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2021-02-14
La scommessa di Salvini: allearsi con Mario
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Venerdì, quando si è iniziato a capire che Mario Draghi sarebbe salito al Colle con la mitologica lista dei ministri, sono partite telefonate incrociate tra i leader di partito: il motivo dei contatti diretti tra Matteo Renzi, l'omonimo Salvini e Nicola Zingaretti era lo stesso: «Ma tu lo sai chi sono i tuoi ministri?». Uguali, nella sostanza, le rispettive risposte: «No, e tu?». Solo la condivisione dell'imbarazzo lo ha in parte stemperato: è diventato chiaro che il segretario di partito di Pd, Lega, Fi e Iv era stato in quelle ore lo stesso: Sergio Mattarella. Si potrà a lungo discutere sull'estensione dei poteri del Colle: un governo che ottenga la fiducia delle Camere è comunque legittimato. Ma un esecutivo composto da 15 figure di partito senza indicazione esplicita da parte dei rispettivi capi è una novità anche per la politica italiana.
Matteo Salvini ha fatto il suo «all in» su Draghi contando sull'intuizione - giusta - che l'ex capo della Bce, una volta completata la cintura tecnocratica attorno al suo governo, avesse necessità di una sponda solida di centrodestra. Non tanto per una questione di numeri (la «maggioranza Ursula», prima opzione del Pd e forse del Colle, sarebbe bastata) quanto per equilibrio politico. Forse però non si aspettava che le scelte sui nomi, già ristrette dal contesto, fossero in capo al presidente della Repubblica, in un dialogo con il nuovo premier che ha reinventato con discutibile protagonismo l'articolo 92 della Costituzione.
Da venerdì sera la scommessa di Salvini si è fatta dunque più difficile ma anche più interessante. Più difficile, perché le scelte di Mattarella paiono cesellate per tentare un'operazione spericolata ai danni del leader leghista. Non è in discussione tanto il rapporto con i vertici del partito dei singoli ministri scelti (il segretario li ha convocati per oggi), quanto la loro appartenenza a una presunta area ritenuta «responsabile» dal punto di vista del Quirinale. Aver aperto a Draghi «senza veti» ha messo Salvini (come Berlusconi, Renzi e in parte pure Zingaretti) nell'obbligo di fare buon viso davanti a scelte altrui: da questo punto di vista, le nomine dei sottosegretari e dei viceministri saranno un tornante più importante del solito per ridare peso e centralità ai segretari di partito. Si consumeranno piccole ma interessanti vendette a vari livelli.
E da queste nomine in avanti si capiranno le prospettive della scommessa di Salvini, giocata almeno su due piani. Il primo è europeo. È abbastanza fuori strada chi dipinge, su questo, una spaccatura tra «europeisti» e «sovranisti» nel Carroccio: per quanto ovviamente Giorgetti sia a suo agio al governo con Draghi, chi ha contribuito a portare nel partito il dibattito sulla razionalità della costruzione comunitaria è in realtà aperto all'opzione «Super Mario». Secondo questa interpretazione - peraltro esplicitata «in chiaro» per esempio da Claudio Borghi - l'indubbia dimestichezza dell'ex governatore della Bce può essere l'occasione per dare un'inquadratura laica al tema dello spazio negoziale nel perimetro dell'Unione. Dove fin qui un «europeismo» acritico ha finito per cancellare la categoria stessa dell'interesse nazionale, a differenza di quanto hanno fatto praticamente tutti i nostri partner. Se Draghi darà pragmatismo operativo ad anni di contrapposizioni sterili su «sovranismo», «populismo» e altre astrazioni polarizzanti, si porrà inevitabilmente in attrito con l'egemonia tedesca sul patto di stabilità e le condizioni del Recovery fund, e Salvini potrà dire di non aver sprecato le sue fiches.
