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2020-09-14
Nonostante la crisi del Covid in arrivo 257 scadenze fiscali
Doveva essere una soluzione alla crisi del Covid, invece si sta trasformando in una tagliola, nel colpo di grazia per migliaia di piccoli imprenditori, commercianti, artigiani e partite Iva. La logica di posticipare gli appuntamenti con il fisco ha creato l'effetto imbuto con problemi per i pagamenti a cui si sommano quelli burocratici. Mentre si parla tanto di semplificazione e digitalizzazione, il rapporto con il fisco è ancora caotico e difficile. A settembre si affastellano 257 scadenze e per alcune procedure il contribuente deve usare i moduli di carta. Il tutto in una situazione di grande disagio economico, con i consumi che non ripartono, i debiti che si accumulano. Il governo, sordo alle richieste delle imprese che per alcune imposte chiedevano la moratoria, continua a battere cassa. La spiegazione è che i pagamenti non si possono annullare, pena il default dello Stato, ma il sacrificio è chiesto alle categorie produttive più deboli del Paese.
Bisogna pagare, non c'è scampo. Dopo l'effetto imbuto che si è creato ad agosto con il posticipo delle imposte (dal 30 giugno al 20 luglio e poi al 20 agosto con maggiorazione dello 0,40%), eccoci alla vigilia delle scadenze di settembre. Per tanti piccoli imprenditori potrebbe essere il colpo di grazia. Commercianti, artigiani, partite Iva non si sono ancora ripresi dall'esborso estivo, stanno riavviando le attività tra mille problemi, e ora dovranno stringere di più la cinghia. «Solo un folle poteva pensare che nel giro di qualche mese avremmo superato la crisi, che sarebbe bastata una manciata di settimane per tornare al giro d'affari pre Covid.
Ora ci troviamo a pagare le tasse arretrate e quelle nuove, tutte insieme mentre gli ordini languono, e abbiamo raschiato il fondo dei risparmi», afferma Antonio Rinaldi, partita Iva che lavora nell'informatica. «Durante l'estate sono stata costretta a tenere chiuso. Mantengo con i miei risparmi una sarta, mia collaboratrice. Non potevo metterla per strada. Alzare la saracinesca ogni giorno è una scommessa, sono scomparsi anche quelli che entravano solo per curiosare», dice quasi in lacrime Agnese Testa, una bottega di abbigliamento artigianale nel quartiere Esquilino a Roma. Due storie, come tante, simili tra loro.
La pandemia globale ha scatenato un effetto a catena in campo fiscale con una sequela di rinvii, sospensioni e nuovi calendari che hanno generato l'ingorgo di luglio e agosto. Chiusa la partita delle tasse posticipate nei mesi estivi ora si apre quella di settembre, con alcune scadenze rinviate a questo mese che si sommano a quelle ordinarie, in una situazione che è tutt'altro che ordinaria. I circa 4,5 milioni di partite Iva dovranno vedersela anche con lo sciopero dei commercialisti, proclamato dal 15 al 22 settembre che rende ancora più caotica la situazione. Per settembre sono previsti 257 appuntamenti con il fisco. Inoltre, a dispetto dell'annunciata digitalizzazione per semplificare le procedure, alcune procedure vanno fatte ancora usando la carta. Sono 5: 16, 21, 25, 28 e 30 settembre. Il 16, dopodomani, è da bollino rosso.
Scadono 174 adempimenti. Tra questi, i più importanti sono i saldi 2019 e gli acconti 2020 dell'Irpef per chi sta versando a rate, la quarta rata dell'addizionale regionale e comunale, la terza rata dell'addizionale Ires, la quarta rata della cedolare secca a titolo di saldo 2019 e primo acconto per il 2020; ci sono poi i versamenti Iva, Ires e Irap.
A queste incombenze si aggiungono i versamenti posticipati dai decreti sull'emergenza Covid. Il 16 settembre vanno in scadenza il 50% dei versamenti Iva, ritenute d'acconto sui redditi da lavoro dipendente, contributi previdenziali e premi assicurativi che dovevano essere pagati a marzo, aprile e maggio 2020. Chi ha avuto diritto a quelle sospensioni in virtù dei decreti sull'emergenza ora deve pagare. Può versare il 50% tutto insieme o spalmando l'importo in 4 rate mensili fino al 16 dicembre. L'altro 50% va versato a partire dal 16 gennaio 2021 in massimo di 24 rate mensili fino a dicembre 2022. Di questi posticipi hanno potuto usufruire alcune categorie quali, tra le altre, le imprese turistiche, le agenzie di viaggio, le associazioni sportive, i soggetti che gestiscono le sale cinematografiche, le sale concerto, le discoteche, le ricevitorie del lotto, le attività di ristorazione, le gelaterie, come pure musei, luoghi di cultura, asili (solo per citarne alcuni) che ad aprile e maggio hanno avuto una riduzione del fatturato di almeno il 33% rispetto ai corrispondenti mesi del 2019. Sempre il 16 settembre scade la comunicazione delle liquidazioni periodiche Iva relative al secondo trimestre 2020.
Il 21 settembre è l'ultimo giorno utile per regolarizzare i versamenti di imposte e ritenute non effettuati o effettuati in misura parziale entro il 20 agosto, con maggiorazione degli interessi e della sanzione ridotta a un decimo. Le imprese elettriche hanno l'obbligo di comunicare all'Agenzia delle entrate il dettaglio dei dati relativi al canone Tv addebitato, accreditato, riscosso. Le società entro il 25 settembre devono presentare gli elenchi riepilogativi (Intrastat) delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi rese ad agosto.
L'ultimo giorno del mese, il 30, fa tremare i polsi. Scade il termine (è la prima volta) per trasmettere all'Agenzia delle entrate il modello 730. I contribuenti hanno l'ultima chiamata per 45 tipologie di versamenti. Inoltre vanno spedite le domande per i soggetti interessati al riparto della quota del 5 per mille. Non è finita: devono essere inviate le richieste di rimborso Iva assolta in altri stati membri dell'Unione europea.
«Posticipando le scadenze il problema non si è risolto ma si è spostato in avanti, e ora i nodi vengono al pettine. Bisognava azzerare le tasse per i piccoli imprenditori, introdurre una sorta di moratoria fiscale per dare respiro e tranquillità a commercianti, artigiani e partite Iva», afferma Paolo Zabeo, coordinatore dell'ufficio studi della Cgia di Mestre. E lancia il sasso: «In questo modo, il problema della liquidità si è ingigantito in un momento in cui le microimprese sono in grande difficoltà. I numeri dicono chiaramente che i consumi delle famiglie continuano a crollare e senza commesse un'azienda boccheggia». Zabeo sottolinea il rischio che «molti non essendo nelle condizioni di pagare, possano finire nella rete degli usurai. La malavita è pronta ad approfittarsi delle situazioni di grave disagio economico. Non mi stupirei se tra qualche mese si riproponessero anche casi di suicidio di imprenditori strangolati dagli strozzini e senza più lavoro».
