2020-05-23
L’anolino capace di stregare Maria Luigia
È il «re» parmense della pasta ripiena in brodo, mentre i tortelli di erbette sono irrinunciabili come pasta asciutta. Sono soltanto due piatti di un territorio che mette d'accordo cuochi e golosi. Fino alla sfida all'ultima caloria del dessert, dominato dalla spongata.Gianni Brera, in una delle sue confessioni golose, ebbe così a commentare un suo soggiorno parmense «mi imposi dure penitenze epatiche». In effetti non c'è che l'imbarazzo della scelta, assaliti da una triangolazione dalle multiple tentazioni: carnali (a prevalenza suina), pastose e di un dulcis in fondo dagli orizzonti infiniti. Ma iniziamo con ordine. Qui la torta fritta è roba seria. Parente golosa dello gnocco fritto bolognese e della crescentina piacentina. Prime testimonianze scritte nelle memorie di Carlo Nascia, a metà del '600 cuoco di corte di Renuccio II Farnese, dove veniva descritta quale «pasta a vento». In realtà sembra che, all'inizio, fosse magra consolazione delle famiglie rurali. Una volta fritta nello strutto, una spolverata di zucchero la trasformava in coccola dolce. Regina salata lo divenne poi, in abbinamento a salumi palestrati, ideale la spalla di San Secondo. Verso la fine dell'Ottocento, nel parmense, si è diffuso il consumo della carne di cavallo, con un proliferare di macellerie equine che, ancor oggi, vedono la città al primo posto per consumo a livello nazionale. In effetti, sul piano organolettico, è un prodotto ideale, soprattutto nella dieta degli sportivi. Ricca di ferro, pochissimi grassi, facilmente digeribile. Il pesto di cavallo (caval pist nello slang locale) è un cult, su di una fetta di pane, con olio e limone q.b. A tutela di questa chicca, citata con pubblico elogio dall'autorevole The Economist, da anni esiste apposita associazione di tutela presieduta da Fabio Ferraroni. Per chi non vuol negarsi nulla ecco, a ruota, la tartare. Poche regole, ma precise. Tre-quattro passaggi nel tritacarne, rigorosamente di calibro 6. Alla scelta dei primi vi trovate ad un bivio dall'ardua scelta. All'appello delle paste ripiene in brodo ecco gli anolini, mentre i tortelli di erbette sono irrinunciabili alla chiamata delle paste asciutte. Gli anolini hanno una lunga storia. Già citati nel 1284 da Salimbene de Adam, un francescano memoria storica dell'epoca. La prima ricetta scritta codificata da Bartolomeo Scappi (il cuoco segreto di Pio IV) nel 1570 con ripetute citazioni e testimonianze negli anni a seguire. Un piatto che stregò la stessa duchessa Maria Luigia, tanto che un mantra dell'epoca recitava «solo al Re Anolino la Duchessa porge il suo inchino». Anolini al centro anche di una divertente diatriba sull'etimologia che li riguardava che ha visto protagonisti Alfredo Panzini, autore del Dizionario moderno e Baldassarre Molossi, storico direttore de «La Gazzetta di Parma». Per l'uno la derivazione da «anulus», ovvero la forma ad anello della pasta; per l'altro da «agnulus», in quanto nelle prime versioni, rifacendosi alla presunta origine romana dell'impasto, galeotta la presenza della carne d'agnello. Al di là di questo, la sintesi in un lunario del 1850 «benedetta quella mano/che lor fece coperta/e quell'altra, oh quanto esperta/che il ripieno ne formò». Altra certezza. La dimensione dello stampino regolamentare doveva essere di 3.7 cm. pari a quella dello scudo d'argento di Maria Luigia. Cuochi e golosi tutti d'accordo, invece, sui tortelli di erbette. Il ripieno di spinaci, bietole, parmigiano e ricotta avvolto in una sfoglia dalla forma di rettangolino imperfetto con la coda, testimonianza della dedicata manualità del cuoco. Spadellati con burro e poi parmigiano, grattugiato rigorosamente al momento, per tradizione sono i testimonial della notte di San Giovanni, il 23 giugno, con le classiche tortellate all'aperto, quando un tempo si celebravano il termine delle mietiture e la raccolta delle messi. Non manca anche qui il ruggito identitario, con una prevalenza della ricotta sulle erbette, giusto per differenziarsi dai cugini reggiani «e non passare per conigli». Completano la triade i tortels dols di