Il secondo piano è interno. Mattarella pare avere ogni intenzione di tenere in piedi la trincea ideologica un po' fumosa dell'«antisovranismo», proprio al fine di indebolire la leadership del Carroccio. Su cosa si misurerà la presa del leader sui gruppi parlamentari? Durata dell'esecutivo, legge elettorale ed elezioni del Colle. Semplificando un po', la scommessa «interna» di Salvini, aiutato in questo da un partito molto strutturato e verticistico (e dal fatto di averlo pur sempre preso al 3% e portato a ridosso del 30), coincide con un'alleanza di lungo periodo proprio con Mario Draghi. La durata del governo è infatti decisiva per l'incastro istituzionale che porta alla scelta del successore di Sergio Mattarella. Se il nuovo premier davvero lavora al grande salto, dovrà costruire, mentre governa, una base parlamentare (e una norma per votare) che lo porti al Quirinale. Non è detto che l'operazione sia allineata con i desiderata dell'attuale inquilino, anzi. Ma la presenza della Lega nella nuova maggioranza - probabilmente un imprevisto sgradito a molti, forse anche a Mattarella - consegna a Salvini un possibile ruolo di kingmaker (con Fi) e una centralità potenzialmente maggiore rispetto a quando era al governo con Di Maio e soci.
Certo, è uno scenario, ovviamente liquefacibile in poche settimane. Siccome la scommessa è ad alto rischio, ce n'è anche uno opposto. Quello in cui la Lega è costretta ad assistere a un rientro del Paese nei vincoli Ue a colpi di tagli e tasse, a tenersi Draghi al governo fino al 2023 e a rieleggere Sergio Mattarella o chi per lui. Del resto, se l'esito fosse certo che scommessa sarebbe?
Il Cav abbozza però mastica amaro. Forza Italia finisce in un angolo
Al netto delle dichiarazioni ufficiali, chi ha visto Silvio Berlusconi nelle ultime 24 ore racconta di un Cavaliere «arrabbiato», non solo per il nuovo governo di Mario Draghi, ma anche per «il trattamento ricevuto». Il leader di Forza Italia aveva deciso di spostarsi fino a Roma per incontrare l'ex presidente della Bce, nonostante i medici continuino a consigliargli di stare tranquillo: la caduta accidentale e il ricovero di una notte in clinica non hanno di certo fatto diminuire le preoccupazioni. La nota uscita venerdì sera aveva i toni concilianti. «Forza Italia farà la sua parte: è quello che avevo dichiarato l'altro giorno al termine dell'incontro con il presidente Draghi, e che ripeto volentieri stasera», ha dichiarato Berlusconi, «Accolgo infatti con soddisfazione la nomina a ministri della Repubblica di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, sicuro che si impegneranno con l'abituale dedizione portando un contributo di competenza e di esperienza all'azione dell'intera compagine governativa. Al presidente Draghi e a tutto il governo il più vivo augurio di buon lavoro». Ma la situazione sarebbe molto più complessa.
Del resto durante il colloquio tra i due si era parlato soprattutto di Antonio Tajani, considerato in questi ultimi tempi come il braccio destro del Cavaliere. Tanto che venerdì sera, prima che Draghi inforcasse la sua station wagon per recarsi al Quirinale, dentro Forza Italia erano tutti convinti che alla fine i ministri azzurri nel nuovo governo sarebbero stati due, Tajani e il capogruppo al Senato Anna Maria Bernini. Poi però deve essere successo qualcosa. A quanto pare a muoversi sarebbe stato Gianni Letta in persona, in modo da riequilibrare pesi e contrappesi.
Da tempo gli azzurri sono divisi in schieramenti. Da una parte ci sono appunto Letta, Mara Carfagna e Renato Brunetta, dall'altra Tajani, Licia Ronzulli, Niccolò Ghedini e la Bernini. Prima che Draghi varcasse il portone del Quirinale, quindi, l'impressione era che il secondo gruppo potesse portare a casa un tranquillo 2 a 0 secco, per dirla in gergo calcistico. Insomma nessuno si aspettava grossi colpi di scena. L'intervento di Letta sarebbe servito a rimettere equilibrio. E anche a tenere dentro il partito Mara Carfagna, data da tempo in uscita da Forza Italia. Quindi mentre la macchina di Draghi parcheggiava, la situazione sul pallottoliere sembrava questa: gli azzurri avrebbero portato a casa due ministeri, con Tajani e la Carfagna. La Bernini sarebbe stata depennata all'ultimo momento, facendo così saltare anche la nomina a capogruppo al Senato della Ronzulli.
