2020-03-21
La serie western «per i conservatori» che sembra scritta da Cormac McCarthy
yellowstone©Paramount Network : © ViacomCBS Domestic Media Network
Sky trasmette «Yellowstone», tuffo nell'epica della frontiera con Kevin Costner. Per una volta senza «battaglie sociali». John Dutton, jeans attillati, giubbotto e cappello ben calato sulla testa, è appoggiato al recinto. I suoi uomini, con gli stivali impolverati e gli speroni che brillano al sole, sono appollaiati tutt'intorno. Hanno appena fatto salire un ragazzetto appena assunto al ranch su un purosangue piuttosto riottoso, l'hanno saldato alla sella con del nastro adesivo e si preparano a vedere il poveretto sballottato dal cavallo come se stesse facendo una gita dentro un frullatore. Uno degli uomini ghigna: «Sono contento di non dover fare più la bassa manovalanza». John Dutton inspira poi butta fuori il fiato: «È la bassa manovalanza che ti rende un cowboy». La filosofia della serie Yellowstone - dal 13 marzo in onda su Sky Atlantic (una puntata nuova ogni venerdì alle 21.15, disponibile anche on demand) - sta tutta nella scena di apertura della seconda puntata. Nessuna concessione al sentimentalismo, nessuna pietà: se vuoi diventare un uomo, prima o poi ti toccherà salire su quel cavallo infuriato che è la vita e provare a restare in sella, che ti piaccia o no. La brutale verità, né più né meno. È questa violenza - di idee più che di azioni - a rendere Yellowstone uno dei prodotti televisivi più affascinanti degli ultimi anni, nonché un'opera catodica totalmente diversa da tutto ciò che siamo abituati a vedere sul piccolo schermo da diversi anni a questa parte. La prima differenza si avverte sulla pelle, al primo sguardo. In questa serie non ci sono drammi sulla scoperta dell'identità sessuale, niente tirate sui diritti arcobaleno o sulle minoranze discriminate dalla società patriarcale. Nessuna morale sul razzismo, niente lezioncine sugli adolescenti bullizzati. Pochissimo impegno sociale esplicito, per farla breve. Dentro Yellowstone si agitano i miti della frontiera americana e del selvaggio West, ma le tracce di revisionismo storico sono blande. Il produttore, protagonista e (saltuariamente) regista è Kevin Costner, e la reazione istintiva è correre con il pensiero a Balla coi lupi. Solo che qui siamo in un territorio del tutto diverso. E non solo perché , stavolta, la storia si svolge ai giorni nostri. Il premiatissimo film del 1990 era il figlio prediletto del politically correct. Fu girato e scritto per risarcire i nativi americani: un lavaggio del passato sporco in pubblico nella più pura tradizione hollywoodiana, con i bianchi cattivi (salvo il soldato blu progressista) e gli indiani in versione fricchettona. A Yellowstone, invece, di buonisti non ce ne sono, e nemmeno di buoni. Costner interpreta John Dutton, ricco proprietario terriero del Montana impegnato in due battaglie simili e opposte. Da un lato, come un vero eroe trumpiano, egli si oppone a una grossa compagnia che vuole allargarsi sul suo territorio: not in my backyard, come dicono laggiù. Allo stesso tempo, Dutton è in lite con i nativi americani: costoro rivogliono la terra che è stata strappata ai loro antenati, e a John non passa nemmeno per il cappello di mettersi a trattare. Insomma, il nostro protagonista incarna tutte le contraddizioni della storia americana. Non è un cattivo alla Kevin Spacey in House of Cards, ma neppure un buono cinico alla dottor House. Nei suoi sussurri, nelle sue rughe d'espressione si agita un intero universo di valori che vengono rimestati e rimessi in discussione ogni giorno. Perché, come dice la figlia di Dutton, Beth (carrierista senza scrupoli interpretata da Kelly Reilly), «ogni giorno è il giorno del giudizio». Il West che vediamo sullo schermo di Sky sembra uscito direttamente da un romanzo di Don Winslow, o ancora meglio di Cormac McCarthy, e questo lo rende affascinante, in qualche modo spirituale. Non per nulla l'ideatore e sceneggiatore è il bravissimo Taylor Sheridan, che vanta nel curriculum film come I segreti di Wind River, Hell or High Water, Sicario e Soldado (quest'ultimo per la regia dell'italiano Stefano Sollima). Il suo marchio di fabbrica è riconoscibilissimo: scrittura asciutta, aspra, cruda. Influenzata dai grandi romanzieri di cui sopra e temprata dal lavoro in serie come Walker Texas Ranger e Sons of Anarchy, tutta roba forte. Anche per questo motivo, quando la serie ha esordito negli Usa (era il 2018) ha ottenuto un enorme successo di pubblico - tanto che è già stata rinnovata per una terza stagione - ma la critica l'ha guardata col sopracciglio alzato (in molti hanno scritto che sembra una soap opera in stile Dallas, solo più patinata e adatta ai tempi). Liam Matthews di Tv Guide ha centrato il punto: «La tv di prestigio è cosa da liberal», ha scritto. Per questo Yellowstone è un caso raro: perché è una serie «da conservatori». Una definizione semplicistica, forse, ma corretta. E non perché il «buono» è il cowboy, anzi proprio il contrario. Yellowstone è conservatrice perché non si ferma alla superficie, scende in profondità nella mente e nel cuore dell'uomo, ai conflitti sociali preferisce quelli dell'anima. Kevin Costner non balla più con i lupi: ora, nel bene e nel male, il lupo è lui.