- Secondo i dati pubblicati rincari sono del 4,8% contro l’8 che colpisce i consumatori quando acquistano beni di maggiore consumo. La tentazione di lasciar correre per diluire il debito pubblico. Ma l’effetto sarebbe peggiore di una patrimoniale da 200 miliardi.
- «Le statistiche ufficiali escludono le fiammate improvvise dei prezzi». L’esperto di Competere.Eu, Giuseppe Arleo: disparità destinate ad aumentare. Stangata da 1.100 euro.
Secondo i dati pubblicati rincari sono del 4,8% contro l’8 che colpisce i consumatori quando acquistano beni di maggiore consumo. La tentazione di lasciar correre per diluire il debito pubblico. Ma l’effetto sarebbe peggiore di una patrimoniale da 200 miliardi.«Le statistiche ufficiali escludono le fiammate improvvise dei prezzi». L’esperto di Competere.Eu, Giuseppe Arleo: disparità destinate ad aumentare. Stangata da 1.100 euro.Lo speciale comprende due articoli.Nei periodi di grande cambiamento sociale o di approccio alla spesa può succedere che tra il valore dell’inflazione calcolata delle istituzioni e quello cosiddetto «percepito» ci sia una forte differenza. Il secondo criterio è tutt’altro che artigianale. Viene misurato da analisti, gestori e persino dalla Bce. Si tratta dell’inflazione che realmente aggredisce le tasche delle famiglie e di coloro che campano grazie al proprio reddito. Si chiama «percepita» perché si basa su un raffronto diretto e spesso su beni di consumo che contraddistinguono l’esperienza personale di un carrello della spesa, spesso immutato per decenni. Per esempio sempre più spesso capita che al supermercato si acquisti un pacco di pasta alla stesso prezzo ma dal peso inferiore di un 25% almeno. Oppure ci sono beni di prima necessità che hanno subito impennate sproporzionate rispetto ai valori mediani. Era successo dopo l’introduzione dell’euro, sta succedendo adesso che la pandemia ha lasciato al suo alcune macerie. Dalla tensione sulle materie prime alla brusca interruzione della catena logistica che per circa venti anni ha contraddistinto la globalizzazione. Risultato l’Istat racconta di una percentuale inflattiva di crescita del 4,8% sullo scorso anno e dell’1,6% rispetto all’ultimo mese del 2021. Ma i dati reali o cosiddetti percepiti parlano di almeno l’8%. Di oltre tre punti maggiore rispetto ai calcoli statistici ufficiali. Il dato è importante per anticipare le mosse dei consumatori italiani e cercare di comprendere con un semestre di anticipo gli effetti di ricaduta sulle imprese. C’è però un altro aspetto. Un’inflazione così alta si basa su almeno tre fattori. Il primo è legato alla transizione ecologica e alla crisi energetica. In questo l’Italia è doppiamente penalizzata. Le bollette sono gravate da altissime tasse e imposte e da una politica energetica fallimentare. Importiamo la quasi totalità del gas e abbiamo speso in dieci anni oltre 85 miliardi di euro per sostenere le rinnovabili senza godere di alcun vantaggio competitivo rispetto agli altri Paesi. Il secondo fattore riguarda i colli di bottiglia. Con la fine della pandemia la domanda di consumi è ripresa ma il mondo si è scoperto diverso da prima. La globalizzazione vecchio stampo è saltata e l’Italia è un Paese che non produce ma trasforma beni e prodotti. Anche in questo siamo tra i più penalizzati. Infine, il terzo fattore è prettamente monetario. L’immissione di liquidità da parte delle banche centrali e i programmi di sostegno modello Recovery plan non sono altro che stampanti di moneta con la conseguenza di creare inflazione diretta. Qui può insorgere nei governi una tentazione. Il nostro debito pubblico è arrivato a valere oltre 2.700 miliardi. Lasciare galoppare l’inflazione (immaginiamo una media dell’8% durante il corso del 2022) significa sgonfiare il debito di circa 200 miliardi. Se il denaro vale meno anche il debito perde valore. Altro che patrimoniale. Peccato che l’inflazione non eroda solo il debito ma anche la capacità di creare ricchezza. E quindi di sostenere il Pil. Ne segue che i prossimi mesi sono cruciali per evitare un avvitamento. I partiti, soprattutto la Lega, stanno spingendo il governo a fare scostamento per calmierare i prezzi delle bollette. Purtroppo iniettare altra liquidità rischia di aggiungere benzina sul fuoco dell’inflazione. A dispetto delle dichiarazioni delle autorità finanziarie, infatti, il trend è tutt’altro che temporaneo. L’inflazione resterà alta a lungo. E a questo problema si risponde con interventi di altra natura. Le buste paga dovrebbero salire in modo coerente rispetto al costo della vita. Purtroppo le due percentuali mantengono una forbice troppo ampia. Nel 2021 il costo del lavoro è cresciuto soltanto dello 0,6% e quest’anno difficilmente toccherà l’1%. I flussi migratori non aiutano certo. I continui inserimenti di manodopera a bassissimo costo tendono ad abbassare il valore medio delle buste paga e pure la produttività. Ne segue che la sovranità energetica sarà il vero tema sul quale il governo dovrebbe perdere il sonno per cercare una via di uscita