Ma il risultato non era quello definitivo. A scompaginare il quadro, suggeriscono i bene informati, potrebbe essere subentrata anche la moral suasion del Quirinale, da sempre propenso a una maggioranza Ursula alla amatriciana, con un occhio di riguardo nei confronti dell'ala moderata di Forza Italia. Così dopo la Carfagna ecco spuntare Brunetta come ministro della Pubblica amministrazione nella lista di Draghi. Lo stesso Brunetta che nell'ultimo mese aveva lanciato ramoscelli d'ulivo a Giuseppe Conte, tanto da minacciare persino di votare la fiducia all'avvocato di Volturara Appula. E infine a spuntarla è stata Mariastella Gelmini, come ministro per gli Affari regionali. La Gelmini è considerata un po' fuori dagli schemi, quindi slegata dalle diatribe interne.
Sta di fatto che dopo il discorso di Draghi la situazione si è ribaltata. Se il primo gruppo pensava di aver perso 2 a 0, alla fine ha vinto 2 a 1. Il problema adesso sono i troppi nodi da sciogliere sul tappeto. In Forza Italia alla fine nessuno si aspettava un risultato di questo tipo. Anche perché il messaggio che è arrivato al partito non è di sicuro dei migliori. Prima ti lamenti, fai il contro canto e minacci di uscire, poi se tutto va bene alla fine vai a fare il ministro (anche se senza portafoglio, altra nota dolente per il Cav).
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Sergio Mattarella ha fatto il segretario di 4 partiti scegliendo i ministri all'insaputa dei leader: l'azzardo del leghista è ancora più difficile. Ma può contare sul pragmatismo antitedesco di Mario Draghi in Ue. E giocare un ruolo da «kingmaker» per l'ascesa di Mr Bce al Colle.Su tre dicasteri, senza portafoglio, due sono andati ai «ribelli» Renato Brunetta e Mara Carfagna.Lo speciale contiene due articoli.Venerdì, quando si è iniziato a capire che Mario Draghi sarebbe salito al Colle con la mitologica lista dei ministri, sono partite telefonate incrociate tra i leader di partito: il motivo dei contatti diretti tra Matteo Renzi, l'omonimo Salvini e Nicola Zingaretti era lo stesso: «Ma tu lo sai chi sono i tuoi ministri?». Uguali, nella sostanza, le rispettive risposte: «No, e tu?». Solo la condivisione dell'imbarazzo lo ha in parte stemperato: è diventato chiaro che il segretario di partito di Pd, Lega, Fi e Iv era stato in quelle ore lo stesso: Sergio Mattarella. Si potrà a lungo discutere sull'estensione dei poteri del Colle: un governo che ottenga la fiducia delle Camere è comunque legittimato. Ma un esecutivo composto da 15 figure di partito senza indicazione esplicita da parte dei rispettivi capi è una novità anche per la politica italiana.Matteo Salvini ha fatto il suo «all in» su Draghi contando sull'intuizione - giusta - che l'ex capo della Bce, una volta completata la cintura tecnocratica attorno al suo governo, avesse necessità di una sponda solida di centrodestra. Non tanto per una questione di numeri (la «maggioranza Ursula», prima opzione del Pd e forse del Colle, sarebbe bastata) quanto per equilibrio politico. Forse però non si aspettava che le scelte sui nomi, già ristrette dal contesto, fossero in capo al presidente della Repubblica, in un dialogo con il nuovo premier che ha reinventato con discutibile protagonismo l'articolo 92 della Costituzione.Da venerdì sera la scommessa di Salvini si è fatta dunque più difficile ma anche più interessante. Più difficile, perché le scelte di Mattarella paiono cesellate per tentare un'operazione spericolata ai danni del leader leghista. Non è in discussione tanto il rapporto con i vertici del partito dei singoli ministri scelti (il segretario li ha convocati per oggi), quanto la loro appartenenza a una presunta area ritenuta «responsabile» dal punto di vista del Quirinale. Aver aperto a Draghi «senza veti» ha messo Salvini (come