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2020-08-24
Labirinti e avventura, alla scoperta degli sport di orientamento
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Una mappa, una bussola, e via. Sono sufficienti questi due strumenti per praticare l'orienteering, uno sport in cui la competizione sta nel percorrere nel minor tempo possibile un tragitto caratterizzato dai punti di controllo, definiti lanterne, utilizzando solamente i due attrezzi a disposizione, una carta topografica disegnata appositamente con segni convenzionali unificati in tutto il mondo e una bussola, e facendo leva sul proprio senso di orientamento. Conosciuti da pochi, gli sport di orientamento coinvolgono oltre 3 milioni di persone al mondo, mentre in Italia, i tesserati sono più di 9.000, distribuiti all'interno di 170 società. Si può gareggiare individualmente o in squadra e il luogo ideale dove farlo è il bosco, ma esistono gare effettuate anche nei parchi pubblici, nelle campagne o addirittura nei centri storici delle città, tra le quali spicca Venezia. Dei veri e propri labirinti immersi nel verde e nei paesaggi di montagna o campagna, all'interno dei quali avventurarsi e districarsi per raggiungere il proprio obiettivo. Che poi, in fin dei conti, è l'essenza di ogni sport a qualsiasi latitudine. Non solo per gli agonisti. In Liguria, per esempio, nei pressi del monte Antola è stata attrezzata un'area dove è stato installato un percorso per chiunque voglia cimentarsi e divertirsi in questo sport.
All'interno dell'orienteering esistono vari tipi di discipline. La più diffusa e conosciuta è la corsa orientamento; poi c'è la mountain bike orientamento dove l'atleta deve raggiungere il punto di arrivo a bordo di una bicicletta con la mappa che viene posta su un leggio fissato sul manubrio; poi c'è lo sci orientamento che si svolge sulle piste su cui si fa lo sci di fondo; e, infine, c'è l'orientamento di precisione, dove l'obiettivo non è quello di raggiungere i punti di controllo segnati sulla cartina, bensì individuarli da dei punti di osservazione piazzati su dei sentieri facilmente agibili e identificarli da altri fasulli posizionati lì vicino. Quest'ultima disciplina è stata creata per permettere anche agli atleti paralimpici di praticare l'orienteering. Le quattro pratiche appena elencate sono, per ora, le uniche quattro riconosciute dalla Iof. Negli Stati Uniti, per esempio, è molto in voga l'orientamento in canoa presso i delta dei fiumi; così come c'è chi si diverte a praticare questo sport a cavallo o in macchina. Esiste, poi, l'orientamento subacqueo, anche se come disciplina non appartiene alla Fiso, ma alla Fipsas, Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee. Si tratta di un'attività che ha origini militari dove gli atleti devono trovare i punti prestabiliti sulla mappa in immersione.
Molto importante, per lo sviluppo di questo sport nel nostro Paese, è la spinta che viene data a livello scolastico, dove specialmente nelle scuole medie e superiori viene praticata la corsa orientamento con gli studenti che vanno poi a gareggiare nelle fasi provinciali e regionali.
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Si tratta di uno sport sano e facilmente accessibile a più fasce di età, ma soprattutto, uno sport che come pochi altri per caratteristiche si sposa con la natura. Oltre l'aspetto sociale, generato dalla diffusione su scala nazionale con numerosi eventi organizzati ogni anno dalla Federazione che consentono agli atleti delle varie società di interagire, va considerato anche quello puramente salutare, visto che l'orienteering è in grado di garantire a chi lo pratica una buona dose di esercizio fisico e mentale. Uno sport per tutti quindi dove, come si legge sul sito ufficiale, «l'atleta corre per raggiungere un risultato agonistico, la famiglia e il principiante per divertirsi in compagnia e trascorrere una sana giornata all'aria aperta».
