2023-10-13
Le (frangibili) regole della controffensiva
Usa, Ue e Onu chiedono moderazione, il diritto internazionale pone dei limiti al blitz anti jihadisti. L’esperto: «L’assedio di Gaza sarebbe proibito». Per evitare equivoci sui civili usati come scudi, bisognerebbe prima organizzare un’evacuazione.La controffensiva di Israele, ha promesso Benjamin Netanyahu, cambierà i connotati al Medio Oriente. E la prospettiva di una «guerra totale», come l’ha chiamata il ministro della Difesa dello Stato ebraico, spaventa l’Occidente, che teme un conflitto allargato. Un’incursione con i blindati inaugurerebbe di sicuro un lungo periodo di scontri. E non è detto che la vittoria finale possa essere conseguita a costi contenuti. Di qui, i ripetuti inviti alla moderazione, alla «reazione proporzionata», che sono giunti a Tel Aviv: così si sono espressi l’Unione europea, gli Stati Uniti, l’Onu, nonché la Nato. Ma quali sono i limiti fissati dal diritto internazionale? È lecito tagliare acqua e luce a Gaza? E come bisognerebbe comportarsi con i civili, che Hamas sfrutta come scudi umani?Il quadro generale è definito dalle Convenzioni di Ginevra, integrate dai Protocolli aggiuntivi. E già qui sorge un intoppo: Israele ha ratificato le prime, ma non le seconde. Secondo il professor Carlo Curti Gialdino, vicepresidente dell’Istituto diplomatico internazionale e professore ordinario di diritto internazionale e dell’Ue alla Sapienza, «ciò rileva poco, se non altro perché le norme codificate in quei documenti sono norme consuetudinarie, cioè preesistono ai Protocolli e risultano dunque vincolanti anche per Israele». Partiamo allora dalle mosse con cui Tel Aviv sta piegando Gaza: «Configurano a tutti gli effetti un assedio, che è proibito dal diritto internazionale». I trattati in vigore assicurano alla popolazione varie prerogative, tipo la possibilità di soccorrere feriti, malati e donne incinte e il permesso di transito al personale medico. Nell’articolo 14 dei Protocolli del 1977 è specificato che chi occupa un’area deve «assicurarsi che i bisogni sanitari della popolazione civile continuino a essere soddisfatti». È evidente che, se a un ospedale manca l’energia elettrica, nessuno sarà in grado di assistere i ricoverati. L’articolo 54, invece, sancisce il divieto di interrompere l’erogazione idrica «per il suo valore di sostentamento alla popolazione civile o alla parte avversa». L’articolo 69 ribadisce i doveri di preservare le forniture mediche e alimentari, cui si aggiungono vestiti, letti, ripari e oggetti necessari all’esercizio del culto religioso. Infine, le norme chiedono che sia garantita la facoltà di abbandonare il territorio interessato dalle operazioni belliche. Nel caso dei palestinesi di Gaza, gioverebbe sfruttare il corridoio di Rafah, che però in questi giorni risulta inaccessibile. Secondo l’Egitto, il valico non è stato mai chiuso: era inagibile a causa dei raid israeliani. E verrebbe riaperto in caso di tregua. Organizzare un’evacuazione sarebbe importante non solo per tutelare gli innocenti (il 40% degli abitanti ha meno di 18 anni), ma pure per evitare equivoci rispetto allo sfruttamento dei civili come copertura da parte di Hamas. Le disposizioni del diritto internazionale proibiscono bombardamenti indiscriminati: se non si può individuare con certezza il bersaglio militare, o se esso è incluso all’interno di una struttura che ospita persone estranee al conflitto, ci si dovrebbe astenere dall’attacco. I non combattenti, ci spiega Curti Gialdino, «diventano obiettivi legittimi solo se fanno deliberatamente da scudi umani». Ora, se non si consente a chi può di abbandonare la zona di guerra, diventa pressoché impossibile distinguere chi era prigioniero dei terroristi e chi, per fanatismo, si è esposto di sua volontà al macello. Fermo restando che, dopo l’ingresso dei carrarmati, rimane arduo separare gli innocenti dai jihadisti: questi ultimi non sono inquadrati in un esercito regolare, non hanno divise e mostrine, spesso non si presentano visibilmente armati e, anzi, la capacità di nascondersi e infiltrarsi è fondamentale ai fini delle loro tattiche di combattimento.Certo, tra la filosofia e la prassi c’è un abisso. Anche per la difficoltà di punire eventuali violazioni: Israele non riconosce nemmeno la Corte penale internazionale. E, soprattutto, quale Paese occidentale si sognerebbe di comminare sanzioni, nel caso in cui la controffensiva andasse al di là dei paletti che si stanno cercando di piazzare in queste ore? Persino la Nato, riferisce alla Verità Anton Giulio De Robertis, storico dei trattati e della politica internazionale all’Università di Bari e vicepresidente del Comitato atlantico italiano, ammette che qualsiasi raid comporta dei «danni collaterali. In alcuni file interni, li classifica in tre livelli, che considera accettabili. Ma in che cosa consista ciascuno di essi, non è dato sapere: il contenuto è top secret». Tanto basta per capire che c’è differenza tra i principi e la realtà della guerra.Guerra, peraltro, che nel caso di Israele e Hamas trascende i caratteri convenzionali dello scontro tra entità statuali. E se è vero quello che scrisse Carl Schmitt in Teoria del partigiano, cioè che il miliziano, colui che si reputa privato di ogni diritto e che cerca «il proprio diritto nell’inimicizia», tende perciò a trasformarsi in un «nemico assoluto», c’è poco che l’autorevolezza giuridica delle norme possa fare per prevenire un massacro. Più importante è la pressione politica: «In questa fase a Israele», conferma il professor Curti Gialdino, «converrebbe mantenere quella moderazione chiesta dagli alleati occidentali». Anche di fronte al crimine orrendo dei bambini con le teste mozzate.