Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.
«La settimana prossima all’Ecofin avremo una grande discussione su una direttiva sulla tassazione dell’energia. Quella impostazione ucciderebbe radicalmente l’industria italiana aumentando la tassazione sul gas naturale, che è la fonte principale su cui lavoriamo», aggiunge il capo del Mef. «L’Italia farà la guerra a questa impostazione se non verranno offerti i necessari margini di flessibilità, perché non sappiamo come sarà il mondo tre cinque o dieci anni. Bisogna prendere atto che il mondo è cambiato». Certamente lo hanno compreso le imprese, lo dice a gran voce il presidente di Confindustria Emanuele Orsini: «Quando noi abbiamo la possibilità di comprare il 5% dei crediti al di fuori dei nostri continenti per regole che ci siamo imposti noi europei, dove nessun altro continente ha le nostre regole, vuol dire che stiamo regalando i soldi degli europei ad altri continenti. Non siamo soddisfatti per niente, il vero tema è che serve la neutralità tecnologica e dobbiamo metterla al centro. Benissimo l’obiettivo del clima, ma serve farlo con tutte le tecnologie che noi possiamo avere a disposizione. Oggi noi acquistiamo materie critiche rare che non abbiamo nel nostro continente da altri continenti che di clima non se ne interessano, e quindi noi abbiamo bisogno di mettere al centro le esigenze dell’industria perché senza l’industria, voglio essere chiaro, in Francia, Germania, Italia non c’è la tenuta del welfare». Per questo Confindustria, la francese Medef e la tedesca Bdi rivolgono «un appello urgente agli Stati membri affinché agiscano tempestivamente». Nella riunione annuale della trilaterale delle associazioni dei tre Paesi che, come ricorda il vicepresidente transalpino Fabrice Le Saché, «insieme valgono il 60% del Pil», la convergenza diventa fondamentale: «Un’Europa che non fa è un’Europa che non serve, e lo dico da europeista convinto», attacca il presidente di viale dell’Astronomia. «Noi oggi abbiamo bisogno di azioni, il vero problema è che i tempi dell’industria non sono sincroni con i tempi dell’Europa e il rischio di una deindustrializzazione europea per la competitività di altri continenti come la Cina e gli Stati Uniti è molto forte. Abbiamo bisogno di azioni vere, forti e subito». Poi, interrogato a margine dell’incontro con la segretaria del Pd Elly Schlein, afferma: «Se c’è intesa? Noi abbiamo portato le istanze, poi anche il Pd dovrà parlare con i propri alleati». In Europa, socialisti, Verdi e the Left però sono fortemente pro politiche green, difficile quindi si possa trovare sintonia.
«Il rischio» ribadisce «è di fermare le nostre imprese per l’aggravio delle burocrazie» europee. «Dobbiamo fare presto ed è quello che abbiamo chiesto».
In Germania, anche il cancelliere Friedrich Merz ha mostrato preoccupazione. «L’industria dell’acciaio europea ha bisogno di protezione nel contesto del commercio estero. Le imprese del settore affrontano una crisi esistenziale e noi ne condividiamo le inquietudini». Tuttavia, Berlino ha votato a favore dell’accordo. Così come l’Italia. Infatti, all’interno dell’esecutivo sono stati registrati umori diversi.
«Siamo finalmente nella fase decisiva. Il ruolo significativo e importante da protagonista dell’Italia ha consentito di realizzare modifiche importanti e significative nel patto clima con l’introduzione del concetto fondamentale della neutralità tecnologica, della flessibilità e quindi della revisione biennale e il riconoscimento finalmente pieno del biocarburante», il commento del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Per il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, «la partita era estremamente difficile anche perché un discorso è l’obiettivo al 90%, un altro è come raggiungerlo, e naturalmente in quella sede io difendevo gli interessi nazionali. C’è stato tutto un percorso per raggiungere l’intesa che ha visto l’Italia riunire i dieci Paesi che avevano un doppio interesse».
L’unico dato positivo è questo: per la prima volta l’Italia ha fatto da capofila in un blocco minoritario formato da dieci Paesi - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Grecia, Belgio (l’Austria si è sfilata all’ultimo) - che è riuscito almeno in parte a far rivedere l’accordo sul clima. Tra le concessioni, anche se non c’è nulla di formale, si prevede che nella proposta di revisione dei target CO2 al 2035 per le auto verrà inserita la possibilità di avere motori alimentati con i biocarburanti, anche quelli prodotti in Italia che in un primo momento sembravano essere esclusi.







