2020-09-20
«La Verità» compie 4 anni e continua a combattere
Sono passati quattro anni. Quel giorno di settembre era un martedì e contro ogni pronostico La Verità debuttò in edicola. Non ci credeva nessuno, se non una sparuta pattuglia di giornalisti in cerca di indipendenza. La maggior parte di quelli che avevamo contattato nella speranza che finanziassero il progetto di un quotidiano senza padroni, si era eclissata nonostante le promesse. E anche molti collaboratori o presunti tali se l'erano data a gambe quando avevano capito che di soldi non ce n'erano. Ne ricordo uno che una settimana prima della data fatidica ci telefonò per spiegarci che avevamo il cervello in acqua. Credo che intendesse dire che avevamo preso un brutto colpo di sole e forse aveva ragione. Il 24 di agosto, quando ci riunimmo, non avevamo una sede e nemmeno uno stampatore; di numeri zero, cioè di prove di giornale per vedere se eravamo in grado di riempire tutte le 24 pagine previste, neanche a parlarne. Per non dire poi delle scrivanie, dei collegamenti internet, del centralino, della segreteria eccetera eccetera. Mancava meno di un mese all'uscita in edicola, ma oltre alla testata non avevamo niente. O per lo meno nulla di ciò che si ritiene sia indispensabile per un giornale. In compenso, avevamo una gran voglia di fare e di dimostrare che ci saremmo riusciti.Non so che cosa ci abbia consentito di colmare il gap, e a dire il vero non so neppure come quello sparuto gruppo sia stato così incosciente da ignorare tutti i rischi dell'avventura in cui si stava imbarcando. Di solito, quando si presenta un successo si parla di case history, cioè di qualche cosa da studiare o da prendere a esempio, ma se noi dovessimo ripercorrere le tappe della nostra piccola impresa, dovremmo scrivere un manuale di cose da non fare. Ciò detto, siamo qui, con un numero di copie vendute che nessuno quattro anni fa poteva nemmeno lontanamente immaginare. L'Ads, ovvero la società che si occupa di accertare la diffusione della stampa, ogni mese registra la nostra crescita. L'ultima rilevazione pubblicata riguarda i dati di luglio e segnala vendite di copie cartacee e digitali che superano le 30.000. Non molti quotidiani oggi possono vantare cifre simili: tolte le testate più importanti, che pure ogni mese registrano una costante flessione, altre con una storia e una tradizione di gran lunga più consolidata della nostra sono meno diffuse. Sì, dopo quattro anni possiamo dire di avercela fatta. Grazie ai lettori, sempre più numerosi, La Verità è diventata un importante quotidiano, una voce veramente fuori dal coro, che non ha paura di essere anticonformista, di schierarsi contro il luogo comunismo e di rivelare i segreti del potere. Il successo è stato accompagnato anche dall'acquisto di una testata storica come Panorama, il settimanale che dagli anni Sessanta in poi ha raccontato il cambiamento del Paese. Sembrava impossibile salvare il newsmagazine dal lento declino che ne stava erodendo la diffusione e invece, dopo due anni, abbiamo raggiunto l'obiettivo, riportando in equilibrio anche il conto economico. Quest'anno a La Verità e a Panorama si sono poi aggiunte altre testate, così da formare un piccolo, ma autonomo, gruppo editoriale, sano e senza vincoli, pronto a rispondere solo ai propri lettori. Tutto ciò in quattro anni.Tuttavia, non ho scritto questo articolo solo per festeggiare il nostro compleanno con chi ci compra e ci premia quotidianamente. Volevo sì informarvi dei nostri numeri e dei nostri successi, ma soprattutto ricordare che anche quando nacque La Verità c'era un signore che con la promessa di ridurre il numero dei parlamentari sperava di attaccarsi alla sedia. Nel 2016, usando il risentimento degli italiani contro la Casta, Matteo Renzi provò a farsi egli stesso Casta e padrone del Paese. Il nostro giornale, come sapete, svelò sin da subito quanto fossero false e illusorie le promesse del Rottamatore, il quale a dire il vero aveva fatto almeno lo sforzo di cambiare qualche cosa in più del numero di onorevoli. Ora, a distanza di quattro anni, il gioco si ripete. A proporre il taglio di deputati e senatori sono i 5 stelle, cioè gli esponenti di un movimento anti Casta che si è fatto Casta. Anche loro, come il fondatore di Italia viva, ribaltonista di successo (è grazie a Renzi se abbiamo un governo giallorosso nonostante avesse giurato che mai lo avrebbe fatto), provano a usare l'argomento del numero di eletti alla Camera e al Senato per prolungare il loro potere. Come Tomasi di Lampedusa, fa dire al principe Tancredi nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ecco, oggi si va a votare con la promessa di cambiare tutto, o per lo meno il numero dei parlamentari. Ma l'obiettivo di chi oggi suggerisce di mettere una croce sul Sì è far rimanere tutto com'è. Conte compreso.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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