«Una mazzata per molte aziende. Il 40% costrette ai licenziamenti»
«Servirebbe un abbonamento fiscale in modo da scavalcare l'anno per alcune scadenze e stabilire una dilazione più ampia dei pagamenti. Da un nostro sondaggio condotto su un campione di micro, piccole e medie imprese del turismo, del commercio e dei pubblici esercizi, è emerso che oltre 90.000 imprese stanno valutando la chiusura definitiva entro l'anno e oltre il 40% ha intenzione di ridurre il personale. L'affollamento di imposte a settembre è la goccia che fa traboccare il vaso di una situazione molto difficile per le aziende. La proroga delle scadenze fiscali durante la fase di emergenza Covid era necessaria, ma già allora abbiamo avvisato il governo che non sarebbe stata sufficiente. Non si può pensare che nel giro di pochi mesi, le attività si rimettano in moto come prima del Covid». Va dritta al punto Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti, associazione che rappresenta 350.000 imprese del commercio, del turismo e dei servizi, per un'occupazione di 1 milione di addetti.
Quale sarà il calo stimato di fatturato per fine anno dei piccoli e micro esercizi commerciali?
«Dal nostro sondaggio è emerso un crollo di oltre il 30% per il 61% degli intervistati e tra il 10 e il 30% per il 22%. Come conseguenza, il 46% sta programmando una riduzione del personale a tempo indeterminato e con contratto a termine. Sono decisioni forzate dalla situazione difficile».
Come si esce dall'impasse creata da tante tasse e crollo dei guadagni?
«Innanzitutto occorre una maggiore rateizzazione delle imposte, poi andrebbe eliminato il meccanismo del saldo e dell'acconto. Su questo è d'accordo anche il presidente dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Ruffini. Le tasse devono essere commisurate a quanto un'azienda incassa. L'ingorgo fiscale non fa bene nemmeno allo Stato. Se le aziende chiudono o evadono perché non ce la fanno a far fronte alle scadenze, il danno è per tutti. Approfittiamo della riforma fiscale per introdurre quelle modifiche che la situazione ci suggerisce».
Che cosa bisognerebbe inserire nella riforma fiscale?
«Innanzitutto riequilibrare il peso fiscale sul ceto medio che è stato sempre più penalizzato. A luglio è scattato il provvedimento di riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti. A regime, si tratta di 5 miliardi che torneranno nelle buste paga. Questa misura, predisposta a partire dalla legge di bilancio 2019, risulta però insufficiente, considerando gli oltre 65 miliardi di consumi che andranno persi a causa della pandemia. Inoltre, l'intervento va a vantaggio solo di una parte della classe media, e in particolare dei 6,3 milioni di italiani con redditi tra 28.000 e 55.000 euro, che sono attualmente ipertassati dall'Irpef».
Di quanto?
«Pur essendo il 15,6% dei contribuenti, forniscono quasi un terzo (31,8%) del gettito totale dell'imposta, cioè 50 miliardi di euro. Subiscono un aumento dell'aliquota legale di 11 punti rispetto allo scaglione precedente. La riduzione del cuneo però interessa, e con intensità decrescente, solo i soggetti con redditi fino a 40.000 euro, lasciando così fuori dal beneficio oltre 1,8 milioni di contribuenti sottoposti a una pressione fiscale eccessiva. La riforma del fisco deve andare nella direzione di un sistema impositivo più chiaro e meno punitivo. Sono oltre 13 anni che non vengono rivisti gli scaglioni Irpef. Va superata la logica del saldo e dell'acconto e bisogna sfoltire l'accatastamento delle scadenze. Senza un alleggerimento di questa zavorra, la ripartenza della spesa delle famiglie e delle imprese rischia di essere molto difficile».
Quindi in concreto in che modo andrebbe alleggerito il fisco per il ceto medio?
«È assolutamente necessario riconoscere perlomeno una riduzione di imposta per i redditi compresi fra 40.000 e 55.000 euro. Senza dimenticare le imprese: lo scorso anno, il settore privato ha registrato un forte aggravio del costo del lavoro rispetto alle retribuzioni versate ai propri lavoratori. Un differenziale che le condizioni recessive scatenate dalla crisi Covid potrebbero rendere insostenibile. Alcuni esercizi, come gli alimentari, hanno continuato a lavorare durante l'emergenza mentre tanti altri si sono fermati e ancora oggi stentano a ripartire. Lo smart working non aiuta».
Si riferisce ai danni provocati dal trasferimento del lavoro a casa?
«Interi quartieri che prima vivevano essenzialmente di turismo e business si sono svuotati. A farne le spese sono stati i bar, le tavole calde, i ristoranti oltre al settore immobiliare dei bed & breakfast. Si rischia il degrado di aree urbane che prima della pandemia erano molto vitali. Gli aiuti del governo ai settori produttivi danneggiati dal virus sono stati circoscritti all'emergenza ma siamo ancora lontani dalla normalità».
E in questa situazione di grande difficoltà è complicato per i piccoli imprenditori onorare gli impegni fiscali.
«L'Istat ha rilevato che dall'inizio del lockdown a luglio sono scomparsi 117.000 lavoratori autonomi. Il nostro Paese ha una rete molto ampia e ramificata di piccoli imprenditori. Ci sono oltre 500.000 piccoli negozi, più di 300.000 attività di ristorazione, 150.000 bar. Prima del Covid gli italiani mangiavano spesso fuori spendendo circa 80 miliardi in un anno. Il 64% degli italiani consuma, con diversa intensità, la colazione fuori casa: 5,8 milioni almeno 3 o 4 volte alla settimana, mentre per oltre 5 milioni è un rito quotidiano. Ora questa spesa è crollata. Ed è con questa realtà che i piccoli esercenti devono fare i conti».
Le brutte sorprese della riforma
Torna il taglio alle detrazioni. La riforma fiscale a cui sta lavorando il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, potrebbe contenere qualche sgradevole sorpresa. La narrazione del governo è che si abbasseranno le tasse ma siccome la coperta è corta e i soldi europei non possono essere utilizzati per ridurre la pressione fiscale, l'unica soluzione è l'autofinanziamento. Cioè quello che si toglie da una parte va recuperato dall'altra. Qualcuno sarà chiamato a pagare il conto. E la soluzione sarebbe di attingere ai 500 sconti fiscali di cui beneficiano famiglie e imprese per recuperare almeno 10 miliardi. Gualtieri intende seguire questa strada: «Con la riduzione delle tax expenditures e il contrasto all'evasione fiscale, c'è molto spazio». Più chiaro di così.
