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2025-08-05
Sventati gli aumenti per chi ha un negozio. A chiedere più tasse era stata Forza Italia
Antonio Tajani (Ansa)
Il Parlamento boccia due emendamenti degli azzurri. E pensare che Tajani fa muro contro i contributi sui maxi profitti bancari.
Generosi con le banche, severi con i proprietari di immobili. In Forza Italia il caldo deve aver giocato qualche brutto scherzo, causando un’apparente crisi d’identità. Mentre il partito guidato da Antonio Tajani blocca la Lega su qualsiasi ipotesi di contributi volontari a carico degli istituti di credito, che hanno archiviato un’altra semestrale gonfia di utili, tre deputati azzurri hanno tentato di approvare nuove norme che prevedevano più tasse sui negozi sfitti e una diminuzione dei canoni. Gli emendamenti sono stati bocciati dalla Camera e la cosa incredibile è che non fossero della sinistra, ma di Forza Italia, il partito fondato da Silvio Berlusconi.
Il provvedimento in discussione riguarda il decreto legislativo 219 del 27 dicembre 2024, che prevede «la costituzione dell’Albo nazionale delle attività commerciali, delle botteghe artigiane e degli esercizi pubblici, tipizzati sotto il profilo storico-culturale o commerciale, ai fini della valorizzazione turistica e commerciale di dette attività». La prima proposta dei deputati Luca Squeri, Rosaria Tassinari e Maria Paola Boscaini era di inserire la seguente norma: «In sede di rinnovo del contratto di locazione, gli esercenti di attività commerciali, botteghe artigiane ed esercizi pubblici storici o di eccellenza […] e i proprietari dei locali, ai fini della determinazione del canone sono tenuti a fare riferimento alla media dei valori immobiliari di locazione pubblicati periodicamente dall’Agenzia delle entrate». Si tratta dei valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare, area per area. E a questi valori, proseguiva l’emendamento, devono «fare riferimento anche le regioni in sede di adozione dei percorsi conciliativi». Il mercato delle locazioni commerciali, secondo i dati della stessa Agenzia delle entrate, è in aumento, anche per via della domanda straniera, e specie nei centri storici i valori dell’Osservatorio sono spesso assai inferiori a quelli di mercato. L’emendamento bocciato era quindi a sfavore dei padroni dei muri.
La seconda norma andava invece oltre il mero dare-avere e cedeva, di fatto, a una campagna di parte delle opposizioni contro gli immobili sfitti. Il testo dell’emendamento, però, sosteneva di nascere da esigenze di decoro. «In considerazione del danno al decoro urbano derivanti dall’inutilizzo» dei locali commerciali o a uso artigianale, secondo i proponenti è necessario che «i Comuni possano censire tali immobili, individuando quelli non utilizzati da oltre 12 mesi». A questo termine possono essere aggiunti tre mesi, nel caso il proprietario dimostri che ha fatto una ristrutturazione. Una volta scaduto il termine di un anno, proseguiva l’emendamento, «i Comuni possono stabilire l’aumento dell’aliquota base dell’imposta municipale». E non di poco: si voleva permettere ai sindaci di aumentare le imposte in modo direttamente proporzionale al protrarsi del non utilizzo fino a un massimo di cinque volte l’aliquota base. Non solo, ma si prevedeva che questa maggiorazione si applicasse anche in caso di vendita dell’immobile e che la sovratassa si fermasse solo all’arrivo di un nuovo inquilino. Unico modo di salvarsi da questo esproprio mascherato, affittare a titolo gratuito per almeno tre anni. Una norma bizzarra, quest’ultima, perché da un lato può favorire parenti o amici del proprietario, dall’altro può finire per benificiare enti che hanno un rapporto privilegiato con il Comune stesso. Senza contare i rischi di «retrocessioni» del canone in nero.
Anche questo emendamento è stato respinto ed è una buona notizia per i proprietari degli immobili, che spesso hanno investito nei muri di un negozio per garantirsi una piccola integrazione al reddito. Dalla pandemia in poi, specie nei centri storici delle grandi città, sono rimasti vuoti molti locali, specie quelli di grandi dimensioni. Molti sono passati di mano e a comprare sono in massima parte gli stranieri e grandi gruppi, che sanno far girare bene i loro investimenti. I due emendamenti bocciati avrebbero probabilmente avuto l’effetto di invogliare la piccola proprietà italiana a liberarsi del negozio di turno per non vedersi aumentare le imposte.
Giuste o sbagliate che fossero le intenzioni dei tre deputati, colpisce che arrivino da Forza Italia. Nel fine settimana, il partito azzurro ha polemizzato con la Lega sulla tassazione delle banche. Matteo Salvini, vicepremier e capo del Carroccio, la scorsa settimana aveva annunciato: «Stiamo ragionando non su una tassa ma su un contributo volontario e spontaneo delle banche da ridistribuire ai lavoratori italiani e agli imprenditori». Nel fine settimana, gli ha risposto Tajani: «Le banche raccolgono risparmi, erogano prestiti e devono rispettare le regole e pagare le tasse come tutti. Devono fare la loro parte ma non possono essere indicate come il nemico pubblico numero uno e non dobbiamo spaventare gli investitori». La Lega ha tenuto il punto con una nota ufficiale: «Mentre nel solo 2024 le banche hanno guadagnato oltre 46 miliardi di euro, milioni di italiani sono in difficoltà con cartelle esattoriali e debiti del passato. Pace fiscale e definitiva rottamazione delle cartelle sono priorità assolute».
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Riduci
Mariano Bella (Ansa)
Il direttore dell’ufficio studi di Confcommercio Mariano Bella: «Dopo il boom del commercio online, una mazzata anche dal lavoro a casa».
Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi di Confcommercio, qual è il punto di partenza dell’analisi che avete effettuato?
«È un’indagine che svolgiamo sulla base dei dati forniti dal Centro studi Tagliacarne delle Camere di commercio, attraverso la quale cerchiamo di vedere come si muove il commercio. Prendiamo in esame da anni una quindicina di settori per cercare di costruire una serie storica scevra da incursioni accidentali. Tra gli obiettivi, capire le differenze tra i centri storici in confronto alle periferie».
E in quest’ultima edizione quali sono gli elementi di rilievo?
«Senza dubbio il fatto che negli ultimi 10 anni sono spariti 85.000 negozi. Qualcuno parla di rischio desertificazione, noi preferiamo non lanciarci in grida di dolore e di allarme. Certo, è un tema che va attentamente monitorato, perché gli esercizi commerciali costituiscono un importante presidio».
Sembra che in questo senso i centri storici stiano avendo la peggio.
«Sì, nell’ultimo decennio i centri storici hanno perso un po’ di più, e maggiormente al Centro-Nord rispetto al Sud. Una differenza che va qualificata, perché una cosa è perdere un negozio nel centro storico, un’altra in periferia. Nel centro storico le perdite difficilmente si possono sanare, a seguito di una sostituzione con una superficie più grande. Sono chiusure che vanno “pesate”. Mi permetta però un’ulteriore precisazione».
Certo.
«Non è vero che i nostri centri storici non sono vitali, sono anzi vitalissimi. Ce ne accorgiamo se nel periodo esaminato prendiamo in considerazione le dinamiche dei negozi per tipologia dei prodotti. Le categorie che vendono beni essenziali - alimentari e tabaccherie - hanno perso pochissimo. Se prendiamo, invece, farmacie e negozi di telefonia assistiamo a crescite importanti. Segno che i trend settoriali condizionano inevitabilmente le dinamiche di aperture e chiusure. La farmacia, ad esempio, non è vista più solo come un negozio dove si comprano i medicinali, ma dove ci si prende cura di sé».
Negli altri settori però si assiste a un vero tracollo…
«Mobili, giocattoli, abbigliamento e calzature, carburante diminuiscono del 20% o anche più. Non va mai dimenticato che, sebbene il nostro Pil l’anno scorso sia cresciuto, i consumi non sono ancora tornati a livelli pre-pandemia. Anche se consideriamo la spesa dei turisti siamo lontani anni luce. Va considerato anche il commercio ambulante, che ha perso terreno a causa di un processo di razionalizzazione, e l’alloggio e la ristorazione, cresciuti moltissimo negli ultimi dieci anni ma vittime di una battuta d’arresto a causa della pandemia».
Eppure sembrava che nei centri storici almeno il turismo stesse andando forte.
«Fino al 2019 ci ponevamo una questione rilevante, ovvero se fosse possibile raggiungere un equilibrio tra la rarefazione dei negozi e l’aumento dell’offerta turistica. Per noi questa rappresentava già una questione foriera di dubbi, dal momento che l’offerta commerciale va sviluppata sia per i residenti che per i turisti. Dopo la pandemia, invece, abbiamo capito che se il nostro turismo non recupererà avremo centri storici sia con meno negozi sia con meno attività commerciali, e questo porrà un grosso problema».
Sembra che il fattore sociale e demografico giochi un ruolo fondamentale.
«In generale, già di per sé la conformazione fisica delle città tende a favorire un processo di spostamento fuori dal centro. La diffusione dello smart working, poi, potrebbe dare un nuovo impulso alla riduzione della popolazione nei centri storici. Meno occasioni di andare in centro e, non dimentichiamolo, case meno care in periferia».
Quanto pesa il boom delle vendite in rete?
«Il commercio online ha tolto un pezzo al commercio fisico, ma la situazione non è così grave come si tende a pensare. Anzi, questo canale sta aiutando molti piccoli negozi a innovare e ad ampliare il bacino di utenza. Anche il piccolo negozio del centro storico può avere la propria vetrina digitale. Un tema che la pandemia ha enfatizzato».
In positivo o in negativo?
«I dati diffusi dal Politecnico di Milano testimoniano che, rispetto al 2019, nel 2021 il commercio online su tutte le piattaforme è aumentato del 71%, mentre i servizi sono calati del 34%. Quando la situazione si normalizzerà, diciamo nel 2023, i beni continueranno a essere acquistati e i servizi torneranno al livello pre-pandemia e questo costituirà un ulteriore stress sui negozi fisici. Durante il lockdown le persone hanno capito che si possono far portare a casa anche il detersivo. Non c’è soluzione alternativa rispetto alla ricetta che i negozianti stanno già mettendo in atto: migliore organizzazione, aumento della produttività e azioni di marketing. Non c’è piano B, non serve lamentarsi. Occorre rendersi conto che serve un cambiamento culturale».
Che contributo possono dare gli enti locali?
«Possono aiutare, ma non modificare i trend. Pensiamo alla vicenda dei tavoli all’aperto durante questa pandemia: i Comuni si sono dimostrati validi interlocutori, ma ciò non toglie che servirebbero riflessioni diverse sulla desertificazione dei centri storici. Finora abbiamo pensato di difendere i negozi con battaglie di retroguardia, come quella dei vincoli all’apertura di grandi superfici. Ciò che proponiamo oggi è un modello diverso: se il numero dei negozi in centro scende oltre un certo limite, solo allora scatta un limite temporaneo alle nuove aperture di grandi superfici».
Domanda secca: i negozi dei centri storici eviteranno il baratro?
«Tutte le analisi mettono in evidenza un punto ineludibile: è solo la crescita del nostro sistema economico che potrà salvare il commercio italiano».
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