2018-12-03
La strage dei piccoli. Nel 2018 in Italia chiusi per fallimento 74 negozi al giorno
Da Nord a Sud, giù 20.000 saracinesche. Quando va bene, li sostituiscono i discount cinesi o i supermarket pakistani. Quando va male, dove prima c'era una vetrina luminosa rimane una serranda grigia. Confesercenti: «Così i quartieri diventano deserti. E le strade sono buie e insicure».«La chiusura che mi ha fatto più male? A 200 metri dalla mia bottega, qui a Rimini, c'era un negozio di grandi firme. Ora al suo posto ha aperto un alimentari cingalese, di quelli che vendono gli alcolici fuori orario. E infatti ogni tanto arrivano le volanti della polizia». In poche battute, il vicepresidente di Federmoda Emilia Romagna, Giammaria Zanzini, dipinge per La Verità il quadro della moria che sta colpendo i piccoli esercizi commerciali. Funestati dalla crisi dei consumi e bersagliati dalla concorrenza della grande distribuzione, molti di loro abbassano per sempre le saracinesche. Quando va bene, li sostituiscono i discount cinesi o i supermarket pakistani. Quando va male, dove prima c'era una vetrina luminosa rimane una serranda grigia. E così i nostri centri storici si desertificano.Secondo uno studio di Confesercenti basato su dati Istat, nei primi nove mesi del 2018, in Italia, hanno chiuso definitivamente 20.000 negozi di quartiere. In pratica, 74 al giorno, tre all'ora. Una strage, un'ecatombe, che non riguarda solo piccoli imprenditori falliti e commesse che perdono il lavoro. Riguarda tutti noi, perché meno esercizi commerciali significano più degrado e più insicurezza. Dove manca quello che la presidente di Confesercenti, Patrizia De Luise, chiama «presidio sociale», si trovano infatti «vie meno vissute», meno illuminate, meno controllate. In una parola, pericolose. E le nostre città s'incupiscono. Prima c'erano il mercato rionale e il «corso» pieno di negozi. Ora le code del fine settimana sulle strade extraurbane per raggiungere gli spersonalizzanti centri commerciali. Uguali dappertutto, da Detroit ad Arese. È una piaga che sta colpendo in maniera più drammatica le cittadine di provincia, ma dalla quale non sono esenti le metropoli, almeno i quartieri non particolarmente turistici.A Roma Sud, ad esempio, tra Testaccio e l'Eur, c'è il negozio di abbigliamento della signora Mina Giannandrea. «Una volta viale Marconi era una zona di passeggio, piena di bei negozi», racconta alla Verità. «Venivano Fiordaliso, Alberto Sordi... Adesso i bei negozi, come il gruppo Clark a piazza della Radio, hanno chiuso. E sono arrivati i cinesi». I centri commerciali, che lì intorno proliferano, «fanno la parte del leone: la gente trova subito parcheggio, non lo paga e allora va direttamente lì». Mina conclude il suo bollettino di guerra con l'ultimo «caduto» tra i negozianti: «Accanto a me ha appena chiuso un negozio di biancheria che stava qui da 40 anni». Ecco, da 40 anni. Noi sappiamo cosa significa passeggiare davanti alla stessa vetrina per una vita. Conosciamo quell'atmosfera familiare, quell'aria di casa. I nostri figli l'assaporeranno mai? A viale Marconi, la signora Mina vede andare in fumo l'«identità del quartiere». Immaginate l'effetto devastante su città di più modeste dimensioni: non a caso, nei centri storici italiani si registra un meno 11,9% di negozi tra il 2008 e il 2018. Basta spostarsi poco a Nord della capitale, a Fiano Romano, per rendersi conto, come ci spiega il maestro panificatore Fabio Albanesi, che persino per chi produce un alimento essenziale come il pane le cose si stanno mettendo male. «Io porto nel cuore la mia categoria», ci dice commosso. «Per questo sono rimasto malissimo quando ho visto chiudere, qui a Fiano, un collega fornaio. Ma d'altronde come facciamo a reggere la concorrenza dei centri commerciali? Ti propongono baguette da 250 grammi a 30 centesimi. Pazienza poi se il grano viene dall'Est Europa…». E se uno che non può battere i colossi volesse unirsi a loro? «Mica facile. Per entrare nella grande distribuzione devi pagare».Il riminese Zanzini, di Federmoda, sciorina dati desolanti: «In Emilia Romagna abbiamo perso 6.000 imprese dal 1998, quando fu approvata la legge Bersani sulle liberalizzazioni. In provincia di Rimini chiudono 130-140 negozi all'anno. sono 2.600 posti di lavoro in meno». Lui ce l'ha anche con Mario Monti: «Le liberalizzazioni del dl Salva Italia dovevano far aumentare i consumi. L'unica