Da tempo si parla di sforbiciare le detrazioni, sono stati prodotti numerosi dossier, ma alla fine nessuno ha avuto il coraggio di avventurarsi nel labirinto dei regimi sostitutivi dell'Irpef. C'è il rischio di scontentare molti. Intanto un primo assaggio di questo sfoltimento è l'assegno unico per i figli che sostituisce 8 tra bonus e detrazioni esistenti. Ma il nodo risorse è ancora da sciogliere dal momento che mancano all'appello circa 6-7 miliardi. Saranno recuperati con la riforma fiscale.
Nel mirino ci sono pure le detrazioni e i sussidi ambientali dannosi, battaglia storica della viceministra dell'Economia Laura Castelli, che prevede riduzioni di agevolazioni al gasolio agricolo ai carburanti per aerei e navi fino al diesel. Un'operazione in linea con la politica del New green deal caldeggiato dall'Europa. Ogni centesimo di accisa in più si tradurrebbe in un aumento di gettito per lo Stato di 200 milioni di euro. Basterebbe ridurre di 5 centesimi le agevolazioni per avere 1 miliardo. Inevitabili gli aumenti del prezzo del carburante con impatto sui prodotti trasportati su gomma a cominciare dai generi alimentari ma anche per i biglietti aerei. Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Agricoltura Teresa Bellanova avevano rassicurato, prima del Covid, che gli autotrasportatori e le aziende agricole non sarebbero state toccate, ma ora lo scenario è mutato. A pagare il conto salato, di sicuro, sarebbero 17milioni di automobilisti con l'aumento del carburante.
Il cuore della riforma sarà la rimodulazione delle aliquote Irpef, con una attenzione, ha promesso il governo, al ceto medio. Bisogna vedere però che cosa si intende per ceto medio. Già Romano Prodi nel 2007 fece un regalo a questa fascia di contribuenti, abolendo l'aliquota intermedia del 33% per la fascia di reddito tra 28.000 e 55.000 euro che attualmente è la più penalizzata, con un'aliquota del 38% sulla parte eccedente i 28.000 euro. L'Irpef ha ora cinque scaglioni: fino a 15.000 euro aliquota al 23%, tra 15.000 e 28.000 euro al 27%, un terzo scaglione di cui abbiamo detto, poi tra 55.000 e 75.000 con il 41% e infine il 43% oltre i 75.000 euro di reddito. Dal 1° luglio il governo ha introdotto un abbattimento del cuneo fiscale per i redditi fino a 40.000 euro, valido però solo per i lavoratori dipendenti, lasciando fuori le partite Iva.
Le ipotesi di riforma sul tavolo al momento sono due. Il Pd vorrebbe tre scaglioni oltre a una no tax area per redditi fino a 8.000 euro: il primo scaglione avrebbe un'aliquota al 27,5% per i redditi fino a 15.000 euro; il secondo al 31,5% per i redditi fino a 28.000 euro mentre con il terzo si balza al 42-43%. I 5 stelle puntano ad alzare la no tax area fino a 10.000 euro e a tutelare maggiormente i redditi superiori a 100.000 euro che avrebbero un'aliquota del 42%. Nel mezzo, si avrebbe un'aliquota al 23% per i redditi tra 10.000 e 28.000 euro e al 37% per i quelli tra 28.000 e 100.000 euro.
Nella riforma potrebbe trovare posto un'altra rottamazione fiscale, per agevolare l'attività di riscossione dell'Agenzia delle entrate, diretta da Ernesto Ruffini, paralizzata dal Covid. Cartelle esattoriali, ingiunzioni di pagamento, avvisi di accertamento, procedure esecutive e di pignoramento ora sono congelate fino al 15 ottobre 2020. A breve circa 9 milioni di lettere saranno recapitate ai contribuenti. A queste missive vanno poi aggiunte quelle relative all'ordinaria amministrazione tributaria non bloccate dai decreti del governo. Una quarta rottamazione delle cartelle esattoriali pendenti risolverebbe l'intasamento. L'idea avrebbe un consenso di massima nella maggioranza nonostante sia un condono. Il primo veicolo utile potrebbe essere il decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2021.
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Tutte le tasse che dovremo pagare entro il 30 settembre: un ingorgo di 257 scadenze anche se la crisi non è superata.La presidente di Confesercenti: «Oltre 90.000 imprese stanno valutando se chiudere definitivamente entro la fine dell'anno. Occorre rateizzare di più le imposte ed eliminare il meccanismo del saldo e dell'acconto».Tra le novità allo studio del ministro Roberto Gualtieri la cancellazione delle detrazioni per le famiglie, aggravi sui carburanti e aliquote che penalizzeranno il ceto medio.Lo speciale contiene tre articoli.Doveva essere una soluzione alla crisi del Covid, invece si sta trasformando in una tagliola, nel colpo di grazia per migliaia di piccoli imprenditori, commercianti, artigiani e partite Iva. La logica di posticipare gli appuntamenti con il fisco ha creato l'effetto imbuto con problemi per i pagamenti a cui si sommano quelli burocratici. Mentre si parla tanto di semplificazione e digitalizzazione, il rapporto con il fisco è ancora caotico e difficile. A settembre si affastellano 257 scadenze e per alcune procedure il contribuente deve usare i moduli di carta. Il tutto in una situazione di grande disagio economico, con i consumi che non ripartono, i debiti che si accumulano. Il governo, sordo alle richieste delle imprese che per alcune imposte chiedevano la moratoria, continua a battere cassa. La spiegazione è che i pagamenti non si possono annullare, pena il default dello Stato, ma il sacrificio è chiesto alle categorie produttive più deboli del Paese.Bisogna pagare, non c'è scampo. Dopo l'effetto imbuto che si è creato ad agosto con il posticipo delle imposte (dal 30 giugno al 20 luglio e poi al 20 agosto con maggiorazione dello 0,40%), eccoci alla vigilia delle scadenze di settembre. Per tanti piccoli imprenditori potrebbe essere il colpo di grazia. Commercianti, artigiani, partite Iva non si sono ancora ripresi dall'esborso estivo, stanno riavviando le attività tra mille problemi, e ora dovranno stringere di più la cinghia. «Solo un folle poteva pensare che nel giro di qualche mese avremmo superato la crisi, che sarebbe bastata una manciata di settimane per tornare al giro d'affari pre Covid.Ora ci troviamo a pagare le tasse arretrate e quelle nuove, tutte insieme mentre gli ordini languono, e abbiamo raschiato il fondo dei risparmi», afferma Antonio Rinaldi, partita Iva che lavora nell'informatica. «Durante l'estate sono stata costretta a tenere chiuso. Mantengo con i miei risparmi una sarta, mia collaboratrice. Non potevo metterla per strada. Alzare la saracinesca ogni giorno è una scommessa, sono scomparsi