
L'ex ambasciatore a Parigi e Washington: «Il rischio svendite è fortissimo, con la Francia che punta a moda e risparmio e la Germania all'industria. Il tweet di Trump a Conte? Il presidente Usa era in vena di galanterie».Sergio Vento, già ambasciatore a Washington, Parigi, Belgrado, oltre che alle Nazioni Unite, è tra le poche personalità della diplomazia italiana ad aver compreso in anticipo i fenomeni Brexit e Trump e a non aver demonizzato l'ascesa elettorale dei sovranisti. Da sempre ammonisce quelli che chiama gli «eurolirici» a ricordare che l'Ue non è «un giardino d'infanzia», e che altri Paesi (a partire dalla Francia) hanno interessi competitivi e confliggenti con i nostri. Ambasciatore, ci guidi dentro la crisi italiana partendo da una visione d'insieme.«Siamo in un vuoto di governance a livello globale. In un trentennio, siamo passati dal bipolarismo a un'illusione unipolare americana (già con Bill Clinton), per arrivare adesso a un'inedita situazione a-polare».Nessuno saldamente alla guida?«Come bussola, consideriamo quattro riferimenti. Ian Bremmer ha evocato il transito dal G7 al G2 (Usa-Cina) al GZero. Robert Kaplan ha parlato di una “vendetta della geografia", quindi di un ritorno delle crisi locali e della geopolitica rispetto alla globalizzazione tecnologica e finanziaria. Poi vanno considerate le asimmetrie, sempre più evidenti anche dentro l'Europa. E infine - concetto impopolare - le gerarchie, che, piaccia o no, esistono tra gli Stati, dettate da storia, geografia, cultura…».Ci vuol dolcemente dire che siamo rassegnati a una dipendenza cronica da qualcuno?«No, questo non deve portarci ad alcuna rassegnazione, ma a un approccio realistico. Certo, l'Ue di oggi non è quella a 12 di Maastricht».Conseguenze per noi?«Il mega allargamento a Nord e a Est ha favorito la Germania. La Francia intanto aveva i suoi obiettivi africani e mediterranei. E noi ci troviamo con il paradosso di farci dare lezioni da lettoni e finlandesi come Dombrovskis o Katainen».Al di là degli aspetti interni della crisi di governo, c'è un disegno di normalizzazione europea anche ai danni dell'Italia?«Consideri la cornice. Sullo sfondo c'è il referendum Brexit 2016 (uno choc per Bruxelles, Parigi, Berlino). Nel 2017 viene eletto Emmanuel Macron in primavera, ma già a settembre in Germania c'è la doccia fredda per Angela Merkel alle elezioni (12 punti in meno). Nel 2018 c'è il 4 marzo italiano. A questo punto le Europee del 2019 vengono viste come una sfida tra “normalizzatori" e “sovranisti". E in vista di quelle elezioni c'è il tentativo di Macron quasi di sostituirsi alla Germania».In che senso?«Lui vede lo sfacelo dei socialisti francesi e tedeschi, sente la crescita impetuosa di Marine Le Pen, e il 5 marzo presenta il suo progetto di “normalizzazione", a cui dà ovviamente il nome pomposo di “rinascimento europeo". A guida francese».Irritando anche la Germania.«Assolutamente sì. La designata alla successione della Merkel, Annegret Kramp Karrembauer, gli dice subito che, se la Francia vuole dare una prova di europeismo, può rendere europeo il suo seggio permanente all'Onu. E l'ex vicecancelliere Sigmar Gabriel fa notare che l'Ue per la Francia è sempre stata un “moltiplicatore di potenza". Si può dire che per noi italiani sia stato spesso il contrario».Lei ci sta dicendo che i nostri eventi nazionali sono anche un riflesso di queste faglie europee?«E di un quadro economico che va considerato. La Germania, che ora sente la crisi per le sue scelte degli anni passati (pensi ai suoi surplus eccessivi), cercherà di pompare i consumi interni. Ma attenzione alla Francia, che non solo compete con noi in molti settori, ma punta ad acquisizioni in Italia. Moda, lusso, agroalimentare, banche, risparmio: guardiamo ai casi Fineco e Pioneer».Stavo per chiederle se questo 2019 non sia una specie di 2011 che non finisce mai, con le risatine di Merkel e Macron e l'insediamento di Mario Monti. Ma lei mi sta portando ancora più indietro.«Parlerei di un 1992-93 che non finisce mai, tra shopping loro e svendite nostre. Ho detto dei settori a cui punta la Francia. Mentre la Germania punta ad altri ambiti più industriali, dove pure siamo molto appetibili».Lei vede ancora un rischio svendita? «C'è un tema di “compiti a casa" che avremmo dovuto fare, abbiamo un problema con il nostro stock di debito, non c'è dubbio. Ma il rischio svendita purtroppo c'è, e occorrerebbe vigilare».Teme una sorta di pilota automatico Ue sul nuovo governo? «Quando il tedesco Oettinger dice “Sarete ricompensati ora che il vostro governo è più gradito", mi pare sia tutto chiaro… Diciamo così: c'è il rischio di un pilota automatico se non si negozia seriamente e con forza in Europa».Jean-Claude Juncker ha anche evocato la parabola del greco Alexis Tsipras a proposito di Giuseppe Conte.