Berlusconi, Renzi e in parte pure Zingaretti) nell'obbligo di fare buon viso davanti a scelte altrui: da questo punto di vista, le nomine dei sottosegretari e dei viceministri saranno un tornante più importante del solito per ridare peso e centralità ai segretari di partito. Si consumeranno piccole ma interessanti vendette a vari livelli. E da queste nomine in avanti si capiranno le prospettive della scommessa di Salvini, giocata almeno su due piani. Il primo è europeo. È abbastanza fuori strada chi dipinge, su questo, una spaccatura tra «europeisti» e «sovranisti» nel Carroccio: per quanto ovviamente Giorgetti sia a suo agio al governo con Draghi, chi ha contribuito a portare nel partito il dibattito sulla razionalità della costruzione comunitaria è in realtà aperto all'opzione «Super Mario». Secondo questa interpretazione - peraltro esplicitata «in chiaro» per esempio da Claudio Borghi - l'indubbia dimestichezza dell'ex governatore della Bce può essere l'occasione per dare un'inquadratura laica al tema dello spazio negoziale nel perimetro dell'Unione. Dove fin qui un «europeismo» acritico ha finito per cancellare la categoria stessa dell'interesse nazionale, a differenza di quanto hanno fatto praticamente tutti i nostri partner. Se Draghi darà pragmatismo operativo ad anni di contrapposizioni sterili su «sovranismo», «populismo» e altre astrazioni polarizzanti, si porrà inevitabilmente in attrito con l'egemonia tedesca sul patto di stabilità e le condizioni del Recovery fund, e Salvini potrà dire di non aver sprecato le sue fiches. Il secondo piano è interno. Mattarella pare avere ogni intenzione di tenere in piedi la trincea ideologica un po' fumosa dell'«antisovranismo», proprio al fine di indebolire la leadership del Carroccio. Su cosa si misurerà la presa del leader sui gruppi parlamentari? Durata dell'esecutivo, legge elettorale ed elezioni del Colle. Semplificando un po', la scommessa «interna» di Salvini, aiutato in questo da un partito molto strutturato e verticistico (e dal fatto di averlo pur sempre preso al 3% e portato a ridosso del 30), coincide con un'alleanza di lungo periodo proprio con Mario Draghi. La durata del governo è infatti decisiva per l'incastro istituzionale che porta alla scelta del successore di Sergio Mattarella. Se il nuovo premier davvero lavora al grande salto, dovrà costruire, mentre governa, una base parlamentare (e una norma per votare) che lo porti al Quirinale. Non è detto che l'operazione sia allineata con i desiderata dell'attuale inquilino, anzi. Ma la presenza della Lega nella nuova maggioranza - probabilmente un imprevisto sgradito a molti, forse anche a Mattarella - consegna a Salvini un possibile ruolo di kingmaker (con Fi) e una centralità potenzialmente maggiore rispetto a quando era al governo con Di Maio e soci.Certo, è uno scenario, ovviamente liquefacibile in poche settimane. Siccome la scommessa è ad alto rischio, ce n'è anche uno opposto. Quello in cui la Lega è costretta ad assistere a un rientro del Paese nei vincoli Ue a colpi di tagli e tasse, a tenersi Draghi al governo fino al 2023 e a rieleggere Sergio Mattarella o chi per lui. Del resto, se l'esito fosse certo che scommessa sarebbe?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-scommessa-di-salvini-allearsi-con-mario-2650529125.