anche quelli che entravano solo per curiosare», dice quasi in lacrime Agnese Testa, una bottega di abbigliamento artigianale nel quartiere Esquilino a Roma. Due storie, come tante, simili tra loro.La pandemia globale ha scatenato un effetto a catena in campo fiscale con una sequela di rinvii, sospensioni e nuovi calendari che hanno generato l'ingorgo di luglio e agosto. Chiusa la partita delle tasse posticipate nei mesi estivi ora si apre quella di settembre, con alcune scadenze rinviate a questo mese che si sommano a quelle ordinarie, in una situazione che è tutt'altro che ordinaria. I circa 4,5 milioni di partite Iva dovranno vedersela anche con lo sciopero dei commercialisti, proclamato dal 15 al 22 settembre che rende ancora più caotica la situazione. Per settembre sono previsti 257 appuntamenti con il fisco. Inoltre, a dispetto dell'annunciata digitalizzazione per semplificare le procedure, alcune procedure vanno fatte ancora usando la carta. Sono 5: 16, 21, 25, 28 e 30 settembre. Il 16, dopodomani, è da bollino rosso.Scadono 174 adempimenti. Tra questi, i più importanti sono i saldi 2019 e gli acconti 2020 dell'Irpef per chi sta versando a rate, la quarta rata dell'addizionale regionale e comunale, la terza rata dell'addizionale Ires, la quarta rata della cedolare secca a titolo di saldo 2019 e primo acconto per il 2020; ci sono poi i versamenti Iva, Ires e Irap.A queste incombenze si aggiungono i versamenti posticipati dai decreti sull'emergenza Covid. Il 16 settembre vanno in scadenza il 50% dei versamenti Iva, ritenute d'acconto sui redditi da lavoro dipendente, contributi previdenziali e premi assicurativi che dovevano essere pagati a marzo, aprile e maggio 2020. Chi ha avuto diritto a quelle sospensioni in virtù dei decreti sull'emergenza ora deve pagare. Può versare il 50% tutto insieme o spalmando l'importo in 4 rate mensili fino al 16 dicembre. L'altro 50% va versato a partire dal 16 gennaio 2021 in massimo di 24 rate mensili fino a dicembre 2022. Di questi posticipi hanno potuto usufruire alcune categorie quali, tra le altre, le imprese turistiche, le agenzie di viaggio, le associazioni sportive, i soggetti che gestiscono le sale cinematografiche, le sale concerto, le discoteche, le ricevitorie del lotto, le attività di ristorazione, le gelaterie, come pure musei, luoghi di cultura, asili (solo per citarne alcuni) che ad aprile e maggio hanno avuto una riduzione del fatturato di almeno il 33% rispetto ai corrispondenti mesi del 2019. Sempre il 16 settembre scade la comunicazione delle liquidazioni periodiche Iva relative al secondo trimestre 2020. Il 21 settembre è l'ultimo giorno utile per regolarizzare i versamenti di imposte e ritenute non effettuati o effettuati in misura parziale entro il 20 agosto, con maggiorazione degli interessi e della sanzione ridotta a un decimo. Le imprese elettriche hanno l'obbligo di comunicare all'Agenzia delle entrate il dettaglio dei dati relativi al canone Tv addebitato, accreditato, riscosso. Le società entro il 25 settembre devono presentare gli elenchi riepilogativi (Intrastat) delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi rese ad agosto.L'ultimo giorno del mese, il 30, fa tremare i polsi. Scade il termine (è la prima volta) per trasmettere all'Agenzia delle entrate il modello 730. I contribuenti hanno l'ultima chiamata per 45 tipologie di versamenti. Inoltre vanno spedite le domande per i soggetti interessati al riparto della quota del 5 per mille. Non è finita: devono essere inviate le richieste di rimborso Iva assolta in altri stati membri dell'Unione europea.«Posticipando le scadenze il problema non si è risolto ma si è spostato in avanti, e ora i nodi vengono al pettine. Bisognava azzerare le tasse per i piccoli imprenditori, introdurre una sorta di moratoria fiscale per dare respiro e tranquillità a commercianti, artigiani e partite Iva», afferma Paolo Zabeo, coordinatore dell'ufficio studi della Cgia di Mestre. E lancia il sasso: «In questo modo, il problema della liquidità si è ingigantito in un momento in cui le microimprese sono in grande difficoltà. I numeri dicono chiaramente che i consumi delle famiglie continuano a crollare e senza commesse un'azienda boccheggia». Zabeo sottolinea il rischio che «molti non essendo nelle condizioni di pagare, possano finire nella rete degli usurai. La malavita è pronta ad approfittarsi delle situazioni di grave disagio economico. 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L'affollamento di imposte a settembre è la goccia che fa traboccare il vaso di una situazione molto difficile per le aziende. La proroga delle scadenze fiscali durante la fase di emergenza Covid era necessaria, ma già allora abbiamo avvisato il governo che non sarebbe stata sufficiente. Non si può pensare che nel giro di pochi mesi, le attività si rimettano in moto come prima del Covid». Va dritta al punto Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti, associazione che rappresenta 350.000 imprese del commercio, del turismo e dei servizi, per un'occupazione di 1 milione di addetti. Quale sarà il calo stimato di fatturato per fine anno dei piccoli e micro esercizi commerciali? «Dal nostro sondaggio è emerso un crollo di oltre il 30% per il 61% degli intervistati e tra il 10 e il 30% per il 22%. Come conseguenza, il 46% sta programmando una riduzione del personale a tempo indeterminato e con contratto a termine. Sono decisioni forzate dalla situazione difficile». Come si esce dall'impasse creata da tante tasse e crollo dei guadagni? «Innanzitutto occorre una maggiore rateizzazione delle imposte, poi andrebbe eliminato il meccanismo del saldo e dell'acconto. Su questo è d'accordo anche il presidente dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Ruffini. Le tasse devono essere commisurate a quanto un'azienda incassa. L'ingorgo fiscale non fa bene nemmeno allo Stato. Se le aziende chiudono o evadono perché non ce la fanno a far fronte alle scadenze, il danno è per tutti. Approfittiamo della riforma fiscale per introdurre quelle modifiche che la situazione ci suggerisce». Che cosa bisognerebbe inserire nella riforma fiscale? «Innanzitutto riequilibrare il peso fiscale sul ceto medio che è stato sempre più penalizzato. A luglio è scattato il provvedimento di riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti. A regime, si tratta di 5 miliardi che torneranno nelle buste paga. Questa