Gli sport di orientamento nascono oltre un secolo fa nei Paesi scandinavi, più precisamente nel 1897 nel Sud Ovest della Norvegia, a Bergen, dove si disputò una prova di sci orientamento. Notizie di una prima gara ufficiale risalgono, però, al 1919 a Stoccolma. Per oltrepassare i confini dei Paesi del Nord Europa, però, si è dovuto attendere il 1961, anno in cui a Copenaghen venne istituita la Iof, ovvero la Federazione internazionale di orienteering. Sei anni più tardi, nel 1967, toccò anche all'Italia scoprire gli sport di orientamento con delle gare nel Trentino e nel Lazio, regioni dalle quali negli anni a seguire si propagò nel resto della penisola. Venne fondato nel 1982 il Ciso, il Comitato italiano sport orientamento, trasformato poi nel 1986 in Fiso, Federazione italiana sport orientamento, con sede a Trento. Fu proprio negli anni Ottanta che questo sport spiccò il salto verso l'agonismo, tanto che nel decennio successivo sono stati raccolti i primi risultati importanti a livello internazionale con le quattro medaglie d'oro vinte da Nicolò Corradini ai campionati del mondo tra il 1994 e il 2000 nella specialità dello sci-orienteering. Ed è in Italia che si sono svolte le principali competizioni negli ultimi anni. Già a partire dal 1993, quando a Castelrotto, in Alto Adige, si tennero i campionati mondiali junior di corsa orientamento, gli Europei di mountain bike orientamento in Toscana nel 2007, i campionati mondiali junior di corsa orientamento in Trentino nel 2009, i mondiali di mountain bike orientamento in Veneto nel 2011, i mondiali di corsa orientamento e orientamento di precisione in Trentino e Veneto nel 2014. Gettando uno sguardo al futuro, invece, nel 2022 si svolgeranno in Puglia, più precisamente sul Gargano, i mondiali master di orienteering, finora ospitati dall'Italia in altre due occasioni, nel 2004 ad Asiago (Vicenza) e nel 2013 al Sestriere (Torino).
Gli sport di orientamento non fanno ancora parte del novero delle discipline olimpiche. Un primo tentativo fu fatto nel 1996 ma la lontananza delle grandi città dove solitamente si svolgono i Giochi rispetto al luogo dove si svolgono le gare non ha mai fatto decollare l'iniziativa. Va ricordato, però, che all'edizione delle Olimpiadi invernali del 1998 a Nagano, in Giappone, fu incluso a scopo dimostrativo lo sci orientamento, circostanza nella quale vinse la medaglia d'oro l'italiano Corradini.
Softair, la guerra simulata a colpi di pallini di plastica

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Far finta di essere soldati, o giocare a guardie e ladri, è da sempre uno dei grandi classici da bambini. Per i più grandi, invece, esiste il softair, un'attività ludico sportiva dove si simula una situazione di guerra, tenendo lontani atti di violenza in quanto qualsiasi contatto fisico non è minimamente consentito dal regolamento. Con il passare degli anni, però, il softair non è più considerato solo un gioco, ma è diventato uno sport a tutti gli effetti, riconosciuto anche dal Coni che nel 2017 lo ha inserito all'interno del Tiro dinamico sportivo con il nome di Arma air soft. La Fitds, Federazione italiana tiro dinamico sportivo, conta 150 società affiliate, 4.500 tesserati e 13.200 partecipanti alle gare.
Indossando le tute mimetiche, l'elmetto e le protezioni necessarie, i giocatori, solitamente divisi in due o più gruppi rivali, fanno il proprio ingresso sul campo da gioco, solitamente una riproduzione di ambienti che possono variare dal bosco al centro urbano, e simulano una situazione militare utilizzando delle fedeli riproduzioni di armi in dotazione alle forze armate, come la Beretta 92, la Colt M4 o l'Ak47, che sparano pallini in plastica biodegradabila di un diametro di 6 millimetri, del peso compreso tra i 200 e i 300 milligrammi e con energia inferiore a 1 joule, visto che il massimo consentito è pari a 0,99 joule, tanto quanto per risultare innocuo il contatto con gli esseri umani. L'energia minima per provocare lesioni alla pelle umana è almeno 3 joule. Ovviamente, quando ci si trova all'interno del campo, vanno rispettate determinate regole e indossati i necessari dispositivi di protezione individuale, tra cui gli occhiali protettivi per evitare il contatto tra i proiettili e gli occhi
L'origine di questa pratica è da cercare in Giappone negli anni Ottanta dello scorso secolo, mentre in Italia, così come nel resto d'Europa, è spopolato nel decennio successivo quando sono nati diversi enti di coordinamento nazionali tra le quali l'Associazione sportiva nazionale War Games diventata poi Federazione italiana giochi tattici.
Agli occhi di chi non lo conosce a fondo in tutte le sue sfaccettature, questo sport può sembrare diseducativo e violento. Ma non è così. Se eseguito nel pieno rispetto delle regole, condizione che del resto va posta alla base di qualsiasi disciplina sportiva, è un'attività in grado di far sviluppare abilità di intelligenza tattica e di condivisione degli obiettivi a livello di squadra. Non a caso, viene anche usato all'interno delle esercitazioni militari come strumento di team building, problem solving e formazione aziendale.
