2019-01-19
Le beccacce, regine del bosco e dello spiedo
Dal Rinascimento gustate in arrosto con il pane condito dal grasso. De Guy De Maupassant scrisse un'opera sui nobili pennuti, mentre Hernest Hemingway le rese protagoniste della cena finale in «Addio alle armi». E a loro è dedicato anche il premio letterario L'Arcera.Le chiamano «regine del bosco». Cacciarle è considerato, dai veri amanti della disciplina, una sorta di duello cavalleresco in cui ognuno dei due contendenti dà il meglio di sé. Le une a nascondersi, salvo involarsi all'improvviso con traiettorie acrobatiche e improvvise che neanche le Frecce tricolori. Gli altri a scovarle, con complice e devoto cane da ferma. Le beccacce rappresentano una storia nella storia anche dal punto di vista antropologico, applicato alla fauna volante. Il loro becco che fende l'aria, ma soprattutto il terreno, alla ricerca dei vermi. Un cervello che è un unicum pretecnologico. Nella ghiandola pineale è presente della magnetite, che sta alla base delle loro capacità migratorie quando si orientano nello spazio per percorrere rotte che possono arrivare anche a 10.000 chilometri, in licenza stagionale dalle fredde brume del Nord per andare a svernare in ambiti climaticamente più confortevoli, dall'Europa meridionale a tutto il bacino Mediterraneo. Il becco è dotato di organi sensoriali che permettono di intercettare i movimenti dei vermi contenuti nel terreno, abbinato a un udito acutissimo. Qualcuno ha calcolato che la popolazione delle beccacce europee si possa stimare attorno ai 15 milioni di capi, con un potenziale medio di vita di circa 15 anni. Negli ultimi tempi la loro caccia è stata severamente regolamentata in molti Paesi europei, anche se queste pennute volanti non si devono solo guardare dalle carabine dei cacciatori, ma anche da alcuni loro storici rivali in natura, soprattutto le volpi o i falchi. La beccaccia è al centro di un'intensa vita associativa per i suoi fan, robe che i tordi o i piccioni si possono solo sognare. È del 1951 la nascita, in Francia, del Club national de bècassiér. L'unico socio italiano, Ettore Garavini, fu quello che poi diffuse il verbo nel Belpaese. È del 1975 la fondazione del Club della beccaccia, cui seguirono, nel 2001, gli Amici di scolopax (il nome scientifico del volatile, promotori di una caccia con basi di sostenibilità etica) e, infine, nel 2004, i Beccacciai d'Italia. Il tutto grazie all'impegno di Vincenzo Celano, altro padre nobile di questi cacciatori illuminati che, dalle pagine di Diana, la bibbia venatoria, sostenne come loro fossero «la categoria più genuina e nobile» del settore. Celano è il motore instancabile di un esercizio venatorio equilibrato alle possibilità biologiche della specie, passando per un addestramento mirato dei cani e norme precise di caccia. L'opera di Celano andò oltre, creando un premio letterario, L'Arcera (antico nome della beccaccia in Lucania), riservato a un racconto o un elzeviro dedicato. Tra i giurati nomi quali Piero Chiara, Cesare Marchi, Gian Antonio Cibotto. Chi l'avrebbe detto che Indro Montanelli fosse un provetto cacciatore? Quando era inviato del Corriere della Sera in Albania, nel 1939, con gli articoli inviava al suo direttore, Aldo Borrelli, anche qualche cassetta di beccacce. La beccaccia fu storicamente musa importata non solo tra i cacciatori con aspirazioni letterarie, ma lo stesso Guy De Maupassant le aveva dedicato un'opera, I racconti della beccaccia, del 1883, dove, tra i passaggi epocali, vi è quello in cui il vecchio Barone des Ravots, al termine di una cena dalle mille piume, deve decidere a chi, tra i suoi ospiti, assegnare il boccone più ambito, ossia «il morso della testa» (becco ovviamente escluso). Un mix di dolce e amaro assieme, che solo chi ha provato può capire. Non fu da meno Hernest Hemingway che, nel suo Addio alle armi, racconta come l'ufficiale protagonista