misura, predisposta a partire dalla legge di bilancio 2019, risulta però insufficiente, considerando gli oltre 65 miliardi di consumi che andranno persi a causa della pandemia. Inoltre, l'intervento va a vantaggio solo di una parte della classe media, e in particolare dei 6,3 milioni di italiani con redditi tra 28.000 e 55.000 euro, che sono attualmente ipertassati dall'Irpef». Di quanto? «Pur essendo il 15,6% dei contribuenti, forniscono quasi un terzo (31,8%) del gettito totale dell'imposta, cioè 50 miliardi di euro. Subiscono un aumento dell'aliquota legale di 11 punti rispetto allo scaglione precedente. La riduzione del cuneo però interessa, e con intensità decrescente, solo i soggetti con redditi fino a 40.000 euro, lasciando così fuori dal beneficio oltre 1,8 milioni di contribuenti sottoposti a una pressione fiscale eccessiva. La riforma del fisco deve andare nella direzione di un sistema impositivo più chiaro e meno punitivo. Sono oltre 13 anni che non vengono rivisti gli scaglioni Irpef. Va superata la logica del saldo e dell'acconto e bisogna sfoltire l'accatastamento delle scadenze. Senza un alleggerimento di questa zavorra, la ripartenza della spesa delle famiglie e delle imprese rischia di essere molto difficile». Quindi in concreto in che modo andrebbe alleggerito il fisco per il ceto medio? «È assolutamente necessario riconoscere perlomeno una riduzione di imposta per i redditi compresi fra 40.000 e 55.000 euro. Senza dimenticare le imprese: lo scorso anno, il settore privato ha registrato un forte aggravio del costo del lavoro rispetto alle retribuzioni versate ai propri lavoratori. Un differenziale che le condizioni recessive scatenate dalla crisi Covid potrebbero rendere insostenibile. Alcuni esercizi, come gli alimentari, hanno continuato a lavorare durante l'emergenza mentre tanti altri si sono fermati e ancora oggi stentano a ripartire. Lo smart working non aiuta». Si riferisce ai danni provocati dal trasferimento del lavoro a casa? «Interi quartieri che prima vivevano essenzialmente di turismo e business si sono svuotati. A farne le spese sono stati i bar, le tavole calde, i ristoranti oltre al settore immobiliare dei bed & breakfast. Si rischia il degrado di aree urbane che prima della pandemia erano molto vitali. Gli aiuti del governo ai settori produttivi danneggiati dal virus sono stati circoscritti all'emergenza ma siamo ancora lontani dalla normalità». E in questa situazione di grande difficoltà è complicato per i piccoli imprenditori onorare gli impegni fiscali. «L'Istat ha rilevato che dall'inizio del lockdown a luglio sono scomparsi 117.000 lavoratori autonomi. Il nostro Paese ha una rete molto ampia e ramificata di piccoli imprenditori. Ci sono oltre 500.000 piccoli negozi, più di 300.000 attività di ristorazione, 150.000 bar. Prima del Covid gli italiani mangiavano spesso fuori spendendo circa 80 miliardi in un anno. Il 64% degli italiani consuma, con diversa intensità, la colazione fuori casa: 5,8 milioni almeno 3 o 4 volte alla settimana, mentre per oltre 5 milioni è un rito quotidiano. Ora questa spesa è crollata. Ed è con questa realtà che i piccoli esercenti devono fare i conti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-stangata-2647625094.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="le-brutte-sorprese-della-riforma" data-post-id="2647625094" data-published-at="1600043536" data-use-pagination="False"> Le brutte sorprese della riforma Torna il taglio alle detrazioni. La riforma fiscale a cui sta lavorando il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, potrebbe contenere qualche sgradevole sorpresa. La narrazione del governo è che si abbasseranno le tasse ma siccome la coperta è corta e i soldi europei non possono essere utilizzati per ridurre la pressione fiscale, l'unica soluzione è l'autofinanziamento. Cioè quello che si toglie da una parte va recuperato dall'altra. Qualcuno sarà chiamato a pagare il conto. E la soluzione sarebbe di attingere ai 500 sconti fiscali di cui beneficiano famiglie e imprese per recuperare almeno 10 miliardi. Gualtieri intende seguire questa strada: «Con la riduzione delle tax expenditures e il contrasto all'evasione fiscale, c'è molto spazio». Più chiaro di così. Da tempo si parla di sforbiciare le detrazioni, sono stati prodotti numerosi dossier, ma alla fine nessuno ha avuto il coraggio di avventurarsi nel labirinto dei regimi sostitutivi dell'Irpef. C'è il rischio di scontentare molti. Intanto un primo assaggio di questo sfoltimento è l'assegno unico per i figli che sostituisce 8 tra bonus e detrazioni esistenti. Ma il nodo risorse è ancora da sciogliere dal momento che mancano all'appello circa 6-7 miliardi. Saranno recuperati con la riforma fiscale. Nel mirino ci sono pure le detrazioni e i sussidi ambientali dannosi, battaglia storica della viceministra dell'Economia Laura Castelli, che prevede riduzioni di agevolazioni al gasolio agricolo ai carburanti per aerei e navi fino al diesel. Un'operazione in linea con la politica del New green deal caldeggiato dall'Europa. Ogni centesimo di accisa in più si tradurrebbe in un aumento di gettito per lo Stato di 200 milioni di euro. Basterebbe ridurre di 5 centesimi le agevolazioni per avere 1 miliardo. Inevitabili gli aumenti del prezzo del carburante con impatto sui prodotti trasportati su gomma a cominciare dai generi alimentari ma anche per i biglietti aerei. Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Agricoltura Teresa Bellanova avevano rassicurato, prima del Covid, che gli autotrasportatori e le aziende agricole non sarebbero state toccate, ma ora lo scenario è mutato. A pagare il conto salato, di sicuro, sarebbero 17milioni di automobilisti con l'aumento del carburante. Il cuore della riforma sarà la rimodulazione delle aliquote Irpef, con una attenzione, ha promesso il governo, al ceto medio. Bisogna vedere però che cosa si intende per ceto medio. Già Romano Prodi nel 2007 fece un regalo a questa fascia di contribuenti, abolendo l'aliquota intermedia del 33% per la fascia di reddito tra 28.000 e 55.000 euro che attualmente è la più penalizzata, con un'aliquota del 38% sulla parte eccedente i 28.000 euro. L'Irpef ha ora cinque scaglioni: fino a 15.000 euro aliquota al 23%, tra 15.000 e 28.000 euro al 27%, un terzo scaglione di cui abbiamo detto, poi tra 55.000 e 75.000 con il 41% e infine il 43% oltre i 75.000 euro di reddito. Dal 