2022-04-09
La smania di battere Putin può portarci alla guerra mondiale
Sergej Karaganov (Arif Hudaverdi Yaman/Anadolu Agency/Getty Images)
Se finisse alle corde, Mosca sfiderebbe la Nato: perciò si deve trattare sul Donbass. Leonardo Tricarico: «Gli Usa cercano l’escalation».La lingua italiana ci inganna: una guerra mondiale non «scoppia»; è un abisso in cui ci si addentra poco a poco. Purtroppo, è il copione che stiamo seguendo nella crisi russo-ucraina. L’ipocrisia che occulta la politica dietro la morale - noi agiamo perché è stato violato il diritto internazionale, o per punire i crimini contro l’umanità - complica l’identificazione dei nostri obiettivi. Ma pare di percepire un riposizionamento: la strategia occidentale è passata dal proposito di armare gli ucraini per portare al tavolo un Vladimir Putin indebolito, a quella di condurre Kiev fino alla vittoria definitiva. «È un disegno promosso soprattutto dagli americani e che ha preso piede in Ucraina, man mano che la resistenza ha maturato fiducia nelle proprie capacità», conferma alla Verità il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica. Quali conseguenze possa comportare l’ambizione di annientare il nemico, l’ha illustrato Sergej Karaganov. Il 2 aprile, l’ex consigliere dello zar ha dichiarato a The New Statesman: «La Russia non può permettersi di perdere, dunque abbiamo bisogno di un qualche genere di vittoria. E se avessimo l’impressione di star perdendo la guerra, allora credo ci sarebbe sicuramente la possibilità di un’escalation». Di che tipo? L’ha spiegato a Federico Fubini, ieri, sul Corriere: «Gli americani e i loro partner Nato continuano a inviare armi all’Ucraina. Se va avanti così, degli obiettivi in Europa potrebbero essere colpiti o lo saranno per interrompere le linee di comunicazione». Magari è un’intimidazione verbale. E benché Karaganov snobbi l’impegno alla mutua assistenza in caso di attacco, sancito dall’articolo 5 del Patto atlantico («Non c’è garanzia automatica che l’Alleanza intervenga»), Mosca dovrebbe avere presenti i pericoli di allargare l’offensiva. «Non si può permettere una guerra alla Nato», liquida la minaccia Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana difesa. Persino il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha gettato acqua sul fuoco, dichiarando che la Russia non considererebbe una minaccia esistenziale l’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia e che l’«operazione speciale» potrebbe concludersi presto. Le grandi potenze, comunque, spesso si comportano proprio come descritto da Karaganov: quando avvertono che la sconfitta è vicina, usano le misure drastiche. Si pensi al Vietnam: a Richard Nixon era chiaro che la guerra fosse perduta, eppure la Casa Bianca ordinò di bombardare segretamente la Cambogia. Nei raid morirono tra 600.000 e 800.000 persone. D’altronde, gli unici ordigni atomici mai impiegati, a Hiroshima e Nagasaki, servirono agli Usa per forzare la resa del Giappone e dare un taglio al conflitto. Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, è allarmato: «Certo che c’è il rischio di un’escalation. Per evitare la sconfitta, i russi faranno di tutto. Una situazione del genere non si verificava dai tempi della crisi di Cuba». Non sappiamo se davvero Putin, preso dal panico per un’eventuale débâcle, o per sbloccare il pantano ucraino, si risolverà a impiegare le armi nucleari tattiche, come paventava, in un’intervista a Fanpage, l’analista russo Pavel Luzin. In ogni caso, una guerra convenzionale, che dal Donbass si estendesse, per esempio, alla Polonia e in seguito agli altri Paesi Nato, sarebbe meno tragica e sanguinosa? A fare la differenza sarà il modo in cui in cui il Cremlino percepirà gli scopi dell’intervento occidentale. È sembrato che la Russia si fosse rassegnata al nostro piano di contenimento e al naufragio delle mire di conquista su Kiev. Ma dai primi invii di tank in Ucraina, traspare la nostra intenzione di non consentire allo zar neanche una via d’uscita onorevole, con concessioni in Crimea e nel Donbass. È un ragionamento cinico? Sì. Ma sia chiara l’alternativa: senza una trattativa, la «guerra lunga» che annuncia, spavaldo, Luigi Di Maio potrebbe trasformarsi nella terza guerra mondiale. «L’Europa», incalza il generale Tricarico, «deve far capire a Stati Uniti e Gran Bretagna che non ha più intenzione di seguirli nell’escalation. Putin non si vuol fermare? Può darsi, ma non glielo stiamo nemmeno più chiedendo». Invero, forse né Washington né Kiev sono dei monoliti. I furenti proclami di Joe Biden, inclusa la sortita sul regime change, sono stati più volte corretti, ora dai funzionari, ora da Anthony Blinken. E al militarismo del ministro Dmytro Kuleba hanno fatto da contraltare, almeno fino a pochi giorni fa, le aperture ai negoziati dello stesso Volodymyr Zelensky. Gli spiragli, tuttavia, si stanno chiudendo. E l’Europa è nel pallone. Da un lato, teme di spingersi oltre le sanzioni al caviale. Dall’altro, si lascia trascinare dal bellicismo per procura degli Usa, rinfocolato dal massacro di Bucha e dal missile di Kramatorsk. Che è caduto giusto in tempo per la visita in Ucraina di Ursula von der Leyen e Josep Borrell. Sono indegne macellerie, certo. Ma domandiamoci: per vendicare le vittime, siamo pronti a scatenare l’apocalisse?
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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