2020-09-27
La sinistra vuole la Lega moderata per far finire Salvini come Fini
Dopo la sconfitta in Toscana, i media tifano per una «normalizzazione» del Carroccio. Il passato però insegna che rinnegare le origini e rinunciare a un leader forte porta alla catastrofe.Da giorni, Matteo Salvini e la Lega sono stati destinatari - dall'esterno - di non pochi consigli interessati, spesso a elevato tasso di furbizia: in particolare, non sono mancate le voci (rigorosamente di sinistra) pronte a sollecitare «svolte moderate» a destra, laddove un po' di «moderazione» occorrerebbe - in primo luogo - agli antisalvinisti ossessivi. Non ci pare infatti molto «moderato» aver portato a processo il leader dell'opposizione per una linea politica perseguita quando era al governo; non ci pare «moderato» applicare alla Lega, su qualunque vicenda di giustizia, una sistematica presunzione di colpevolezza; né ci pare «moderato» il vizio di «fascistizzare» l'avversario di destra, presentandolo come un pericolo per la democrazia. La realtà è che molti - a sinistra - hanno nostalgia di una Lega al 4%, innocua e marginale; puntano a un'opposizione addormentata, com'è accaduto nella prima parte dell'emergenza Covid; e sognano una navigazione indisturbata, da qui a fine legislatura, blindando il Quirinale per altri sette anni, e accettando un progressivo ma inesorabile commissariamento soft dell'Italia da parte di Bruxelles. Dunque, per la Lega e il resto del centrodestra, ci sono almeno quattro questioni da approfondire. La prima ha a che fare con il rapporto con l'Europa. Si legge di un ipotetico avvicinamento leghista al Ppe, o comunque di un ripensamento dell'attuale gruppo di appartenenza. Al di là di questa eventuale operazione, è una buona idea l'obiettivo di non farsi marginalizzare, di non farsi trattare come se la Lega fosse la versione italiana di Alternative fur Deutschland. Personalmente non ho mai compreso come mai i leghisti non abbiano preceduto Fratelli d'Italia, a suo tempo, nell'aderire al gruppo conservatore guidato dai Tories britannici. Ora, i conservatori Uk hanno lasciato l'Europarlamento, e anche quel gruppo è egemonizzato da forze molto schiacciate a destra, non così diverse dai compagni di strada dei leghisti. Dunque, un aggiustamento di tiro può essere opportuno, evitando però di passare da un estremo all'altro, e cioè di apparire improvvisamente europeisti e quasi «eurolirici», cosa che ha devastato elettoralmente prima Forza Italia e più di recente i grillini, e che anni fa (oltre all'antiberlusconismo ossessivo) fu una delle cause dello smarrimento di Gianfranco Fini. L'elemento eurocritico, naturalmente declinato in modo costruttivo, non va perso. L'idea di una rinegoziazione europea può essere rilanciata, cercando alleanze, ad esempio ripartendo da ciò che l'Ue concesse a inizio 2016 a David Cameron prima del referendum Brexit: fu troppo poco per le rivendicazioni britanniche, ma sarebbe moltissimo per l'Italia e altri Paesi. Così come, ferme restando le critiche di fondo che in primo luogo La Verità ha avanzato rispetto ai meccanismi del Recovery fund, non sarebbe male se il centrodestra si attrezzasse con una sua proposta di uso di ogni euro che dovesse eventualmente arrivare in Italia. Sarebbe molto interessante comprendere i progetti del responsabile Esteri Giancarlo Giorgetti, il quale ha tra l'altro opportunità enormi: incidere sulle scelte da fare a Bruxelles, costruire una relazione solida con Washington, contribuire a rendere chiaro che il centrodestra è contrario a pasticci pro Pechino sul 5G. La seconda questione ha a che fare direttamente con Salvini, il quale sarà il primo, immaginiamo, a porsi il problema, direbbero i britannici, di apparire prime ministerial, cioè di pensare ogni atto come le scelte di uno che vuole arrivare a Palazzo Chigi. Al tempo stesso, però, lui e i suoi farebbero bene a diffidare di chi desidererebbe «normalizzarlo». Nell'era della turbopolitica mediatica (Trump docet) una componente forte e «selvaggia» della leadership è essenziale. E il fatto che gli avversari si imbestialiscano ne è una conferma. La terza questione ha a che fare con il completamento dell'offerta politica a destra, dove anche Fdi è in grande salute grazie alla guida di Giorgia Meloni. La sensazione è che non servano «centrini» moderati (semmai servirebbe una componente anti tasse e pro imprese, fortemente liberale in economia), e che, tra gli elettori, nessuno senta la nostalgia di micropartiti impegnati a giocare al distinguo quotidiano per avere visibilità. Chi vuole far crescere il centrodestra non deve inseguire la divaricazione quotidiana (sull'Europa o su altro), ma dovrebbe contribuire a nuovi posizionamenti comuni, possibilmente rivolgendosi a fette aggiuntive di elettorato. La quarta questione ha a che fare con le 15 Regioni governate dal centrodestra. Come farle pesare a livello nazionale? Lavorando su proposte comuni. Ad esempio, impegnandole tutte (il Veneto lo fa già, altre sono in cammino, ciascuna avrà bisogno del suo tempo) verso un obiettivo chiarissimo per i cittadini: zero tasse regionali aggiuntive. Come dire: dove governa il centrodestra, la regione non chiede un euro di tasse in più. E la stessa compattezza potrebbe essere costruita anche sul tema dell'autonomia, presentandosi a Roma con una sola voce che rappresenti 15 Regioni su 20. A quel punto, sarebbe difficile svicolare per Giuseppe Conte.