1° luglio il governo ha introdotto un abbattimento del cuneo fiscale per i redditi fino a 40.000 euro, valido però solo per i lavoratori dipendenti, lasciando fuori le partite Iva. Le ipotesi di riforma sul tavolo al momento sono due. Il Pd vorrebbe tre scaglioni oltre a una no tax area per redditi fino a 8.000 euro: il primo scaglione avrebbe un'aliquota al 27,5% per i redditi fino a 15.000 euro; il secondo al 31,5% per i redditi fino a 28.000 euro mentre con il terzo si balza al 42-43%. I 5 stelle puntano ad alzare la no tax area fino a 10.000 euro e a tutelare maggiormente i redditi superiori a 100.000 euro che avrebbero un'aliquota del 42%. Nel mezzo, si avrebbe un'aliquota al 23% per i redditi tra 10.000 e 28.000 euro e al 37% per i quelli tra 28.000 e 100.000 euro. Nella riforma potrebbe trovare posto un'altra rottamazione fiscale, per agevolare l'attività di riscossione dell'Agenzia delle entrate, diretta da Ernesto Ruffini, paralizzata dal Covid. Cartelle esattoriali, ingiunzioni di pagamento, avvisi di accertamento, procedure esecutive e di pignoramento ora sono congelate fino al 15 ottobre 2020. A breve circa 9 milioni di lettere saranno recapitate ai contribuenti. A queste missive vanno poi aggiunte quelle relative all'ordinaria amministrazione tributaria non bloccate dai decreti del governo. Una quarta rottamazione delle cartelle esattoriali pendenti risolverebbe l'intasamento. L'idea avrebbe un consenso di massima nella maggioranza nonostante sia un condono. Il primo veicolo utile potrebbe essere il decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2021.
Ansa
L’esplosione che ieri mattina ha ucciso il tenente generale Fanil Sarvarov ha scosso Mosca e l’intero apparato militare russo. L’attentato è avvenuto all’alba, quando l’auto di servizio del capo della Direzione per l’addestramento operativo dello Stato maggiore è stata distrutta da un ordigno collocato con un magnete sotto il veicolo (una Kia Sorento di colore chiaro), vicino al sedile del conducente. Secondo le ricostruzioni basate su fonti investigative russe citate dalle agenzie Tass e Rbk, la bomba sarebbe esplosa nel momento in cui Sarvarov ha azionato il freno. Le autorità hanno confermato la morte del generale e l’apertura di un’indagine per omicidio, mentre la Commissione investigativa ha fatto sapere che i rilievi sono iniziati immediatamente dopo la deflagrazione. Gli inquirenti puntano con decisione su una pista: il coinvolgimento dei servizi speciali dell’Ucraina. In serata, la commissione ha precisato che «una delle principali versioni allo studio riguarda il ruolo dei servizi d’intelligence ucraini».
Da Kiev non è arrivata alcuna rivendicazione né commenti ufficiali, ma i media russi ricordano che Sarvarov figurava da tempo nel database del sito nazionalista ucraino Myrotvorets, che ieri lo ha classificato come «liquidato». Un segnale interpretato a Mosca come una sorta di firma indiretta. Il Cremlino ha reagito con durezza. Il portavoce Dmitri Peskov ha dichiarato che «il presidente Vladimir Putin è stato informato immediatamente» dell’attentato e ha definito l’esplosione «un terribile omicidio» e «un atto terroristico diretto contro la Federazione russa». Ha aggiunto che «i responsabili saranno individuati e puniti», lasciando intendere che Mosca considera l’attacco parte di una strategia ostile che richiede una risposta. Le autorità non hanno fornito ulteriori dettagli, limitandosi a confermare l’apertura di un’indagine per omicidio e a ribadire che tutte le piste restano aperte.
Sarvarov, nato nel 1969 nella regione di Perm, aveva trascorso quasi tutta la carriera nelle forze corazzate, combattendo nelle campagne cecene e partecipando alle operazioni russe in Siria prima di entrare nei vertici dello Stato maggiore. Da due anni guidava la Direzione per l’addestramento operativo, un incarico cruciale nell’attuale fase del conflitto: a lui facevano capo la preparazione delle truppe di terra, l’aggiornamento delle tattiche d’impiego e la valutazione delle esperienze maturate sul fronte ucraino. Pur non essendo una figura mediatica, il suo ruolo era considerato strategico per mantenere lo sforzo bellico russo su livelli costanti nonostante le perdite e l’usura del conflitto.
L’uccisione di Sarvarov si inserisce in una serie di eliminazioni mirate che negli ultimi anni ha colpito tanto i vertici militari quanto alcuni volti simbolici del nazionalismo russo. Nell’agosto 2022 Daria Dugina, figlia dell’ideologo Aleksandr Dugin, era stata assassinata con un’autobomba nella regione di Mosca: l’ordigno, piazzato sotto la sua Toyota Land Cruiser, era esploso mentre rientrava da un festival culturale. Le autorità russe avevano attribuito l’attacco ai servizi speciali ucraini, mentre Kiev aveva negato ogni coinvolgimento. Nell’aprile 2023, a San Pietroburgo, era stato il turno del blogger militare Maksim Fomin. Noto come Vladlen Tatarsky e allineato sulle posizioni più radicali della propaganda patriottica, il blogger è rimasto ucciso nell’esplosione di un ordigno nascosto in una statuetta consegnatagli durante un evento pubblico: un attacco che provocò decine di feriti e suscitò forte clamore mediatico.
Nel dicembre 2024, invece, era stato ucciso il generale Igor Kirillov, capo delle truppe di difesa nucleare, biologica e chimica, colpito da una bomba nascosta in un monopattino elettrico: le autorità di Mosca avevano indicato Kiev come responsabile, mentre fonti dei servizi ucraini (Sbu) avevano confermato ai media il coinvolgimento, pur senza una rivendicazione ufficiale. Infine, lo scorso aprile, un ordigno collocato sotto la sua vettura ha ucciso a Mosca il generale Iaroslav Moskalik, figura di rilievo dello Stato maggiore. Si tratta di attacchi diversi per modalità ma accomunati, secondo le ricostruzioni russe, dall’intento di colpire personalità legate allo sforzo bellico o alla narrativa patriottica del Cremlino, a conferma di un conflitto che si è esteso ben oltre le linee del fronte. In questo contesto, infatti, la morte di Sarvarov rappresenta per Mosca un duro colpo soprattutto a livello simbolico: non un semplice comandante operativo, ma uno dei funzionari incaricati di garantire l’efficienza e la continuità dell’apparato militare impegnato in Ucraina. E la rapidità con cui il Cremlino ha parlato di «atto terroristico» indica che la risposta politica - qualunque forma assumerà - non tarderà ad arrivare.
