Vienna snobba l’embargo deciso dall’Ue e fa incetta di combustibile russo: i livelli di import sono tornati al periodo pre bellico. L’azienda di Stato ha accordi con Gazprom fino al 2030. Il cancelliere Karl Nehammer: «Non possiamo certo rimandarlo indietro».
Vienna snobba l’embargo deciso dall’Ue e fa incetta di combustibile russo: i livelli di import sono tornati al periodo pre bellico. L’azienda di Stato ha accordi con Gazprom fino al 2030. Il cancelliere Karl Nehammer: «Non possiamo certo rimandarlo indietro».Con il prezzo del gas che scende quasi ogni giorno sembrano passati i momenti peggiori per il sistema energetico europeo. L’inverno mite ha consentito di utilizzare al minimo gli stoccaggi e i prezzi altissimi hanno modificato la struttura della domanda industriale e termoelettrica, che è in calo in tutta Europa. L’emergenza sta dunque lentamente rientrando, in apparenza. Nonostante la guerra in corso, un po’ di gas russo continua ad arrivare in Europa attraverso due direttrici. La prima è quella turca del Turkstream, che porta il gas russo in Bulgaria, con volumi attorno ai 30 milioni di metri cubi al giorno. La seconda è quella che passa per l’Ucraina ed entra in Austria dopo aver attraversato la Slovacchia, con volumi tra i 20 e i 25 milioni di metri cubi al giorno. Proprio l’Austria e il suo bilancio fisico del gas sono in queste settimane all’attenzione del mercato.Ma con il mese di dicembre 2022, il peso dell’import dalla Russia è tornato a crescere fino a superare l’80% delle importazioni totali. In pratica, l’incidenza del gas russo sul totale delle importazioni austriache è tornata ai livelli dello scorso anno, prima della guerra. Questo perché è diminuita oltre le attese la domanda, perché vengono usati gli stoccaggi e perché da Germania e Italia arriva meno gas, ma anche perché, semplicemente, i contratti di importazione di lungo termine con la Russia sono ancora in vigore. La principale utility austriaca del gas, Omv, ha infatti contratti con Gazprom che scadono nel 2030 e che sono ancora validi. Non avendo sbocchi sul mare, l’opzione Lng non si pone per l’Austria, che nei mesi estivi ha importato gas soprattutto dalla Germania per riempire i propri stoccaggi ed ha aggiunto discreti quantitativi anche dall’Italia durante l’autunno.«Omv ha contratti di lunga data con la Federazione russa», ha detto la settimana scorsa il cancelliere austriaco Karl Nehammer. «Se i russi continuano a consegnare, non posso vietare a Omv di adempiere agli obblighi contrattuali», ha aggiunto. L’utility, partecipata per il 31,5% dallo Stato, dovrebbe comunque pagare per un gas che non ritira o rispondere dei danni come detta il contratto, causando un danno rilevante all’erario.Omv non è l’unica compagnia in Europa a trovarsi in questa condizione: anche Eni ha impegni di acquistare gas dalla Russia fino al 2035. Infatti, la compagnia italiana sta valutando diversi scenari in vista del previsto stop totale agli acquisti di gas russo dal 2025, per capire quale può essere l’impatto di una uscita dai contratti. Quasi certamente, anche Omv sta facendo altrettanto. Tuttavia, il quadro giuridico è abbastanza complicato. Non c’è infatti un embargo sul gas russo sancito da una autorità statale o dall’Unione europea, né ci sono impedimenti tecnici o fisici sui gasdotti, come invece è accaduto alla Germania sulle due condotte del Nord Stream. Mancano dunque condizioni esterne oggettive cui appellarsi per sospendere o terminare i contratti. Questi accordi di lungo termine hanno quantità flessibili e prevedono un minimo che in questo ultimo anno, a quanto sembra, è stato rispettato per Austria e Italia. In ogni caso, c’è una clausola cosiddetta di take-or-pay che grava su una parte dei quantitativi, per cui se il gas non viene prelevato per fatto del compratore deve essere comunque pagato.Intanto, il ministro austriaco dell’Energia Leonore Gewessler continua a chiedere ai cittadini di consumare il meno possibile: «Non siamo ancora fuori pericolo» ha affermato il ministro, spiegando che il risparmio di gas lascerebbe depositi meno vuoti in vista del prossimo inverno.Quello dei contratti a lungo termine con la Russia è un tema che è stato tralasciato dalle autorità europee. Con il lancio, nella primavera scorsa, del programma REPowerEU, nella smania di tagliare le forniture russe, ci si è concentrati sulle alternative. Ad esempio, Omv ha una partecipazione in Russia nel giacimento di gas di Yuzhno-Russkoye, che detiene tuttora. La quota al momento è congelata e non dà diritto a dividendi, ma poiché il giacimento di gas è di rilevanza strategica per la Russia è molto difficile capire come uscirne.Il fatto che il cordone ombelicale con la Russia non sia del tutto reciso regge uno scenario che sarebbe scomodo per tutta l’Europa. C’è infatti il rischio, anche se remoto, di un possibile rilancio delle forniture di gas russo verso l’Europa. Pur non potendo più contare sui due gasdotti Nord Stream (a meno di clamorose riparazioni), una volta finita la guerra il corridoio ucraino può ben essere utilizzato al massimo delle sue potenzialità (oggi lavora attorno al 20% della capacità). Anche il gasdotto Yamal, che attraversa la Polonia e arriva in Germania, oggi chiuso nel transito da est, potrebbe essere utilizzato nel caso in cui una distensione militare provocasse una riapertura dei flussi di gas dalla Russia verso l’Europa. Paradossalmente, è un esito che l’Europa stessa non si augura. Un ritorno in grande stile dell’offerta di gas russo provocherebbe un crollo dei prezzi, con buona parte degli investimenti in corso per rigassificatori e nuovi gasdotti che andrebbe immediatamente in perdita. Non solo, ma verrebbe meno quell’elemento di urgenza che spinge verso lo sviluppo in tutta fretta delle energie rinnovabili, provocando anche in quel caso delle perdite per parecchi investitori. Il tema dei contratti di lungo termine ancora in essere con la Russia, dunque, è tutto politico e prima viene affrontato, meglio sarà per tutti.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».