
Se minacce e attacchi sono un vero pericolo, bastano le norme attuali a punirli. Altrimenti rientrano nella libertà di pensiero.Nel testo della delibera senatoriale con la quale, su iniziativa della senatrice Liliana Segre e altri, è stata disposta l'istituzione di una «commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza», abbondano i richiami ai più vari documenti prodotti nelle sedi internazionali a sostegno dell'asserita necessità di combattere, con appositi strumenti normativi, quelli che vengono definiti gli «hate speeches» (discorsi di odio). Invano si cercherebbe, però, un qualsivoglia riferimento ad una norma che pure, atteso il suo rango sovraordinato, dovrebbe essere invece oggetto, in una tale materia, di analoga, se non maggiore attenzione; vale a dire l'articolo 21 della Costituzione. Il quale, per quanto qui interessa, stabilisce che: «Tutti hanno diritto di manifestare pubblicamente il loro pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; principio, questo, la cui rilevanza si coglie, in particolare, con riguardo alle condotte di «istigazione all'odio e alla violenza».L'istigazione, infatti, è indubbiamente una forma di manifestazione del pensiero, la cui prevenzione e repressione, quindi, possono ritenersi legittime in quanto non si pongano in contrasto con il suddetto principio. Ora, per verificare se vi sia o meno un tale contrasto, occorre partire dalla premessa che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, siccome tutelato direttamente, al massimo livello, dalla Costituzione, può essere limitato o escluso. A parte il caso, espressamente previsto dall'ultimo comma dello stesso articolo 21, che vieta (ormai solo platonicamente) le pubblicazioni, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume - soltanto quando la limitazione o l'esclusione appaiano necessarie per la salvaguardia di altri diritti che godano di analoga tutela. È il caso, in particolare, di quelli che l'articolo 2 della Costituzione definisce genericamente come «diritti inviolabili dell'uomo» e che consistono essenzialmente, secondo la Dichiarazione universale approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nel diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, al riconoscimento della personalità giuridica, all'uguaglianza di fronte alla legge, alla protezione da trattamenti discriminatori. Tuttavia, a rendere inoperante la tutela prevista dall'articolo 21 della Costituzione, non è sufficiente il solo fatto che la pubblica istigazione sia volta a promuovere la violazione di qualcuno di tali diritti. Occorre, infatti, l'ulteriore condizione costituita dalla sua accertata idoneità a dar luogo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso specifico, al concreto, attuale pericolo di una loro effettiva lesione. Occorre, in altri termini, che l'istigazione si presenti, di volta in volta, con caratteristiche tali da rendere probabile o, almeno, ragionevolmente prevedibile che essa non solo sia raccolta a livello di semplice condivisione dei presupposti ideologici che ne costituiscono il fondamento (e relativamente ai quali, in democrazia, non può ammettersi alcuna forma di censura), ma si traduca, nell'immediato o, comunque, in breve lasso di tempo, in atti o comportamenti materiali che impediscano, in tutto o in parte, il pacifico esercizio dei diritti in questione da parte di coloro che ne hanno la titolarità. Questo, infatti, è il costante orientamento che è stato espresso tanto dalla Cassazione, con specifico riguardo al reato di istigazione a delinquere, previsto dall'articolo 414 del codice penale, quanto dalla corte Costituzionale. La quale ha dichiarato incostituzionale, per contrasto con l'articolo 21 della Costituzione, l'articolo 415 del codice penale nella parte in cui prevede come reato la pubblica istigazione «all'odio fra le classi sociali», facendo salvo solo il caso che l'istigazione sia «attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». Di particolare rilievo, nell'attuale contesto, è, inoltre, quanto affermato, sempre nello stesso senso, dalla Cassazione con riguardo ai reati di «propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale» e di istigazione a commettere «violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», quali previsti dall'articolo 3 della legge numero 654/1975. Si è puntualizzato, infatti, da parte della Cassazione, che, per riconoscere la sussistenza di tali reati, è necessario «valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un'azione violenta, con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto» (sentenz 42727/2915), e che «l'“odio razziale o etnico" è integrato non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, ma solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (sentenza 36906/2015). Stando così le cose, appare quindi alquanto difficile trovare una qualsivoglia, oggettiva giustificazione a tutto il can can che, con l'istituzione della Commissione Segre e con il dibattito che l'ha accompagnata e seguita, è stato sollevato a sostegno della pretesa necessità di più incisivi interventi contro l'asserito intensificarsi dei messaggi di istigazione all'odio e alla violenza (peraltro quasi sempre denunciati come tali all'opinione pubblica solo quando le presunte vittime appartengano all'area della sinistra). Infatti, i casi sono due: o questi messaggi sono tali da far sì che i diritti costituzionalmente garantiti delle persone cui essi si riferiscono siano esposti ad un effettivo, concreto e attuale pericolo di lesione, e allora ciò rende i loro autori perseguibili come responsabili di reati già attualmente previsti dalla legge. O non hanno quelle caratteristiche, e allora costituiscono libera manifestazione del pensiero, tutelata, come tale, dall'articolo 21 della Costituzione e pertanto non assoggettabile a divieti, limitazioni e sanzioni di sorta.
Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Scontri fra pro-Pal e Polizia a Torino. Nel riquadro, Walter Mazzetti (Ansa)
La tenuità del reato vale anche se la vittima è un uomo in divisa. La Corte sconfessa il principio della sua ex presidente Cartabia.
Ennesima umiliazione per le forze dell’ordine. Sarà contenta l’eurodeputata Ilaria Salis, la quale non perde mai occasione per difendere i violenti e condannare gli agenti. La mano dello Stato contro chi aggredisce poliziotti o carabinieri non è mai stata pesante, ma da oggi potrebbe diventare una piuma. A dare il colpo di grazia ai servitori dello Stato che ogni giorno vengono aggrediti da delinquenti o facinorosi è una sentenza fresca di stampa, destinata a far discutere.
Mohamed Shahin (Ansa). Nel riquadro, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero (Imagoeconomica)
Per il Viminale, Mohamed Shahin è una persona radicalizzata che rappresenta una minaccia per lo Stato. Sulle stragi di Hamas disse: «Non è violenza». Monsignor Olivero lo difende: «Ha solo espresso un’opinione».
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Nei riquadri, Letizia Martina prima e dopo il vaccino (IStock)
Letizia Martini, oggi ventiduenne, ha già sintomi in seguito alla prima dose, ma per fiducia nel sistema li sottovaluta. Con la seconda, la situazione precipita: a causa di una malattia neurologica certificata ora non cammina più.
«Io avevo 18 anni e stavo bene. Vivevo una vita normale. Mi allenavo. Ero in forma. Mi sono vaccinata ad agosto del 2021 e dieci giorni dopo la seconda dose ho iniziato a stare malissimo e da quel momento in poi sono peggiorata sempre di più. Adesso praticamente non riesco a fare più niente, riesco a stare in piedi a malapena qualche minuto e a fare qualche passo in casa, ma poi ho bisogno della sedia a rotelle, perché se mi sforzo mi vengono dolori lancinanti. Non riesco neppure ad asciugarmi i capelli perché le braccia non mi reggono…». Letizia Martini, di Rimini, oggi ha 22 anni e la vita rovinata a causa degli effetti collaterali neurologici del vaccino Pfizer. Già subito dopo la prima dose aveva avvertito i primi sintomi della malattia, che poi si è manifestata con violenza dopo la seconda puntura, tant’è che adesso Letizia è stata riconosciuta invalida all’80%.