Zelensky: «Risultati concreti vicini»
Dopo i due giorni di colloqui sulla pace in Ucraina con l’inviato americano, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, al club Shell Bay di Miami, il rappresentante del Cremlino, Kirill Dmitriev, si prepara ad aggiornare il presidente russo, Vladimir Putin, sugli ultimi sviluppi.
Ciò che emerge, al momento, è che le trattative tra la Russia e la Casa Bianca si sono concluse in un clima cordiale. Dmitriev ha scritto su X: «La prossima volta a Mosca», non escludendo quindi che il prossimo bilaterale con gli americani si possa tenere sul suolo russo. Nel frattempo, Witkoff ha descritto gli incontri con la delegazione ucraina e con quella russa con gli stessi termini: «Produttivi e costruttivi». Riguardo al faccia a faccia con Dmitriev, l’inviato americano ha aggiunto su X che «la Russia resta pienamente impegnata a raggiungere la pace in Ucraina» e che «apprezza molto gli sforzi e il sostegno degli Stati Uniti». A rispondere direttamente alle parole di Witkoff è stato lo stesso Dmitriev: «Grazie costruttori di pace per il vostro lavoro attento e instancabile».
In ogni caso vige la massima cautela. Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, in un’intervista a UnHerd, ha affermato che nonostante «tutte le questioni siano ora alla luce del sole», non è certo che venga raggiunto un accordo. Ha precisato che l’Ucraina «probabilmente perderà» la regione di Donetsk «tra 12 mesi o anche più avanti». E pare che «privatamente» i leader di Kiev ne siano consapevoli. Anche il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, ha riconosciuto «i lenti progressi» nei negoziati con Washington, ma ha puntato il dito contro «i dannosi e nefasti tentativi di un gruppo di Paesi influenti che cercano di far deragliare il processo diplomatico». Ha osservato che Mosca «è favorevole a un accordo di pace che garantisca il suo assetto costituzionale tenendo conto dei nuovi territori», ma esclude la tregua. Ryabkov ha anche ribadito la disponibilità russa a «formalizzare legalmente» l’impegno a non attaccare la Nato e l’Ue. Anche perché «permangono rischi significativi di uno scontro» tra Mosca e l’Alleanza atlantica «a causa delle azioni ostili e inappropriate dei Paesi europei». Sullo stesso tema è intervenuto Dmitriev: «L’Europa dovrebbe smettere di fomentare la Terza guerra mondiale con false narrazioni e imparare di nuovo la diplomazia». E affermando che è arrivato «il tempo di liberarsi dalla visione del mondo di Biden», ha aggiunto che «l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca indicano la strada». Ma Bruxelles, per ora, approva «la strada» del presidente francese, Emmanuel Macron: un portavoce della Commissione Ue ha espresso il benestare sulla volontà del leader francese di dialogare con l’omologo russo negli «sforzi per la pace».
Dall’altra parte, a esprimere ottimismo è il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky. Riguardo alle trattative a Miami tra la delegazione ucraina e quella statunitense, pur aspettando «i dettagli» questa mattina, ha dichiarato: «Siamo molto vicini a un risultato concreto». Ha spiegato che «il piano prevede 20 punti» e che ci sono «garanzie di sicurezza» tra l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’Europa. A ciò si aggiunge «un documento separato» tra Kiev e Washington che riguarda «garanzie di sicurezza bilaterali» che «devono essere esaminate dal Congresso degli Stati Uniti». E ha annunciato che è in itinere «la prima bozza dell’accordo sulla ricostruzione dell’Ucraina». Questo non frena le sanzioni contro la Russia, anzi Zelensky ha dichiarato che, oltre ai russi e ai cinesi, nel mirino rientrano pure gli atleti: «Stiamo preparando misure sanzionatorie contro coloro che giustificano l’aggressione russa e promuovono l’influenza russa attraverso la cultura di massa, nonché contro gli atleti che utilizzano la loro carriera sportiva e l’attenzione del pubblico verso lo sport per glorificare l’aggressione russa».
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Giorgia Meloni (Ansa)
La posizione ufficiale del governo italiano rispetto a questa novità è espressa dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dalle sue parole traspare una certa freddezza: «Va certamente bene», dice Tajani al Qn, «riaprire un canale di comunicazione, ma il canale deve essere europeo: non può essere di un solo Paese. La cosa rilevante è che Putin torni a parlare con l’intera Europa. Dobbiamo lavorare tutti per la pace, che è l’obiettivo primario», aggiunge Tajani, «in questo senso, per capirci, la premessa è che noi non siamo mai stati in questi anni in guerra con la Russia. L’Italia è sempre stato il Paese che ha distinto in maniera netta tra gli aiuti all’Ucraina, per impedire che l’Ucraina venisse sconfitta, e la guerra con la Russia. Noi abbiamo solo aiutato l’Ucraina a difendersi, che è un’altra cosa rispetto a fare la guerra alla Russia. Noi abbiamo sempre sostenuto anche gli sforzi americani. E, dunque, ogni iniziativa che porti alla pace deve essere vista in maniera molto positiva: sempre con le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, con una sorta di articolo 5-bis sul modello Nato, a partecipazione anche Usa. A questo punto», osserva Tajani, «tocca alla Russia decidere se vuole sedersi al tavolo e affrontare anche con gli europei la trattativa, perché l’Europa non può non essere protagonista di una trattativa di pace tanto più che dal cessate il fuoco e dalla pace dipendono le sanzioni e la nostra sicurezza».
Parole pesate col bilancino, con un passaggio, quello sull’Italia «mai stata in guerra con la Russia» dal quale fa capolino una sorta di rivendicazione di un atteggiamento sempre prudente, proprio ora che Macron accelera sul percorso negoziale dopo essere stato per anni tra i «falchi» europei anti Russia, mentre l’Italia si è spesso trovata, in realtà più che altro per alcune dichiarazioni della Lega e per la vicinanza della Meloni a Donald Trump, accusata di eccessiva morbidezza nei confronti di Putin. Ora invece Macron sorpassa tutti sull’autostrada per Mosca, provocando un disallineamento in Europa, se non un vero e proprio imbarazzo, tanto che ieri i portavoce della Commissione hanno evitato di rispondere a tutte le domande sull’iniziativa dell’Eliseo.
