2021-02-14
La strada di Draghi non è in discesa. Con i partiti rischia la guerriglia
Ieri il primo Cdm, ma alcune nomine non sono piaciute alle segreterie, scavalcate dall'ex banchiere. Che ora deve sporcarsi le mani e impostare un rapporto proficuo con i leader per sminare il cammino.Inutile far finta che l'inizio di Mario Draghi sia stato scintillante: non lo è stato affatto, e non solo perché la compagine ministeriale non ha esattamente i contorni del dream team, ma pure perché - più o meno consapevole, o più o meno incurante delle relative conseguenze - l'ex presidente Bce, preoccupato di blindare il Mef (con Daniele Franco) e i due ministeri pesanti affidati agli altri tecnici Roberto Cingolani e Vittorio Colao, è sembrato delegare alle antiche astuzie democristiane di Sergio Mattarella lo scioglimento dei nodi legati alle rimanenti caselle ministeriali.Ora, sarà pur vero che le postazioni che contano - nella testa di Draghi - sono quelle per cui lui stesso ha compiuto le scelte, ma le altre - pur più decorative in concreto - erano e sono vitali rispetto agli equilibri di partiti già molto destabilizzati dalla nuova situazione. Averli palesemente bypassati (tutti) nel processo di scelta, e poi aver dato la sensazione di infilarsi in modo intrusivo nelle dinamiche interne ad alcuni di essi (Forza Italia e Lega, privilegiando in entrambi i casi alcune componenti rispetto ad altre) rischia di produrre almeno sei conseguenze indesiderate per il neopremier. Primo. Per carità, è ancora prestissimo: ma in questo weekend Draghi non ha certo guadagnato punti nella corsa al Quirinale. Semmai, ha creato alcune diffidenze nei grandi elettori. C'è chi osserva che proprio Sergio Mattarella e il suo attuale staff potrebbero non essere dispiaciuti di questo effetto collaterale. E non sono sfuggite agli osservatori più attenti le prime voci, nel mondo Pd e democristiano di sinistra, che già allungano la tempistica della missione di Draghi a Palazzo Chigi, evocando il tema dell'implementazione del Recovery plan: tradotto volgarmente, non una roba da 1-2 anni, ma un'impresa da 5-7 anni. Un ragionamento del genere porterebbe come conseguenza il riproporsi di un bis di Mattarella, o comunque candidature gradite all'attuale inquilino del Colle, a partire da quella Marta Cartabia che il Quirinale ha fortissimamente voluto in Consiglio dei ministri. Secondo. Draghi avrebbe fatto (e farebbe) bene a tenere rapporti diretti con i leader, evitando di delegare ad altri o di fidarsi sempre di intermediari e mediatori non sempre e non necessariamente pronti (vale per Fi e per la Lega) a interpretare i veri desiderata dei capipartito. Non è un mistero che il partito azzurro abbia vissuto con stupore (a dir poco) l'esclusione di Antonio Tajani e, di conseguenza, almeno una e forse due delle tre scelte ministeriali compiute dal ticket Mattarella-Draghi nel campo di Forza Italia. E qualcosa di analogo - al di là del necessario buon viso a cattivo gioco - è molto probabilmente accaduto in ambito leghista. Tutti comprendono che Draghi non muoia dalla voglia di infilarsi nei giochi di politics: ma a volte, come nel celebre spot pubblicitario, una telefonata (con i leader) allunga la vita, smina problemi, evita equivoci e incomprensioni.Terzo. Questo è a maggior ragione vero se si considera l'anomalia di un Parlamento in cui M5s è ancora numericamente fortissimo, e, insieme con Pd e Leu, è in grado di far valere una golden share. Dunque, Draghi non potrà pilatescamente dire, sull'una o sull'altra questione: «Se la vedano le Camere». Perché questo significherebbe autorizzare un patto a tutto danno di Lega e Fi.Quarto. Questa situazione rischia di pesare anche rispetto alla vita della legislatura. Quanto più si mina, anche involontariamente, la fiducia dei leader, tanto più si innesca un meccanismo destabilizzante rispetto al governo. Quinto. A Draghi importerà poco, ma al suo governo non gioverà affatto una dinamica per cui i ministri, com'è sempre accaduto nella politica italiana, provino a far valere anche nel proprio partito (rispetto ai gruppi parlamentari e ai territori) la loro attuale posizione di forza, creando tensioni con le segreterie nazionali. Sesto (e non certo ultimo per importanza). Sarebbe paradossale se l'operazione volta a disarticolare il centrodestra proseguisse tentando - in Parlamento - di ricominciare con la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Il governo potrebbe essere tentato dall'opzione di far finta di nulla, trincerandosi dietro la giusta considerazione che si tratta di una materia strettamente parlamentare. Ma sarebbe surreale se la nuova maggioranza, pur di creare problemi a destra, anziché occuparsi di piano vaccinale, di economia e di riaperture, scegliesse come priorità la legge proporzionale. Se c'è invece un terreno sui cui Draghi può essere fortissimo e dominante (anche rispetto alle manovre del Colle) è la sua reputazione internazionale. Ieri non si contavano i messaggi di auguri, da Charles Michel (con tanto di hashtag #whateverittakes) a Ursula von der Leyen, da Boris Johnson ad Angela Merkel, passando per Pedro Sanchez, come si vede senza distinzioni tra appartenenze politiche molto diverse. Quanto alla parte pubblica della giornata di Draghi, dopo il giuramento e la cerimonia della campanella, sono state fatalmente ecumeniche e generiche le frasi pronunciate dal premier nel primo Cdm: la priorità sarà «mettere in sicurezza il Paese».Attenzione, però. Le prime ventiquattr'ore hanno fatto accendere una spia rossa sul cruscotto: molto malumore sui social, una sensibile delusione per il décalage tra le attese e la realtà della squadra ministeriale, l'insidia della reale relazione con il Colle (parole dolci a parte), e qualche indubbio errore di impostazione nel rapporto con i leader.