2021-05-01
Il primo maggio ipocrita dei traditori del lavoro
La retorica del Primo maggio non si ferma nonostante un milione di posti bruciati e 300.000 aziende chiuse. E per gli italiani a cui vengono bloccate le attività ha il sapore della beffa. Anche perché la sinistra continua a etichettare come «evasore» chi fa impresaAiuto, aprite gli ombrelli! E non solo per il meteo che purtroppo oggi annuncia pioggia in buona parte d'Italia, ma soprattutto per il diluvio di retorica che ci sarà scaraventato addosso dalla diretta televisiva dell'inevitabile Concertone del primo maggio. Evento in cui - già in tempi ordinari - non si sa mai se siano più temibili per le orecchie le esibizioni musicali di alcuni cantanti o le (minacciatissime) testimonianze di artisti e comizianti assortiti, con e senza il sigillo della trimurti Cgil-Cisl-Uil. Lo slogan scelto, secondo le anticipazioni, sa di grottesca presa in giro: «L'Italia si cura con il lavoro». Ma come? Ci vuole un bel coraggio a celebrare il lavoro mentre a più di mezza Italia è impedito proprio di lavorare. Mi tieni chiuso, alimenti una scatenata propaganda chiusurista, e contemporaneamente mi racconti quanto sarebbe bello stare aperti? Siamo davanti a inenarrabili vette sadomaso, che solo la pazienza degli italiani riesce ancora inspiegabilmente a tollerare.Nei 12 mesi - ci si spiegava - in cui «nessuno doveva rimanere indietro», si sono già persi un milione di posti di lavoro. E badate bene: c'è ancora il tappo, innaturale e pericoloso per le aziende, dello stop ai licenziamenti. Immaginate cosa accadrà quando quel tappo verrà fatto saltare, e quanti altri posti di lavoro saranno inesorabilmente e immediatamente bruciati. Quanto alle aziende, le stime dicono che solo nel 2020 ne sono state chiuse più di 300.000 soltanto tra commercio, artigianato e servizi. Per il 2021, le previsioni sono ancora più cupe: tra «morte violenta» (fallimenti) ed «eutanasia» (chiusure gestite in modo ordinato da chi ha la robustezza per farlo). Nell'uno e nell'altro caso, saremo comunque di fronte a una desertificazione devastante. Ancora qualche giorno fa, in una delle vie commerciali di Roma, qualcuno ha contato 100 saracinesche abbassate su 160 totali. E non occorrono altri commenti. Inutile dire che, per la natura stessa delle piccole imprese italiane e per come opera il meccanismo del fallimento, una volta avvenuto il trauma della chiusura, è improbabilissima una immediata riapertura, un nuovo tentativo imprenditoriale. Ma diventa drammaticamente difficile offrire una qualunque chance occupazionale, e dunque di sopravvivenza, a chi aveva fatto vivere quell'impresa. Se ho 50 anni, se ho fatto il parrucchiere da quando ne avevo 17 o 18, se so fare (e bene!) solo quello, non puoi certo venirmi a dire di «reinventarmi» improvvisamente un lavoro «green» o «digitale». C'è da temere che anche i partiti non abbiano ben chiara la bomba economica e sociale che sta già esplodendo: il dramma di centinaia di migliaia di persone che non avranno né la possibilità (adesso) di portare il pane a casa, né la ragionevole speranza (domani) di potersi reinserire nel circuito del lavoro. Eppure, ci si invita a «festeggiare», con una retorica che sa di beffa e in qualche caso perfino di offesa. Quanto al sindacato ufficiale, ormai non ci sono più parole: da decenni si occupa solo di una cerchia sempre più ristretta di garantiti, essenzialmente dipendenti pubblici e pensionati, dimenticando tutto il resto, inclusi i lavoratori dipendenti del settore privato, esposti - insieme ai loro datori di lavoro - a un rischio che i burocrati sindacali non vedono, non percepiscono, non capiscono. Anche oggi, tra discorsetti e bandieroni, sentiremo una retorica lontanissima dalla vita reale di almeno mezza Italia. Che ne sanno del settore fieristico? Che ne sanno degli eventi, delle cerimonie, dei matrimoni, delle palestre e delle piscine? Che ne sanno dei rappresentanti di commercio, degli interpreti, delle partite Iva più disparate (e più disperate), a cui si impedisce ancora - in moltissimi casi - di lavorare, proprio nel giorno in cui il lavoro è ufficialmente festeggiato?Siamo davanti alla festa del lavoro tradito, negato, impedito. E davanti a una cinica accettazione di una divisione in due dell'Italia: chi (bene o male, pur ovviamente intristito dalla pandemia) ha avuto lo stipendio sicuro il 27 del mese, e chi invece si è ritrovato (non metaforicamente) in mezzo a una strada. E se questi ultimi hanno per caso provato ad alzare la voce, con dignità, sono stati umiliati in diretta tv dall'esponente sinistro di turno, con l'allusione all'«evasione» come uno stigma di infamia da appiccicare addosso agli autonomi. O, peggio ancora, con la finta solidarietà di chi tuttora invita le imprese a «un ultimo sforzo, un ultimo sacrificio». Certo, tutti bravi a sacrificarsi con il ristorante degli altri, con la partita Iva degli altri, con il conto in banca in rosso degli altri. Per queste ragioni, ai comizianti (e pure agli influencer) già pronti con il loro fervorino, ci permettiamo di chiedere di riflettere prima di infliggercelo. Concedetevi e concedeteci un minuto di silenzio, semmai. Per le imprese che non ci sono più, e per quelle che rischiano a loro volta - e molto presto - di non esserci. La vostra retorica è uno sberleffo che non meritano, uno sfregio intollerabile.