2024-11-23
L’Aia confonde democrazia e terrore ma almeno ci evita il «genocidio»
La Corte penale internazionale equipara il leader di Gerusalemme al jihadista Deif. Per fortuna però, al di là di questa svista, evita di mettere sullo stesso piano lo sterminio di un popolo e i danni collaterali della guerra.No, non è genocidio. Anche per la Cpi, Corte penale internazionale, che ha spiccato mandati di cattura per crimini «di guerra» e «contro l’umanità» a Gaza, non si è davanti a un nuovo Olocausto. Nessuna «soluzione finale», nessuna volontà di sterminare in toto, spazzare via dalla faccia della terra tutti i palestinesi. Unica nota azzeccata in uno spartito stonato, con una lunare equiparazione. Da una parte, due politici vivi, Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, piaccia o non piaccia democraticamente eletti (il che, come è ovvio, non li rende per ciò stesso esenti da responsabilità anche gravi, vere o presunte).Dall’altra, un terrorista fondamentalista fondamentalmente morto, ucciso da un drone israeliano, Mohammed Deif, capo delle Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, arrestato perfino dall’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, nel 2000, quindi inserito nella black list dei terroristi internazionali redatta dal Consiglio dell’Unione europea. Un’iniziativa già morta sul nascere, quella della Cpi, visti i precedenti.La Mongolia, che pure ha firmato lo Statuto di Roma (1998) che riconosce la giurisdizione della Cpi, a settembre non ha arrestato Vladimir Putin, accusato per crimini di guerra in Ucraina. Nel 2015 il Sudafrica non arrestò Omar al Bashir, presidente del Sudan, accusato di genocidio per i 500.000 morti nel Darfur! E il punto esclamativo ci sta tutto, perché suona tragicamente paradossale che sia stato proprio il Sudafrica a chiedere, dicembre 2023, il processo di Israele per genocidio nei confronti del popolo palestinese, ai sensi della Convenzione Onu del 1948.Intendiamoci: non si tratta di mettere sul piatto della bilancia il numero dei morti per decidere quando possa scattare l’accusa di genocidio (termine coniato nel 1944 dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin).Per ripetere la domanda che si fa Anna Foa, che si presenta come «ebrea della diaspora», a pagina 84 del suo libro-denuncia Il suicidio di Israele (durissimo nei confronti delle azioni decise da Netanyahu e dai ministri ultraortodossi di estrema destra, con la kippah in testa e la bava alla bocca): Cosa cambia per chi muore sotto le bombe se definiamo la sua morte massacro oppure genocidio?».Quando si parla della carneficina di migliaia di vittime civili - trasformate, per edulcolare la realtà, in «effetti collaterali» delle azioni militari - le distinzioni nominalistiche stanno a zero. Sul piano del risultato ultimo, la «violenza sull’inerme» (così Adriana Cavarero nel suo libro del 2007, Orrorismo) rimane tale indifferentemente dall’azione posta in essere: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica.Senza dimenticare il democidio», come spiegato da Pier Paolo Portinaro ne L’imperativo di uccidere (2017): l’annientamento di «minoranze di classe» - capitalisti, proprietari terrieri, contadini possidenti, intellettuali - del proprio stesso popolo. Stalin con i 5 milioni di morti nell’Holomodor, la grande carestia organizzata intenzionalmente dal regime sovietico in Ucraina negli anni Trenta, nonché gli 11 gruppi etnici deportati interamente, per 3,5 milioni di vittime. Mao e i 58 milioni di «morti non naturali» in Cina tra il 1946 e il 1978. Pol Pot, a capo degli khmer rossi, e 1,5 milioni di cambogiani (su 6) seppelliti in 30.000 fosse comuni.Anche per questi motivi, ho ritenuto sbagliato fin da subito che il legittimo dibattito sulla furibonda reazione militare del governo Netanyahu (innescata dall’eccidio programmato da Hamas sul suolo israeliano il 7 ottobre 2023), offensiva all’insegna del «non si fanno prigionieri» - su cui una parte della stessa società israeliana ha manifestato tutta la sua contrarietà - sia stato capziosamente manipolato con il ricorso al termine genocidio. Trappola semantica e concettuale in cui è caduto perfino papa Francesco, nel suo ultimo libro La speranza non delude mai: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se si inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».Quasi un omaggio (una concessione? una resa?) allo zeitgeist, lo spirito del tempo. Che non tollera - rispetto ai 45.000 morti dichiarati da Hamas, ma fossero pure la metà non farebbe differenza alcuna - subordinate. Per cui scandire «stop al genocidio» è un imperativo morale categorico, un canone che non può essere messo in discussione, uno slogan da ripetere perfino sul palco del Festival di Sanremo.Ha osservato Luigi Manconi su Repubblica nel marzo 2024: «L’approssimazione nell’attribuire quell’etichetta, il suo uso superficiale, producono l’effetto di sminuire il senso inappellabile del giudizio e la portata della condanna, fino alla banalizzazione. Se chiamiamo genocidio cose che non lo sono, rischiamo di non avere parole per definire ciò che davvero lo è».Impeccabile. E il genocidio, come ha ricordato lo storico Marcello Flores, autore del volume Il genocidio degli armeni, consiste nella «volontà pianificata di distruggere uno specifico gruppo, non un effetto secondario di una guerra» (a ben guardare: perfino in assenza di un conflitto). Il che «lo differenzia dagli altri crimini di massa», per quanto atroce e inumani essi siano. Accusare Israele di genocidio ha favorito «la retorica antisemita e un ridimensionamento della Shoah», che del genocidio rappresenta l’archetipo, un unicum che nessuno dovrebbe mai più sperimentare sulla propria pelle.