2019-10-23
La sorte dell’inciucio si decide in Umbria. Se parte con il tonfo può saltare tutto
Il caos sulla manovra si sposta in Aula e logora la maggioranza, che teme il voto di domenica. E infatti il Pd mette le mani avanti.«La finissero di litigare!». In queste ore Nicola Zingaretti è furibondo per lo spettacolo della maggioranza divisa a un pugno di giorni dal voto in Umbria, in una delle regioni che un tempo era il cardine del sistema di consenso delle giunte rosse. Dopo il confronto duro, e il faccia a faccia (quasi fratricida) tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, adesso nel governo si è infine giunti al compromesso e alla tregua, ai toni più pacati. La quadra è stata tirata nel segno del rinvio e della mediazione a somma zero: Il ministro degli Esteri può dire di aver pesato e ha buttato la palla avanti, rallentando quello che era stato già deciso per l'immediato. Il premier invece assicura: «Tutto è confermato sulla lotta all'evasione, dai Pos alle pene per gli evasori». Ma il prezzo che la maggioranza paga viene corrisposto su di un altro tavolo, quello dell'attrattività del «nuovo centrosinistra» sul piano elettorale. E il costo di questa crisi-bonsai è stato pagato sul piano della credibilità di progetto: se litigano tutti i giorni anche loro, come possono diventare un riferimento? Questa domanda turba il segretario. E poi c'è una subordinata più sottile, che non sfugge alla torre di controllo del Nazareno. Il clima tra i sostenitori del centrosinistra, rispetto a questa estate è totalmente cambiato. Se Matteo Salvini (nei toni) diventa un «moderato», non più in cerca di «pieni poteri», non più solista ma un leader di una coalizione che si mostra unita (mentre invece gli alleati di governo litigano) come fai a convincere i tuoi elettori che andare a votare è questione di vita o di morte? Impossibile. Anche su questo il leader del Pd è preoccupato, e lo dice a quelli con cui parla in queste ore. Se sei così distratto da poterti permettere di litigare, perdi immediatamente capacità di attrazione e di mobilitazione contro il tuo avversario. Ecco perché in queste ore - anche se nessuno lo dice - cresce l'attesa che scandisce il conto alla rovescia per il risultato delle regionali in Umbria. Se non altro, perché si tratta della prima vera prova per l'alleanza tra M5s e Pd, in una regione in cui gli scandali sulla sanità hanno falcidiato il radicamento del centrosinistra. La fotografia di gruppo attuale è dunque quella di una coalizione in attesa e in cui nulla è tecnicamente è al suo posto: c'è un alleato, Matteo Renzi, che vorrebbe strappare ma non può (perché il suo gruppo verrebbe asfaltato nelle urne), c'è un partito che potrebbe andare al voto ma non vuole (il Pd, che è appena tornato dominus dopo la sconfitta), e c'è un partito preoccupato sia per il voto sia per le dinamiche di governo (il M5s, che deve risolvere il suo problema di identità). La piccola-grande spia rivelatrice, dunque, in questo scenario, è l'intervista che il plenipotenziario di Nicola Zingaretti in Umbria, Walter Verini, ha rilasciato all'Huffington Post. Verini era uno che stava a Palazzo Chigi nel 1996 con Walter Veltroni, è un parlamentare di lungo corso, una vecchia volpe della politica e soprattutto un uomo di partito. Se uno come lui dice una frase del tipo: «Salvini usa l'Umbria come una clava, ma non è un test nazionale», non è a caso. Qui bisogna spiegare che le regionali furono la pietra tombale del governo D'Alema nel 2000. Si era insediato senza passare dal voto, il premier cercava una legittimazione nelle urne, i sondaggi erano positivi. Così il leader maximo si espose, e - dopo la famosa «nave Azzurra» di Silvio Berlusconi e la sconfitta - fu costretto alle dimissioni. Nella prudenza di Verini, dunque, c'è l'eco di questa storica débacle, il segno del trauma non dimenticato: «Qualsiasi sia il risultato», dice Verini, «noi dobbiamo costruire un campo progressista largo», e nelle parole del proconsole di Zingaretti in Umbria il sottotesto è chiaro: non si dovrà prendere una eventuale sconfitta come una prova nazionale. Perché lo dice con tanta veemenza? Perché è la seconda tappa della via crucis elettorale che deciderà il futuro dell'intesa difficile tra Pd e M5s. E - non è un caso nemmeno questo - Stefano Bonaccini ha procrastinato al massimo delle possibilità che il calendario gli concedeva la data del voto, proprio per poter distanziare il più possibile un eventuale brutto risultato in Umbria. Questo per evitare contraccolpi. Negli accordi (non pubblici) che furono presi a settembre, quando fu siglato il patto di governo, infatti (La Verita lo rivelò) fu stretto l'accordo parallelo per le regionali, dall'Umbria alla Calabria, all'Emilia. Ma cosa succede se si parte con un tonfo? Anche qui gli alleati vedono questo patto in modo diverso: Zingaretti e Conte come un avvicinamento strategico che porterà a un alleanza nelle urne per le politiche («E se avremo come candidato premier Conte io non ho paura di nulla», dice in privato Zingaretti). Mentre Di Maio considera l'accordo come una necessità contingente a cui sottostare senza entusiasmo. Tuttavia, se si perde in Umbria diventa molto difficile per il M5s accordarsi per un bis di Bonaccini. Ecco perché in queste ore di vigilia tutti i big tacciono. Verini spiega: «Non abbiamo interpretato l'alleanza come un test politico». E aggiunge addirittura: «In Italia si attribuiscono significati politici pure alle elezioni di condominio». Ma tutti sanno che il futuro dell'«alleanza larga» dipenda anche da cosa accadrà nel condomino umbro. E qualcuno già lo teme.