
Inoltre, prima dell’entrata in vigore della direttiva sugli Ets, i porti e le istituzioni delle comunità autonome marittime della Spagna, avevano chiesto una moratoria dell’applicazione della tassa sulle emissioni. Oltre a Madrid anche i governi di Italia, Cipro, Croazia, Grecia, Malta, Portogallo si erano attivati chiedendo alla Commissione europea di riconsiderare la strategia della direttiva. Niente da fare. L’Europa ancora una volta si era messa il cappio al collo.
L’harakiri che Bruxelles sta facendo sul trasporto marittimo appartiene allo stesso fallimento della politica di sostituzione delle fonti energetiche fossili con quelle alternative ecologiche.
Un fallimento che è anche di quei governi, a cominciare da Madrid, sponsor della transizione ecologica «senza se e senza ma». Peraltro Sanchez non ha ancora fornito una spiegazione ufficiale del blackout.
Il premier deve vedersela anche con lo scandalo per corruzione che ha travolto il suo partito e la sua famiglia. Santos Cerdán, segretario organizzativo del Partito socialista spagnolo, braccio destro del premier dal 2012, ancora prima di essere eletto segretario del partito, potrebbe avere ricevuto ingenti tangenti. Cerdán si è dimesso immediatamente sia dagli incarichi di partito, che come deputato. Sono indagati anche l’ex ministro socialista José Luis Abalos e l’ex consigliere, Koldo Garcia.
Le opposizioni hanno organizzato una manifestazione di protesta a Madrid per chiedere a Sanchez di dimettersi. «Un tipo che è circondato dalla corruzione, che ha la moglie e il fratello imputati, deve lasciare la Moncloa», ha detto il leader di Vox, Santiago Abascal. La moglie del premier è stata indagata per presunti reati di traffico di influenze e corruzione in affari. Sanchez ha definito il caso contro la consorte come «una brutta montatura fomentata da gruppi di estrema destra» per provocare il suo «crollo personale e politico«. Il fratello del premier, Davide, è sotto processo con l’accusa di traffico di influenze e altri reati.
L’incertezza per l’entità dei dazi che sarà comunicata domani e le dichiarazioni di fuoco del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump all’indirizzo di Vladimir Putin, mandano in tilt le Borse di tutto il mondo.
In una sola giornata sono andati in fumo sulle piazze europee 245 miliardi di euro, mentre in mattinata pesanti cali si sono registrati sui mercati azionari asiatici, guidati da Tokyo che ha perso il 4%. Secondo il Wall Street Journal, Trump starebbe valutando dazi universali del 20% per tutti i Paesi che hanno scambi commerciali con gli Usa. Allo stesso tempo, però, le tariffe, secondo quanto dichiarato dal tycoon, «saranno più miti di quelle che questi Paesi hanno concesso agli Stati Uniti d’America nel corso dei decenni». Smentisce, così, quanto dichiarato nei giorni scorsi, invece, dal segretario al Tesoro, secondo il quale sarebbero state colpite solo le 15 nazioni con i maggiori squilibri commerciali con gli Usa. In questo balletto di annunci, smentite e minacce, sul fronte commerciale regna l’incertezza, mentre su quello geopolitico, sembrano riaccendersi le tensioni tra Stati Uniti e Russia.
Risultato? Il Ftse Mib di Milano ha chiuso in calo dell’1,77% (bruciati 16,43 miliardi), su livelli simili anche il Cac di Parigi (-1,6%), il Dax di Francoforte (-1,3%), l’Aex di Amsterdam (-1%) e l’Ibex di Madrid (-1,3%). Fiacco pure il petrolio, con il Wti che ha ceduto lo 0,1% a 69,26 dollari al barile, dopo che Trump ha minacciato «tariffe secondarie» sul greggio russo e su chi lo acquista, in mancanza di una tregua con l’Ucraina. In una intervista alla Nbc, il tycoon ha detto di essere «rimasto in un certo senso deluso da alcune delle cose che sono state dette», da Putin «negli ultimi giorni». Ha poi accusato anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di volersi «ritirare dall’intesa sulle terre rare». «Se lo fa», ha avvertito il presidente Usa, «avrà dei problemi, grossi». Parole incendiarie che sono piombate sui mercati.
Altra benzina sul fuoco è gettata dagli scenari prospettati da esperti e grandi investitori. «Tutti questi cambiamenti politici aggressivi e disordinati che abbiamo visto dall’amministrazione Trump stanno avendo impatti economici negativi», ha affermato Katrina Ell, direttore della ricerca economica di Moody’s Analytics, citata da Bloomberg. «Ed è per questo che stiamo vedendo una crescita piuttosto aggressiva delle probabilità di una recessione negli Usa». C’è poi l’avvertimento che arriva dal più grande investitore del mondo, il fondatore, chairman e amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink. Se gli Stati Uniti non risanano il loro deficit federale e la dinamica del debito pubblico non sarà messa sotto controllo, il dollaro rischia di perdere il suo status di grande moneta di riserva dell’economia mondiale. Ma non a favore dell’euro o dello yuan cinese. Piuttosto, a favore del bitcoin o di qualche altra attività digitale emessa da un operatore privato, dice nella sua lettera annuale agli investitori.
Intanto Bruxelles sarebbe pronta a imbracciare il bazooka contro Washington. Il quotidiano spagnolo El Pais, citando qualificate fonti comunitarie, scrive che l’Ue prepara la sua risposta «senza linee rosse nel catalogo europeo di rappresaglie». Questo significa che starebbe valutando di applicare anche il cosiddetto strumento anti-coercizione per la sicurezza economica, che consentirebbe di chiudere il mercato Ue a determinati beni e servizi e anche di impedire ad aziende statunitensi di partecipare a concorsi di licitazione pubblica o a progetti finanziati con il bilancio comunitario. Questo meccanismo è consentito quando l’esecutivo europeo ritiene che un Paese terzo stia utilizzando il commercio per far pressione sull’Unione (o anche su un solo Paese) e interferire con le sue scelte sovrane. Sono previsti anche il ritiro delle licenze di importazione, la preclusione dell’accesso ai mercati assicurativi e finanziari e limitazioni allo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale.
El Pais ricorda che le relazioni commerciali fra Ue e Usa sono fra le più intense al mondo, con un intercambio di beni di circa 900 miliardi di euro e un saldo positivo per l’Unione europea di 235,5 miliardi. Il quotidiano spagnolo riporta che, sempre secondo la fonte comunitaria, nelle varie capitali europee ci sono posizioni diverse in materia di tariffe. Parigi, Roma e Dublino, che temono i dazi sul vino e sul whisky, hanno chiesto alla Commissione più tempo per negoziare con la Casa Bianca. L’articolo, poi, evidenza il timore che i Paesi europei agiscano in modo indipendente per proteggere i propri interessi. «Se Trump riesce a rompere l’unità, l’Ue è perduta», dice la fonte dell’Ue. E siccome il meccanismo anticoercizione richiede un voto a maggioranza qualificata in Consiglio, potrebbe essere difficilmente percorribile.
La diplomazia continua a lavorare. Il portavoce della Commissione europea responsabile per il Commercio, Olof Gill, ha ribadito che «i contatti» tra Bruxelles e i governi nazionali «si sono intensificati e c’è un alto grado di convergenza su come agire».