«Ogni volta che tornava da Bruxelles, il presidente del Consiglio diceva di aver avuto affidamenti su un portafoglio di peso per l'Italia nella nuova Commissione. Quindi doveva aver parlato con qualcuno, e immagino di varie cose… E mica glielo davano gratis il commissario forte. Immagino ci siano stati dei pour parler ben oltre il tema del commissario».Guy Verhofstadt accusò Conte di essere un burattino nelle mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Sono cambiati i suoi burattinai? «Forse Verhofstadt non aveva capito bene il personaggio. A cosa alludo? La figura del premier “terzo" è stato a mio avviso un errore di Di Maio e Salvini: ora i presunti burattinai si trovano in difficoltà. Insisto: qualcuno ha sottovalutato la sua designazione».C'è il rischio di una specie di «trade off» tra Brexit e Italia? Come se Francia e Germania dicessero: ok, abbiamo perso l'Uk, ma lasciateci l'Italia come giardino per le nostre scorrerie? «Differenzierei la posizione su Brexit tra Germania e Francia. I francesi hanno assunto con Barnier una posizione punitiva contro Londra. Vedono nell'uscita del Regno Unito un'opportunità per loro: fare di Parigi la guida dell'Ue. I tedeschi invece ora si accorgono che la Gran Bretagna è il primo mercato di esportazione per la Germania, e quindi comprendono che Brexit colpirà l'economia tedesca molto più di quella francese. Quanto a noi, purtroppo, la pretesa egemonica sull'Italia da parte di Francia e Germania era in corso da molti anni, ben prima di Brexit».La professoressa Lucrezia Reichlin torna a invocare una maggiore integrazione europea, un accentramento in capo a Bruxelles delle decisioni economiche e politiche. Non sarebbe il caso di promuovere una linea opposta, e cioè un maggiore riconoscimento delle diversità nazionali in Ue? «Presumo che la professoressa abbia riletto il discorso di Macron alla Sorbona nel 2017 e quello del 2018 in occasione del premio Carlo Magno, in cui sosteneva quella tesi. Ma troppi dimenticano che Polonia, Olanda, Finlandia, molti Paesi nordici (qualcuno ha parlato di una nuova Lega Anseatica) non vogliono questo accentramento su Bruxelles».Ci dica la sua sul famoso tweet di Trump pro Conte. «Trump a Biarritz era in versione buonista. Ha tollerato l'arrivo del ministro degli Esteri iraniano, ha detto di prevedere un accordo commerciale con la Cina, ha perfino fatto i complimenti alla Merkel addirittura evocando origini familiari tedesche. Era in vena di carinerie. La mia spiegazione è che, in vista delle presidenziali del 2020, e considerando i rischi di rallentamento dell'economia, stia moderando il linguaggio anche per tranquillizzare l'economia mondiale».Si può quindi sostenere che sia stato un mero atto di cortesia sollecitato o dall'ambasciata italiana in Usa, o da quella Usa in Italia? «In questo quadro di carinerie, non mi sorprenderebbe se quel tweet sia giunto su sollecitazione di qualcuno».Come farà Conte a conciliare l'omaggio a Trump con la sua linea filocinese, dopo il Memorandum incautamente siglato dall'Italia con Pechino? «Per non dire della linea filo Maduro dei Cinquestelle… Sulla Cina, staremo a vedere: si era molto parlato dei porti di Genova e Trieste, di possibili investimenti, ma per ora non si è visto molto. Chiaro che Pechino abbia obiettivi egemonici. Ma quello che stanno facendo i cinesi doveva farlo l'Ue verso il Mediterraneo e verso l'Africa: se si crea un vuoto, qualcuno lo riempie».Previsione sul dossier Cina?«Prevedo una diluizione, come quando si allunga il whisky con molto ghiaccio».Dia qualche consiglio. Un suggerimento al nuovo governo.«Ai tavoli europei bisogna saperci stare. Vuol dire saper negoziare e padroneggiare i dossier non solo dal punto di vista conoscitivo. Occorre negoziare sui contenuti in termini di ricadute economiche. E soprattutto montare la guardia nel Paese rispetto ai settori strategici».E Salvini che deve fare? «Ha fatto due scommesse vincenti, su sicurezza e immigrazione. Non ho sentito un peso altrettanto forte da parte sua sulle politiche economiche e sui loro riflessi ai tavoli bruxellesi. Quanto alle visite a Washington (e sia chiaro, vale per tutti), io le valuto non dall'eco che hanno nelle parole dei visitatori, ma in quelle degli ospiti Usa e dei loro media. Più in generale, a filo di logica, la mia impressione è che un eventuale spostamento dell'asse del nuovo governo verso Bruxelles agli americani non dovrebbe piacere molto. Intendo dire, “in seconda lettura", dopo il primo tweet buonista di Biarritz».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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