
Cresce in Italia il numero di genitori che preferiscono istruire i ragazzi a casa propria. Nessun obbligo, a parte informare i presidi e superare gli esami di Stato a fine ciclo. L'Associazione nazionale: le famiglie hanno diritto a occuparsi integralmente della prole.Casa dolce casa. Ma che cosa succede se l'abitazione in cui si vive diventa anche il luogo dell'apprendimento per i propri figli? Si parla in questo caso di istruzione parentale, una pratica molto diffusa nel mondo anglosassone dove è conosciuta con il nome di homeschooling. Le ultime rilevazioni ufficiali per gli Stati Uniti risalgono al 2012 e dicono che 1,8 milioni di studenti ricevono l'istruzione a casa (pari al 3,4% della popolazione scolastica), un numero più che doppio rispetto al 1999. Una tendenza in forte rialzo anche nel Regno Unito, dove i giovani coinvolti nel 2016 sono stati circa 48.000, in crescita del 40% negli ultimi tre anni. Per quanto riguarda l'Italia dati certi non ne esistono, ma si stima che nel nostro Paese dai 1.000 ai 2.000 tra bambini e ragazzi vivano questa realtà. Numeri esigui rispetto alla totalità degli studenti, ma in costante crescita. Optare per l'istruzione parentale non è una scelta semplice. La scuola è considerata il luogo principe per l'educazione dei ragazzi, nonché un contesto nel quale viene favorita la socializzazione. Decidere di non mandare i propri figli in un istituto pubblico o privato può dunque risultare una decisione controcorrente in grado di scatenare dubbi e pregiudizi. E dire che è la stessa Costituzione, all'articolo 30, a sancire questa possibilità per le madri e i padri: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli». Nessun riferimento alla scuola che pure (articolo 34) è «aperta a tutti» e «gratuita». La coppia può dunque decidere, in maniera del tutto legale, di impartire direttamente (oppure tramite altre persone giudicate competenti) le nozioni e i concetti. Nel tempo la normativa si è evoluta, specificando che l'obbligo statale si adempie non solo frequentando le scuole elementari e medie statali o non statali, ma anche «privatamente», e stabilendo che «i genitori dell'obbligato o chi ne fa le veci che intendano provvedere privatamente o direttamente all'istruzione dell'obbligato devono dimostrare di averne la capacità tecnica o economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità» (art.111 del Decreto legislativo 297 del 16 aprile 1994). In tempi più recenti poi, con il Decreto legislativo 62 del 13 aprile 2017, si è disposto che «in caso di istruzione parentale, i genitori dell'alunna o dell'alunno, della studentessa o dello studente, ovvero coloro che esercitano la responsabilità genitoriale, sono tenuti a presentare annualmente la comunicazione preventiva al dirigente scolastico del territorio di residenza».Materialmente, le famiglie che intendono avvalersi di questa opzione devono darne comunicazione al dirigente scolastico dell'istituto di competenza, il quale a sua volta informerà il sindaco del Comune di residenza. Compito del dirigente è verificare sia le capacità economiche dei genitori sia le loro competenze tecniche (o degli insegnanti privati). Ogni anno i ragazzi, a differenza degli studenti che frequentano la scuola, dovranno poi sostenere un esame di idoneità per verificare il livello di conoscenze ed essere ammessi alla classe successiva.Non mancano i casi spinosi. Nelle scorse settimane ha fatto discutere un caso, riportato dal Gazzettino, di una famiglia di Borgo Valbelluna (provincia di Belluno) che ha scelto l'istruzione parentale per il proprio figlio tredicenne, per il quale il Tribunale di Venezia avrebbe riscontrato un rischio di pregiudizio cognitivo e relazionale. Dopo aver inoltrato la domanda al dirigente scolastico sono scattati i controlli del Comune per verificare se sussistevano i requisiti di legge. Gli assistenti sociali avrebbero riscontrato una situazione di disagio familiare, intimando alla famiglia il rientro del minore a scuola. Ora la famiglia, la cui figlia più piccola non risulta in regola con le vaccinazioni, rischia di vedersi revocata la potestà genitoriale.L'Associazione istruzione famigliare (Laif), con sede in provincia di Bergamo, è nata nel 2017 «sia come catalizzatore delle varie esperienze per una loro virtuosa contaminazione, sia come soggetto che si apre al dialogo costruttivo con le istituzioni che ai vari livelli intervengono sui temi dell'istruzione e della famiglia». Alla Verità il presidente Sergio Leali tiene a specificare che quella che rappresenta è una «realtà progettuale», per nulla assimilabile ai «popoli del no, inclusi i no vax». «Ci troviamo in una fase di crisi drammatica dell'educazione e dell'istruzione», spiega Leali, «noi stiamo provando a dare una testimonianza del nostro impegno, non è di sicuro la soluzione di tutti i problemi però c'è una presa di coscienza del carico di responsabilità che le famiglie hanno in questo frangente». Quella dell'homeschooling non è una scelta a cuor leggero: vanno superati i pregiudizi e le lacune delle istituzioni («i funzionari che si trovano di fronte a queste famiglie hanno pochi elementi per catalogare questo fenomeno») e soprattutto è richiesto «un approccio di grande responsabilità e di grande impegno». Tuttavia, rassicura Leali, «i risultati sono ottimi».Ma al netto dei casi limite, l'istruzione parentale può rappresentare anche un'opportunità per tornare all'origine del rapporto tra genitori e figli. Secondo monsignor José Tomás Martín de Agar, professore di diritto canonico alla Pontificia università della Santa Croce di Roma e autore di una recente pubblicazione sul tema sulla rivista Ius Ecclesiae, l'homeschooling «altro non è che un ritorno alla realtà che ai genitori spetta tutto quanto riguarda la crescita della prole, educazione inclusa. Sta a loro decidere in che misura vorranno farsene carico direttamente e in quale ricorrere all'aiuto d'altri, tra cui la scuola; questa è uno strumento, un aiuto che si usa a seconda del bisogno, chi decide sono le persone interessate: i genitori e i figli».
Il governatore: «Milano-Cortina 2026 sarà un laboratorio di metodo. Dalle Olimpiadi eredità durature per i territori».
«Ci siamo. Anzi, ghe sem, come si dice da queste parti». Con queste parole il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha aperto l’evento La Lombardia al centro della sfida olimpica, organizzato oggi a Palazzo Lombardia per fare il punto sulla corsa verso i Giochi invernali di Milano-Cortina 2026.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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