Colorno, un tradizionale piatto delle feste (Natale, San Silvestro), quando dalla dispensa si assemblavano mostarde di frutta e vin cotto. Tradizione racconta che fossero l'omaggio di Maria Luigia ai barcaioli di Sacca, storico punto di approdo delle merci che arrivavano per via fluviale alla reggia di Colorno e da lì a Parma. Al piatto unico non c'è storia, con la bomba di riso, simbolo della festa dell'Assunta, il 15 agosto. In uno stampo cilindrico rivestito di pangrattato, il riso diventa cofanetto goloso a racchiudere carne di piccione, uova e aromi vari. Una variante il savarin di riso proposto da Peppino e Mirella Cantarelli, in quel di Samboseto. Un locale che ha stregato i palati per generazioni. Nello stampo, a forma di ciambella, il rivestimento con fette di lingua di bue salmistrata ad avvolgere il prezioso contenuto di riso e polpette di manzo. Per chi ha sufficiente cilindrata gastrica da affrontare la sfida delle carni è una corrida golosa, posto che i maialosi salumi li abbiamo lasciati alle entrè della puntata precedente. VI fa ringiovanire il palato la vecia al caval pist, un macinato equino cotto con ratatouille di verdure. Altro classico la rosa di Parma, un filetto di vitello a racchiudere nel suo astuccio delicate fettine di prosciutto e parmigiano. Legato e passato al forno su di una salsa di lambrusco e marsala, che regalano poi al palato un sugo da scarpetta. Si sale di grado con la duchessa di Parma, un involtino di tacchino con prosciutto crudo e parmigiano, impanato e fritto che, nella versione più aristocratica, un altro grande mestolo parmense, Ivo Gavazzi, ricopriva poi con lamelle di porcini di Borgotaro e tartufo nero di Fragna. Arrivati ai dessert è una sfida all'ultima caloria. Meritano una citazione il lat in pe, una sorta di budino caramellato e la torta torronata, la cui ricetta classica è opera di Ermelinda Berni, la storica e complice cuoca dei peccati di gola di Giuseppe Verdi, un intringante assemblaggio di frutta secca e candita cui dà il turbo alle papille un'originale trito di menta. È il simbolo della sagra di San Michele, a Busseto, il 29 settembre. A proposito di santi, il posto d'onore alle scarpette di Sant'Ilario, celebrato il 13 gennaio, una delle classiche madeleine delle pasticcerie parmensi, oramai presenti a tavola tutto l'anno. Scarpette di pasta frolla, decorate con glassa e colorati granelli di zucchero. Tradizione vuole che il locale patrono, di passaggio a Parma, trovandosi con i calzari oramai laceri, trovò un generoso calzolaio che glieli regalò nuovi. Il giorno dopo questo bravo artigiano vide risplendere i vecchi lasciati dal misterioso viaggiatore rimessi a nuovo e luccicanti d'oro. Tuttavia è la spongata il dolce simbolo della Città e di tutto il territorio. Se ne trovano tracce già nel medioevo, per alcuni di derivazione ebraica. Due dischi di pasta frolla a custodire un ripieno di frutta candita. Con l'arrivo delle spezie salì di rango e divenne orgoglio delle cucine di corte, tanto da essere oggetto di regalie diplomatiche nelle occasioni più importanti. Sono passate alla storia quelle del convento dei benedettini di San Giovanni, con documenti sin dal 1585, tanto che si narra come, all'approssimarsi del Natale, venissero preparate in un clima di devota goliardia, con i monaci che spesso trascuravano la preparazione del presepe per dedicarsi ad infornare spongate, aiutati in questo da alcuni laici reclutati per la bisogna. Alla fine ne uscivano con impresso il marchio di fabbrica dell'aquila che rinviava ad un affresco, opera del Correggio, che ritraeva San Giovanni con il regale pennuto in atteggiamento devoto. Forse tale il successo di questa spongata che poi il convento dei benedettini venne chiuso per editto borbonico nel 1776. Al termine di questo viaggio nelle delizie della cucina parmense, non resta che condividere quanto scritto a suo tempo da Gianni Brera, uno che di panza e sostanza se ne intendeva «lascio Parma sopraffatto dalla beatitudine di essermi sentito sempre a casa».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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