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Anche se poco conosciute, sono a tutti gli effetti discipline agonistiche e con una propria federazione, la Fiso. Si praticano tra i boschi, sui prati, ma anche nei centri abitati, in bici, a cavallo e in acqua. A inventarli furono i norvegesi più di 100 anni fa. In Italia si contano oltre 9.000 tesserati. In tutto il mondo appassionano 3 milioni di persone.Dalle battaglie tra amici alle competizioni tra squadre: il softair, la guerra simulata a colpi di proiettili di plastica, è diventato uno sport vero e proprio.Lo speciale contiene due articoli.Una mappa, una bussola, e via. Sono sufficienti questi due strumenti per praticare l'orienteering, uno sport in cui la competizione sta nel percorrere nel minor tempo possibile un tragitto caratterizzato dai punti di controllo, definiti lanterne, utilizzando solamente i due attrezzi a disposizione, una carta topografica disegnata appositamente con segni convenzionali unificati in tutto il mondo e una bussola, e facendo leva sul proprio senso di orientamento. Conosciuti da pochi, gli sport di orientamento coinvolgono oltre 3 milioni di persone al mondo, mentre in Italia, i tesserati sono più di 9.000, distribuiti all'interno di 170 società. Si può gareggiare individualmente o in squadra e il luogo ideale dove farlo è il bosco, ma esistono gare effettuate anche nei parchi pubblici, nelle campagne o addirittura nei centri storici delle città, tra le quali spicca Venezia. Dei veri e propri labirinti immersi nel verde e nei paesaggi di montagna o campagna, all'interno dei quali avventurarsi e districarsi per raggiungere il proprio obiettivo. Che poi, in fin dei conti, è l'essenza di ogni sport a qualsiasi latitudine. Non solo per gli agonisti. In Liguria, per esempio, nei pressi del monte Antola è stata attrezzata un'area dove è stato installato un percorso per chiunque voglia cimentarsi e divertirsi in questo sport.All'interno dell'orienteering esistono vari tipi di discipline. La più diffusa e conosciuta è la corsa orientamento; poi c'è la mountain bike orientamento dove l'atleta deve raggiungere il punto di arrivo a bordo di una bicicletta con la mappa che viene posta su un leggio fissato sul manubrio; poi c'è lo sci orientamento che si svolge sulle piste su cui si fa lo sci di fondo; e, infine, c'è l'orientamento di precisione, dove l'obiettivo non è quello di raggiungere i punti di controllo segnati sulla cartina, bensì individuarli da dei punti di osservazione piazzati su dei sentieri facilmente agibili e identificarli da altri fasulli posizionati lì vicino. Quest'ultima disciplina è stata creata per permettere anche agli atleti paralimpici di praticare l'orienteering. Le quattro pratiche appena elencate sono, per ora, le uniche quattro riconosciute dalla Iof. Negli Stati Uniti, per esempio, è molto in voga l'orientamento in canoa presso i delta dei fiumi; così come c'è chi si diverte a praticare questo sport a cavallo o in macchina. Esiste, poi, l'orientamento subacqueo, anche se come disciplina non appartiene alla Fiso, ma alla Fipsas, Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee. Si tratta di un'attività che ha origini militari dove gli atleti devono trovare i punti prestabiliti sulla mappa in immersione.Molto importante, per lo sviluppo di questo sport nel nostro Paese, è la spinta che viene data a livello scolastico, dove specialmente nelle scuole medie e superiori viene praticata la corsa orientamento con gli studenti che vanno poi a gareggiare nelle fasi provinciali e regionali. iStock Si tratta di uno sport sano e facilmente accessibile a più fasce di età, ma soprattutto, uno sport che come pochi altri per caratteristiche si sposa con la natura. Oltre l'aspetto sociale, generato dalla diffusione su scala nazionale con numerosi eventi organizzati ogni anno dalla Federazione che consentono agli atleti delle varie società di interagire, va considerato anche quello puramente salutare, visto che l'orienteering è in grado di garantire a chi lo pratica una buona dose di esercizio fisico e mentale. Uno sport per tutti quindi dove, come si legge sul sito ufficiale, «l'atleta corre per raggiungere un risultato agonistico, la famiglia e il principiante per divertirsi in compagnia e trascorrere una sana giornata all'aria aperta».Gli sport di orientamento nascono oltre un secolo fa nei Paesi scandinavi, più precisamente nel 1897 nel Sud Ovest della Norvegia, a Bergen, dove si disputò una prova di sci orientamento. Notizie di una prima gara ufficiale risalgono, però, al 1919 a Stoccolma. Per oltrepassare i confini dei Paesi del Nord Europa, però, si è dovuto attendere il 1961, anno in cui a Copenaghen venne istituita la Iof, ovvero la Federazione internazionale di orienteering. Sei anni più tardi, nel 1967, toccò anche all'Italia scoprire gli sport di orientamento con delle gare nel Trentino e nel Lazio, regioni dalle quali