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-cav-abbozza-pero-mastica-amaro-forza-italia-finisce-in-un-angolo" data-post-id="2650529125" data-published-at="1613247523" data-use-pagination="False"> Il Cav abbozza però mastica amaro. Forza Italia finisce in un angolo Al netto delle dichiarazioni ufficiali, chi ha visto Silvio Berlusconi nelle ultime 24 ore racconta di un Cavaliere «arrabbiato», non solo per il nuovo governo di Mario Draghi, ma anche per «il trattamento ricevuto». Il leader di Forza Italia aveva deciso di spostarsi fino a Roma per incontrare l'ex presidente della Bce, nonostante i medici continuino a consigliargli di stare tranquillo: la caduta accidentale e il ricovero di una notte in clinica non hanno di certo fatto diminuire le preoccupazioni. La nota uscita venerdì sera aveva i toni concilianti. «Forza Italia farà la sua parte: è quello che avevo dichiarato l'altro giorno al termine dell'incontro con il presidente Draghi, e che ripeto volentieri stasera», ha dichiarato Berlusconi, «Accolgo infatti con soddisfazione la nomina a ministri della Repubblica di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, sicuro che si impegneranno con l'abituale dedizione portando un contributo di competenza e di esperienza all'azione dell'intera compagine governativa. Al presidente Draghi e a tutto il governo il più vivo augurio di buon lavoro». Ma la situazione sarebbe molto più complessa. Del resto durante il colloquio tra i due si era parlato soprattutto di Antonio Tajani, considerato in questi ultimi tempi come il braccio destro del Cavaliere. Tanto che venerdì sera, prima che Draghi inforcasse la sua station wagon per recarsi al Quirinale, dentro Forza Italia erano tutti convinti che alla fine i ministri azzurri nel nuovo governo sarebbero stati due, Tajani e il capogruppo al Senato Anna Maria Bernini. Poi però deve essere successo qualcosa. A quanto pare a muoversi sarebbe stato Gianni Letta in persona, in modo da riequilibrare pesi e contrappesi. Da tempo gli azzurri sono divisi in schieramenti. Da una parte ci sono appunto Letta, Mara Carfagna e Renato Brunetta, dall'altra Tajani, Licia Ronzulli, Niccolò Ghedini e la Bernini. Prima che Draghi varcasse il portone del Quirinale, quindi, l'impressione era che il secondo gruppo potesse portare a casa un tranquillo 2 a 0 secco, per dirla in gergo calcistico. Insomma nessuno si aspettava grossi colpi di scena. L'intervento di Letta sarebbe servito a rimettere equilibrio. E anche a tenere dentro il partito Mara Carfagna, data da tempo in uscita da Forza Italia. Quindi mentre la macchina di Draghi parcheggiava, la situazione sul pallottoliere sembrava questa: gli azzurri avrebbero portato a casa due ministeri, con Tajani e la Carfagna. La Bernini sarebbe stata depennata all'ultimo momento, facendo così saltare anche la nomina a capogruppo al Senato della Ronzulli. Ma il risultato non era quello definitivo. A scompaginare il quadro, suggeriscono i bene informati, potrebbe essere subentrata anche la moral suasion del Quirinale, da sempre propenso a una maggioranza Ursula alla amatriciana, con un occhio di riguardo nei confronti dell'ala moderata di Forza Italia. Così dopo la Carfagna ecco spuntare Brunetta come ministro della Pubblica amministrazione nella lista di Draghi. Lo stesso Brunetta che nell'ultimo mese aveva lanciato ramoscelli d'ulivo a Giuseppe Conte, tanto da minacciare persino di votare la fiducia all'avvocato di Volturara Appula. E infine a spuntarla è stata Mariastella Gelmini, come ministro per gli Affari regionali. La Gelmini è considerata un po' fuori dagli schemi, quindi slegata dalle diatribe interne. Sta di fatto che dopo il discorso di Draghi la situazione si è ribaltata. Se il primo gruppo pensava di aver perso 2 a 0, alla fine ha vinto 2 a 1. Il problema adesso sono i troppi nodi da sciogliere sul tappeto. In Forza Italia alla fine nessuno si aspettava un risultato di questo tipo. Anche perché il messaggio che è arrivato al partito non è di sicuro dei migliori. Prima ti lamenti, fai il contro canto e minacci di uscire, poi se tutto va bene alla fine vai a fare il ministro (anche se senza portafoglio, altra nota dolente per il Cav).
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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