Guerra e pace sono anche al centro del messaggio che ieri il premier Meloni ha rivolto alle missioni militari italiane all’estero per gli auguri di fine anno in collegamento dal Comando operativo vertice interforze: «La pace, chiaramente, è un bene prezioso», sottolinea Giorgia Meloni, «quando la si possiede. ed è un bene da ricercare con ogni sforzo quando la si perde. Però questo lo comprende più di chiunque altro chi conosce la guerra ed è preparato a fronteggiarla. Per questo io non ho mai accettato la narrazione, diciamo così, di chi contrappone l’idea del pacifismo alle forze armate. Alla fine del quarto secolo dopo Cristo», ricorda la Meloni, «Publio Flavio Vegezio Renato scrive: “qui desiderat pacem, praeparet bellum”. Diventa poi il più famoso “si vis pacem para bellum”, cioè chi vuole la pace prepari la guerra. Il punto è che il suo non è, come molti pensano, un messaggio bellicista, tutt’altro. È un messaggio pragmatico. Il senso è che solo una forza militare credibile allontana la guerra perché la pace non arriva spontaneamente, la pace è soprattutto un equilibrio di potenze: la debolezza invita l’aggressore, la forza allontana l’aggressore. L’etimologia della parola deterrenza arriva dal latino e significa de, cioè via da, e terrere, cioè incutere timore. Il senso della parola deterrenza è incutere timore al punto da distogliere. È la forza degli eserciti, è la loro credibilità lo strumento più efficace per combattere le guerra. Il dialogo, la diplomazia, le buone intenzioni, certo, servono, ma devono poggiare su basi solide. Quelle basi solide le costruite voi con il vostro sacrificio, con la vostra competenza, con la vostra professionalità, con il vostro coraggio».
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Emmanuel Macron (Ansa)
Donald Trump è stato criticato per aver ricevuto lo zar in Alaska ad agosto: da più parti, il presidente americano è stato accusato di aver fatto il gioco di Putin o di avergli regalato un immeritato prestigio diplomatico. Per non parlare poi di Viktor Orbán! Quando a novembre il premier ungherese incontrò lo zar a Mosca, finì bersagliato dagli strali di Friedrich Merz, che lo tacciò di agire senza alcun mandato europeo. Eppure con Macron, sia da Bruxelles che da Berlino, sono arrivati commenti soft. «Restiamo in coordinamento in termini di contatti bilaterali per raggiungere una pace sostenibile in Ucraina e accogliamo con favore gli sforzi di pace», ha dichiarato un portavoce dell’Ue, parlando dell’eventualità di una telefonata tra il presidente francese e Putin. «Non abbiamo alcuna preoccupazione che l’unità europea sulla guerra possa incrinarsi. Non c’è alcun dubbio sulla nostra posizione comune», ha inoltre affermato il governo tedesco, riferendosi alle aperture di Macron allo zar, per poi sottolineare (non senza un po’ di freddezza) che Berlino «ha preso atto dei segnali di disponibilità al dialogo».
Ora, è forse possibile formulare alcune considerazioni. La prima è che la diplomazia è un concetto differente dall’appeasement. Il problema è che alcuni settori politici e mediatici hanno finito indebitamente col sovrapporli. Trump, per esempio, ha, sì, ripreso il dialogo con Mosca. Ma lo ha anche alternato a forme di pressione (si pensi soltanto alle sanzioni americane contro Lukoil e Rosneft). Questo dimostra che si può dialogare senza essere necessariamente arrendevoli. D’altronde, se si chiudono aprioristicamente tutti i canali di comunicazione con l’avversario o con il potenziale avversario, si pongono le basi affinché una crisi sia essenzialmente irrisolvibile. Andrebbe inoltre ricordato che, secondo lo storico John Patrick Diggins, anche Ronald Reagan fu criticato dai neoconservatori per il suo dialogo con Mikhail Gorbachev.
Tutto questo per dire che, se Bruxelles non ha quasi toccato palla sulla crisi ucraina per quattro anni, è per due ragioni. Una strutturale: l’Ue non è un soggetto geopolitico. Un’altra più contingente: rinunciando pressoché totalmente all’opzione diplomatica, Bruxelles ha perso margine di manovra, raffreddando anche i rapporti con ampie parti del Sud globale. Paesi come l’India o l’Arabia Saudita hanno infatti sempre rifiutato di mollare Mosca, al netto della sua invasione dell’Ucraina. La strategia dell’isolamento perseguita dall’Ue ha quindi soltanto spinto sempre più il Cremlino tra le braccia della Cina e di vari Paesi del Sud globale.
La seconda considerazione da fare riguarda invece Macron. Dobbiamo veramente pensare che il presidente francese sia improvvisamente diventato uno stratega della diplomazia? Probabilmente no. Da quando la crisi ucraina è cominciata, il capo dell’Eliseo ha fatto tutto e il contrario di tutto. All’inizio, voleva tenere i contatti col Cremlino e diceva che Putin non doveva essere umiliato. Poi, dall’anno scorso, si è improvvisamente riscoperto falco antirusso. Addirittura, a maggio 2024, l’amministrazione Biden prese le distanze dalla proposta francese di inviare addestratori militari in Ucraina. Ciò non impedì comunque a Macron di essere, sempre a maggio 2024, uno dei pochi leader europei a mandare un ambasciatore alla cerimonia d’insediamento di Putin. Non solo. A marzo, il presidente francese quasi derise gli sforzi diplomatici di Trump in Ucraina, mentre, poche settimane fa, ha cercato di avviare un processo diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tentando di convincere Xi Jinping a raffrenare lo zar. Tutto questo fino a venerdì, quando il capo dell’Eliseo ha aperto alla possibilità di parlare con Putin.
Macron sa di essere finito all’angolo. E sa perfettamente che gli interessi geopolitici alla base del riavvicinamento tra Washington e Mosca sono troppo forti per essere ostacolati. Sta quindi cercando di rientrare in partita. Non solo. Il leader francese sembra sempre più insofferente verso Berlino. Prima ha rotto con Merz sulla questione degli asset russi. Poi, con la sua svolta dialogante, ha de facto sconfessato la linea dura del cancelliere, che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Nel frattempo, non si registrano commenti significativi da parte del Regno Unito, che potrebbe temere un disallineamento di Parigi dall’asse dei volenterosi. Il punto è che il presidente francese gioca una partita molto «personale». Pertanto, anziché affidarsi a lui, Bruxelles, per contare finalmente qualcosa, dovrebbe forse coordinarsi maggiormente con Trump, sostenendo il suo processo diplomatico e rafforzando le relazioni transatlantiche. Esattamente quanto propone da mesi il governo italiano.
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