e la sua infermiera trascorrano l'ultima notte d'amore in un albergo milanese con una cena in cui, protagonista del menù, è una beccaccia flambè all'armagnac. Forse non è un caso che una primaria ditta nazionale di armi abbia dedicato all'autore di Lungo il fiume e sull'acqua la sua doppietta di punta. Altre bellissime pagine le sono state dedicate da Mario Rigoni Stern, Virgilio Scapin, Goffredo Parise. Tracce culinarie della beccaccia si ritrovano sin dal Rinascimento, con Domenico Bartoli (detto il Panunto) che, nel 1560, la racconta in arrosto con pane condito del grasso che gocciola durante la cottura e servita con due fette di limone. Le preparazioni classiche hanno sempre privilegiato cotture lunghe a fiamma bassa, quali lo spiedo o la griglia, trattandosi di carni poco grasse, con i veri mastri spiedatori che hanno sempre saputo far di necessità virtù, con lunghissime sedute in cui si privilegiava il grasso stesso della bestia raccolto con il colino e arricchito con cognac o altri spiriti. Il volo a nozze sul piatto privilegia un atterraggio morbido sulla polenta, ma anche in insalata ci sta bene, con lo sgrassamento al gusto delle sue carni. Vi è poi la variante in padella, tipica di Arzignano, nel Vicentino, arricchita con tracce di limone. Un'altra delle caratteristiche che rendono unica la preparazione della beccaccia è quella che, una volta abbattuta, vada spiumata, ma non eviscerata, e messa a frollare in congelatore per alcuni giorni. Nelle rimpatriate tra complici di doppietta la cena è l'apogeo. E qui scatta la prova del nove. Quella del vero ristoratore di beccacce che, al di là di quante comitive di cacciatori si riuniscano, supera la «prova pallino», posto che ogni cacciatore ha la sua arma segreta nella cartucciera e la sa riconoscere, quando capita di scovarla in uno dei recessi carnosi del trofeo volante, al piatto. Uno di questi il famoso Pierino, alias Trattoria da Pozzan, sui colli vicentini. Da lui doppiette golose provenienti dal Bresciano come dal Friuli. Da alcuni anni la vita dei beccaccianti attivi (i cacciatori) e passivi (i golosi) si è alquanto complicata. La beccaccia non è più commercializzabile, sempre meno cacciabile. Tuttavia, spulciando sui ricettari o sui racconti orali degli adepti del beccaccio fino, l'antologia è varia e golosa, una sorta di «beccacce legends». Il pluridecorato Mauro Uliassi, con la cucina a vista sull'Adriatico, ha sempre amato la selvaggina. Ecco allora il petto di beccaccia con terrina di fegato grasso, germogli e fragola. A fargli supporto il conterraneo Lucio Pompili con la beccaccia della santa alleanza, dove entrano in lambada di gola foie gras d'oca e salsiccia di maiale rinforzati da aromi e cognac. La beccaccia una e trina è stata una delle armi segrete del bellunese Enzo De Pra: in antipasto con le verze, poi a far volare un risotto e, infine, al forno, farcita con marron glacé. Non da meno il trevigiano Ivano Mestriner, che l'ha proposta disossata in salsa peverada (un'autentica scultura edibile), ma addirittura in versione dessert, in onore della Befana: petto alla piastra e due coscette adagiate comode su di una lamina di pinza assieme ad una scaloppa di foie gras. Non poteva mancare la cucina futurista: al Monterosa in salsa Venere, in pratica una beccaccia lardellata e rosolata in tegame, infine avvolta in pasta sfoglia e infornata e servita su di una base di mirtilli e scorza d'arancia. Che abbiate accesso o meno al premio del «morso della testa», è nelle cose semplici che si provano le soddisfazioni più grandi, come ad esempio nel ciucciar di spaghi, ovvero impadronirsi degli umori più veri della regina del bosco, quelli che lei generosamente rilascia nel suo lento ruotare lungo lo spiedo nelle lunghe cotture invernali.
Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea (Getty Images)
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