2020-01-31
La sindrome cinese sbarca in Africa. Stato di allerta nelle nuove «colonie»
Gli stretti legami commerciali e gli insediamenti diretti di Pechino fanno crescere l'apprensione. Controlli serrati negli aeroporti. Il virologo Giorgio Palù: «Con il boom dell'urbanizzazione aumenta il rischio di contagio».Lo spettro del virus cinese minaccia l'Africa. Martedì scorso, quattro persone, sospettate di aver contratto il morbo, sono state messe in isolamento ad Addis Abeba (in Etiopia). Il problema non è di poco conto. Perché, al di là di alcuni eventuali casi singoli, non è del tutto escludibile che l'Africa possa prima o poi ritrovarsi in guai seri con il coronavirus. Per altro nella capitale etiope (da cui partono sei voli diretti al giorno per la Cina), il 9 e il 10 febbraio, ci sarà il summit annuale dell'Unione africana. Sotto questo aspetto, non bisogna infatti trascurare come - soprattutto nel corso degli ultimi dieci anni - la Cina abbia stretto fortissimi legami economici con il continente: un continente in cui Pechino ha investito una vera e propria fortuna. Stando a quanto riportato dalla John Hopkins University, il governo cinese - tra il 2000 e il 2017 - avrebbe effettuato prestiti a svariati Stati africani per circa 143 miliardi di dollari: in questo quadro, l'Angola risulterebbe al primo posto, avendo ricevuto quasi 43 miliardi di dollari nell'arco di diciassette anni. Nel settembre del 2018, il presidente cinese, Xi Jinping, ha inoltre annunciato ulteriori sessanta miliardi di dollari in aiuti e prestiti all'Africa. Obiettivo del Dragone è infatti quello di espandere la propria influenza geopolitica sull'area attraverso la leva dell'indebitamento.Questo tipo di legame ha portato anche a un incremento degli scambi culturali e commerciali: fattori che hanno aumentato nel tempo i viaggi aerei. Sono infatti numerose le rotte delle compagnie aeree cinesi (come Air China) verso gli scali africani. Tutto questo, mentre, secondo il South China Morning Post, gli scambi commerciali sono complessivamente aumentati del 2,2% nel corso del 2019, per un giro d'affari totale di quasi 208 miliardi di dollari. Un elemento significativo è che, se la Cina ha ridotto del 3,8% le proprie importazioni, il suo export verso gli Stati africani si è invece incrementato del 7,9% (in conseguenza della guerra tariffaria con Washington). Senza poi dimenticare i lavoratori cinesi in terra africana. Secondo i dati ufficiali di Pechino, alla fine del 2017 sarebbero stati poco meno di 203.000, risultando principalmente localizzati in aree come Algeria, Angola, Nigeria, Etiopia e Zambia. È evidente che questi stretti legami economici rendano concreto il rischio di una diffusione del coronavirus nel continente africano. Sul fatto che le possibilità in tal senso non siano poche, concorda anche Giorgio Palù, professore di Microbiologia e Virologia presso l'Università di Padova, già presidente della Società Italiana ed Europea di Virologia ed esperto di West Nile Virus. «Immagino», ha detto a La Verità, «che questa possibilità di trasmissione in Africa ci possa essere benissimo, tanto più che questo nuovo virus sembra più contagioso della Sars. Pensiamo poi che la globalizzazione è ancora più spinta da dieci anni a questa parte, soprattutto per quanto riguarda gli interessi cinesi in Africa. Avvenendo la trasmissione per via aerea, ci vuole comunque lo stretto contatto. E non sempre in Africa c'è uno stretto contatto. La possibilità della trasmissione dipenderà quindi dalle condizioni socio-ambientali dell'Africa: l'Africa sta deforestando e si sta inurbando. Questa possibilità di trasmissione è quindi abbastanza probabile, in particolare nelle città. Soprattutto, visto che il virus si trasmette per via aerea, se ci sono assembramenti o contatti». Tra l'altro, non è detto che le misure prescritte dall'Oms si rivelino sufficienti per il contrasto del virus. «Ho qualche dubbio», ha proseguito Palù, «che le disposizioni dell'Oms vengano seguite in Africa. Diciamo comunque che i tempi di incubazione variano da uno a 14 giorni. Anche qualora venissero messi in atto negli aeroporti i controlli, ci può essere un individuo che è portatore sano o portatore asintomatico, perché nella fase prodromica. Quindi questi controlli, per quanto molto importanti e utili, non sono in grado di fermare una potenziale epidemia che diventi pandemica». In tutto questo, Cnn ha sottolineato ieri che svariati cittadini africani risultino al momento intrappolati nella città di Wuhan, in attesa di essere rimpatriati dai propri governi. Insomma, pur senza cadere negli allarmismi, una diffusione del coronavirus in Africa appare tutt'altro che improbabile. Uno scenario che andrebbe a sovrapporsi ad altre situazioni sanitarie drammatiche nell'area. Si pensi all'ebola (soprattutto in Congo), al colera (in Nigeria e Mozambico), alla malaria (in particolare nell'area subsahariana) o alla peste (presente in Madagascar e generalmente collegata a situazioni di estrema indigenza). Tra l'altro, un'eventuale diffusione del coronavirus in Africa potrebbe rivelarsi particolarmente problematica anche per la Francia, visti i legami economici che Parigi intrattiene con le proprie ex colonie. Nei giorni scorsi, si è per esempio verificato un caso sospetto (poi rivelatosi negativo) in Costa d'Avorio: quella stessa Costa d'Avorio in cui Pechino ha investito non pochi capitali (soprattutto nel settore infrastrutturale). Lo steso dicasi per il Senegal, ex colonia dove ora c'è un'importante presenza di occhi a mandorla. Non va trascurato poi che l'Algeria importi molti beni manifatturieri cinesi e che, a luglio scorso, Algeri abbia ratificato il memorandum d'intesa, per l'adesione al progetto della Belt and Road Initiative.