ai problemi economici. Al momento non c’è cenno di inversione di rotta. Mentre il Paese dovrebbe aprire un vero e proprio fronte per sostenere nel lungo termine il ritorno al nucleare e nel breve il revival del gas. Primo sviluppando il mercato interno, secondo usando la diplomazia dei militari per riportare i pozzi libici sotto la nostra sfera di influenza. In un momento come l’attuale andrebbe bene anche una alleanza sul campo con l’esercito di Emmanuel Macron pur di trovare una soluzione rapida. Almeno fino a che l’Italia non si riappropri di alcune filiere produttive. Più acciaio e più microchip. All’orizzonte le nubi sono scuro. E il tentativo di introdurre nuovi lockdown (come quelli di fatto) produrrà una contrazione della domanda e nel breve un raffreddamento dell’inflazione con la conseguenza però di vedere il falò incendiarsi appena si riapre il Paese. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-vera-inflazione-e-doppia-di-quella-istat-2656600155.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-statistiche-ufficiali-escludono-le-fiammate-improvvise-dei-prezzi" data-post-id="2656600155" data-published-at="1644348799" data-use-pagination="False"> «Le statistiche ufficiali escludono le fiammate improvvise dei prezzi» Tra l’inflazione calcolata dall’Istat e quella percepita dai cittadini ci sarebbero oltre 3 punti percentuali di differenza. La stima, realizzata per la Verità, viene dal centro studi Competere.Eu. Secondo le stime, quindi, questo significa che i prezzi in Italia avrebbero subito un aumento di quasi l’8%. D’altronde, solo secondo l’Istat, a gennaio 2022 l’inflazione ha toccato quota 4,8%. Aggiungendo il 3% stimato da Competere.Eu, si raggiungere il 7,8%, una cifra da capogiro per gli italiani. Il vero problema è infatti che l’inflazione toglie di fatto potere d’acquisto ai cittadini. Per intenderci, 100 euro presenti sul conto corrente con inflazione vicina all’8% valgono in realtà l’equivalente di 92 euro per potere d’acquisto. A pesare sull’andamento dei prezzi c’è prima di tutto il caro energia (+38,6%). «Il diverso andamento dei prezzi dei beni e dei servizi», spiega Giuseppe Arleo, senior fellow del think tank e responsabile dell’Osservatorio Next Generation di Competere.Eu, «è rilevante perché incide in maniera differente sulle possibilità di spesa delle diverse tipologie di famiglie. Poiché i beni pesano in misura maggiore sugli acquisti delle famiglie meno abbienti e, al contrario, i servizi pesano di più sui bilanci di quelle più benestanti, il rialzo dell’inflazione ha ricadute più negative per le famiglie con una spesa mensile più bassa. Questo aspetto, di cui non sempre si parla, genera una forte disparità». C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione, dice Arleo. «Il paniere Istat, che è stato recentemente integrato da beni e servizi legati alla pandemia (tamponi, test antigenici, saturimetri etc) si riferisce alla spesa di una famiglia media, rappresentativa del Paese», dice. «In realtà, spesso si osserva che l’inflazione reale, quella misurata dall’Istat, si discosta anche in maniera significativa dalla cosiddetta «inflazione percepita», quella che misuriamo al bar sotto casa o al supermercato e comunque nell’esperienza quotidiana di acquisto. Questo è tanto più vero quanto più si evidenzia che nell’aggregazione delle singole quotazioni fatte dall’Istat sono escluse di volta in volta le voci che registrano rincari eccezionalmente elevati, poiché si ritiene che i consumatori tendano a sostituirle con altri prodotti». Oltre ai costi legati alle bollette, per calcolare una inflazione percepita bisogna quindi prendere in considerazione anche i trasporti, con il prezzo dei carburanti giunto alle stelle e diversi altri beni che non fanno parte del paniere di 1772 prodotti creato da Istat per seguire l’andamento dei prezzi. Tutto questo potrebbe quindi erodere la tanto agognata crescita del Pil italiano per il 2022. Secondo Competere.Eu, l’inflazione galoppante potrebbe quindi costarci a fine anno una mancata crescita del prodotto interno lordo dello 0,7%. Sul tema, Federconsumatori ha stimato che la crescita fulminea dei prezzi potrebbe costare agli italiani in un anno circa 1.102 euro. In particolare, considerando solo i forti rincari su beni primari quali energia elettrica, gas, carburanti e alimentari, l’aggravio a carico di ogni famiglia ammonterà, secondo le stime dell’osservatorio di Federconsumatori, a più di 551 euro annui a famiglia. Come spiegano da Anima, gestore di fondi quotato in Borsa, tutto questo porterà il nostro Paese a un forte rallentamento della crescita verso i livelli pre-pandemia. Attenzione, poi. Il rialzo dei prezzi, spiegano da Cassa Lombarda, è sospinto in particolare dall’energia, ma in generale la forza della domanda consente alle imprese di ribaltare sui consumatori i maggiori costi di materiale e produzione. Le grandi vittime di questa corsa dei prezzi sono sempre i consumatori finali.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