cosa che è aumentata sono le tasse: quelle locali del 248%». E anche dalle parti del vicepresidente regionale di Federmoda c'è il boom della grande distribuzione. «Al centro commerciale Le Befane, per il ponte di Ognissanti si sono registrate 50.000 presenze. Dico io: ma di queste 50.000 persone, vuoi vedere che non ce n'erano 1.000 che potevano andare a Cattolica, 1.000 a Bellaria, 1.000 a Rimini, se le aperture nei giorni festivi fossero state regolamentate?». Il punto è proprio questo: i centri commerciali. A massacrare i negozianti di quartiere c'è stata, sì, la depressione economica. Meno 900 milioni di euro di vendite nel 2018 rispetto allo scorso anno si spiegano facilmente: per comprare ci vogliono i soldi, per avere i soldi serve il lavoro e possibilmente un lavoro stabile, che invogli a togliersi qualche sfizio anziché a mettere da parte temendo periodi di magra. Da questo punto di vista, in Italia le cose sembrano andare peggio persino della Grecia, citata come il fanalino di coda d'Europa in tutte le classifiche. Secondo Confesercenti, a differenza che da noi, lì le vendite hanno fatto registrare segno positivo (+1,8% nei primi sei mesi del 2018). Le misure introdotte dal governo Monti per rilanciare i consumi, tuttavia, si sono rivelate un fallimento. Se non un regalo a chi fa affari con i centri commerciali, i quali fanno una concorrenza spietata ai «pesci piccoli», incapaci di resistere. «Le liberalizzazioni hanno drogato il mercato perché non hanno permesso di programmare l'attività dei commercianti in modo paritetico. Noi negozianti non abbiamo le stesse regole della grande distribuzione e non paghiamo le stesse tasse», denuncia alla Verità la presidente di Confesercenti De Luise. Zanzini rincara la dose: «Non ci si può nemmeno consolare dicendo che i centri commerciali danno lavoro alle persone. Per ogni assunto nella grande distribuzione, vanno a casa 6-7 commessi dei negozietti». E le saracinesche che si abbassano nei centri storici deprimono pure il mercato immobiliare, come sottolinea la De Luise.Da una parte, insomma, le vecchie botteghe di vicinato. I «presidi». Che bella parola: dà l'idea di un baluardo, di una certezza cui ancorarsi. Dall'altra parte i centri commerciali, costruiti magari in mezzo al nulla, consumando suolo e continuando a gettare tonnellate di cemento, alla faccia dell'ambientalismo che va di moda sbandierare. «Bellaria, Rimini, Cattolica e Riccione stanno diventando dei deserti. Ma vogliono costruire un altro centro commerciale a Misano», lamenta Zanzini, come un fiume in piena. È accalorato, perché sa che questo fenomeno non minaccia solamente la sua impresa e quella di tanti altri come lui, ma rischia di trasformare le nostre cittadine in anonimi agglomerati costituiti da quartieri dormitorio. E come avviene il più delle volte, il male è banale: «Magari un permesso di costruzione», dice Zanzini, «viene concesso soltanto perché i sindaci sperano di mettere insieme un po' di soldi per pareggiare i bilanci grazie agli oneri di urbanizzazione. Non pensano alle conseguenze».Si può porre un freno alla strage dei piccoli? Si possono salvare i centri città? Confesercenti ha proposto diverse soluzioni, da una revisione della cedolare secca alla riduzione delle tasse che gravano sui commercianti. Quanto alla regolamentazione delle aperture, i negozianti sembrano avere un parere unanime: va bene l'apertura domenicale, ma bisognerebbe porre un argine alla concorrenza dei centri commerciali. Come? «Ad esempio», argomenta sempre il vulcanico Zanzini, «accordandoci con la grande distribuzione per alternare le aperture festive: la prima domenica del mese siamo aperti noi, la seconda siete aperti voi, le altre due domeniche apriamo entrambi». Niente divieti tassativi, ma nemmeno l'eliminazione di tutti i paletti, che alla fine fa il gioco di chi è più grande e più forte. I nostri commercianti infatti non chiedono di essere assistiti. Non pretendono l'embargo totale sulle domeniche, come in Germania. Vogliono solo la possibilità di lottare ad armi pari. E se ci piange il cuore quando chiude la bottega «che stava lì da 40 anni», se non vogliamo che la luce delle vetrine di quartiere sia inghiottita dal buio o rimpiazzata dai bazar etnici, la loro battaglia dev'essere anche la nostra.
Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?
Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)