negli anni a seguire si propagò nel resto della penisola. Venne fondato nel 1982 il Ciso, il Comitato italiano sport orientamento, trasformato poi nel 1986 in Fiso, Federazione italiana sport orientamento, con sede a Trento. Fu proprio negli anni Ottanta che questo sport spiccò il salto verso l'agonismo, tanto che nel decennio successivo sono stati raccolti i primi risultati importanti a livello internazionale con le quattro medaglie d'oro vinte da Nicolò Corradini ai campionati del mondo tra il 1994 e il 2000 nella specialità dello sci-orienteering. Ed è in Italia che si sono svolte le principali competizioni negli ultimi anni. Già a partire dal 1993, quando a Castelrotto, in Alto Adige, si tennero i campionati mondiali junior di corsa orientamento, gli Europei di mountain bike orientamento in Toscana nel 2007, i campionati mondiali junior di corsa orientamento in Trentino nel 2009, i mondiali di mountain bike orientamento in Veneto nel 2011, i mondiali di corsa orientamento e orientamento di precisione in Trentino e Veneto nel 2014. Gettando uno sguardo al futuro, invece, nel 2022 si svolgeranno in Puglia, più precisamente sul Gargano, i mondiali master di orienteering, finora ospitati dall'Italia in altre due occasioni, nel 2004 ad Asiago (Vicenza) e nel 2013 al Sestriere (Torino).Gli sport di orientamento non fanno ancora parte del novero delle discipline olimpiche. Un primo tentativo fu fatto nel 1996 ma la lontananza delle grandi città dove solitamente si svolgono i Giochi rispetto al luogo dove si svolgono le gare non ha mai fatto decollare l'iniziativa. Va ricordato, però, che all'edizione delle Olimpiadi invernali del 1998 a Nagano, in Giappone, fu incluso a scopo dimostrativo lo sci orientamento, circostanza nella quale vinse la medaglia d'oro l'italiano Corradini.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/labirinti-e-avventura-alla-scoperta-degli-sport-di-orientamento-2647048416.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="softair-la-guerra-simulata-a-colpi-di-pallini-di-plastica" data-post-id="2647048416" data-published-at="1598024554" data-use-pagination="False"> Softair, la guerra simulata a colpi di pallini di plastica iStock Far finta di essere soldati, o giocare a guardie e ladri, è da sempre uno dei grandi classici da bambini. Per i più grandi, invece, esiste il softair, un'attività ludico sportiva dove si simula una situazione di guerra, tenendo lontani atti di violenza in quanto qualsiasi contatto fisico non è minimamente consentito dal regolamento. Con il passare degli anni, però, il softair non è più considerato solo un gioco, ma è diventato uno sport a tutti gli effetti, riconosciuto anche dal Coni che nel 2017 lo ha inserito all'interno del Tiro dinamico sportivo con il nome di Arma air soft. La Fitds, Federazione italiana tiro dinamico sportivo, conta 150 società affiliate, 4.500 tesserati e 13.200 partecipanti alle gare. Indossando le tute mimetiche, l'elmetto e le protezioni necessarie, i giocatori, solitamente divisi in due o più gruppi rivali, fanno il proprio ingresso sul campo da gioco, solitamente una riproduzione di ambienti che possono variare dal bosco al centro urbano, e simulano una situazione militare utilizzando delle fedeli riproduzioni di armi in dotazione alle forze armate, come la Beretta 92, la Colt M4 o l'Ak47, che sparano pallini in plastica biodegradabila di un diametro di 6 millimetri, del peso compreso tra i 200 e i 300 milligrammi e con energia inferiore a 1 joule, visto che il massimo consentito è pari a 0,99 joule, tanto quanto per risultare innocuo il contatto con gli esseri umani. L'energia minima per provocare lesioni alla pelle umana è almeno 3 joule. Ovviamente, quando ci si trova all'interno del campo, vanno rispettate determinate regole e indossati i necessari dispositivi di protezione individuale, tra cui gli occhiali protettivi per evitare il contatto tra i proiettili e gli occhiL'origine di questa pratica è da cercare in Giappone negli anni Ottanta dello scorso secolo, mentre in Italia, così come nel resto d'Europa, è spopolato nel decennio successivo quando sono nati diversi enti di coordinamento nazionali tra le quali l'Associazione sportiva nazionale War Games diventata poi Federazione italiana giochi tattici.Agli occhi di chi non lo conosce a fondo in tutte le sue sfaccettature, questo sport può sembrare diseducativo e violento. Ma non è così. Se eseguito nel pieno rispetto delle regole, condizione che del resto va posta alla base di qualsiasi disciplina sportiva, è un'attività in grado di far sviluppare abilità di intelligenza tattica e di condivisione degli obiettivi a livello di squadra. Non a caso, viene anche usato all'interno delle esercitazioni militari come strumento di team building, problem solving e formazione aziendale.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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