
Il fiume di champagne che ha riempito i giornali in festa rischia di annebbiare la mente al governo. Di certo c'è che il cda resterà in mano ai francesi (Stato compreso). Se ci sarà da tagliare, indovinate da dove inizieranno.«Sfida globale». «Sinergia totale». «Qualcosa di speciale». «Grande Alleanza» (con la maiuscola). «Colpo grosso» (minuscolo senza Smaila). «Scelta strategica». «Nuovo colosso». «Sfida all'innovazione». «Nuovi modelli in vista». «Auto del futuro». «Sviluppo per il Paese». Grondano champagne i giornali italiani all'indomani dell'annuncio ufficiale della fusione fra la Peugeot e la Fca, l'ex Fiat. Naturalmente «I mercati festeggiano», «Piazza Affari brinda», «Il titolo vola». E gli eredi degli Agnelli, con le sacocce piene di denari sonanti, vengono immediatamente trasformati nei «Re Mida della Borsa». «John Elkann è un fenomeno», s'entusiasma la stampa di casa nostra. Manca poco alla beatificazione, ma il miracolo c'è già: la moltiplicazione dei dividendi e dei pesci. I quali pesci, come è noto, abboccano che è un piacere.In mezzo a tale ondata di entusiasmo, infatti, rischiano di passare sotto silenzio alcuni dati non insignificanti della sedicente «fusione alla pari». Il primo dei quali è che non si tratta affatto di una «fusione alla pari», ma, in pratica, di un'acquisizione di Fca da parte di Peugeot. L'accordo last minute, siglato dopo il fallimento del precedente tentativo di Fca con Renault, consegna infatti tutte le leve del comando nelle mani dei francesi, a cominciare dal consiglio d'amministrazione che sarà controllato da loro: su undici componenti, infatti, ne avranno cinque (come cinque ne avrà l'ex Fiat), ma l'undicesimo (e dunque ago della bilancia) sapete chi sarà? Ovvio: Carlos Tavares, attuale amministratore delegato di Peugeot. Sei a cinque et voilà, la Tour Eiffel trionferà.Come vendita, sia chiaro, è stata un'ottima vendita. Da questo punto di vista è vero che John Elkann è stato bravo: si è fatto letteralmente coprire d'oro. Le azioni Fca sono state pagate quasi il 30 per cento in più del valore di mercato, ai soci sarà distribuito un extra dividendo da 5,5 miliardi di euro. Le tasche si riempiono, gli azionisti esultano, gli eredi degli Agnelli si gonfiano di soldini come non era mai successo prima, e tutto questo naturalmente è bellissimo. Per loro, ovvio. Ma per noi? Cioè: per l'Italia? Davvero quest'operazione è così entusiasmante? Davvero ci apre un radioso futuro? Il sol dell'avvenire economico? Davvero merita tanto spreco di bollicine effervescenti innaturali, lo stappar degli spumanti, l'eccesso di entusiasmi, le colonne di giornale tutta panna e zucchero? Ho qualche dubbio. Anche perché lo Stato francese, già azionista al 12,2 per cento in Peugeot, sarà azionista con una quota del 6 per cento circa anche nella nuova società. Dunque la situazione è questa: si fondono un'azienda francese, con dentro lo Stato francese, è un'azienda apolide (un po' olandese, un po' inglese, un po' americana) che però di fatto è ancora il primo produttore di automobili in Italia. La maggioranza del Consiglio di amministrazione è dei francesi. Secondo voi, quando si dovranno prendere decisioni importanti (tipo: dove collocare la centrale degli acquisti, da cui dipende tutto l'indotto) che città si sceglierà? Parigi o altro? E quando si dovrà scegliere quali impianti chiudere e quali lavoratori licenziare, chi sarà a piangere? Metz (Francia) o Pomigliano (Italia)?Le dichiarazioni ufficiali garantiscono che nessuno stabilimento sarà chiuso. Ma le dichiarazioni ufficiali nel momento dell'entusiasmo sono sempre state smentite nel giro di qualche anno. E, in ogni caso, nessuna dichiarazione ufficiale garantisce la stabilità dell'occupazione: dei 400.000 lavoratori che attualmente fanno parte dei due gruppi, qualcuno ci rimetterà le penne. Altrimenti com'è che si fanno le famose «sinergie»? Com'è che si fanno i (previsti) risparmi? Da qualche parte bisognerà pure tagliare. Ed è evidente che non taglieranno in Francia.L'ipotesi di un accordo fra Peugeot e ex Fiat, per altro, non è nuova. Era saltata fuori a più riprese negli anni passati. Anche Sergio Marchionne aveva accarezzato l'idea. Ma poi l'aveva accantonata, preferendo altre soluzioni proprio per gli eccessi di sovrapposizioni, per i troppi «stabilimenti fotocopia». Ricorderete inoltre che il precedente accordo di Fca oltralpe, quello con Renault, era stato fatto saltare dal governo francese proprio perché temeva che con la fusione ci fossero posti di lavoro a rischio in Francia. In questo caso, invece, nessun timore. Lo Stato francese, che sta dentro l'azionariato, festeggia. Dunque non vede posti di lavoro a rischio in Francia. Ma, tirando le somme, se fra Fca e Peugeot ci sono stabilimenti fotocopia da chiudere, o da ridurre pesantemente, e questo non accadrà in Francia, secondo voi, dove accadrà?La risposta non è difficile. In Italia, mettendo tutto insieme, sono rimasti i brandelli di una dozzina di stabilimenti ex Fiat. Chi ci lavora, ovviamente, chiede protezione. Ma la differenza è che lo Stato francese è nell'azionariato del nuovo colosso. Quello italiano, invece, non c'è. Non c'è nell'azionariato del nuovo colosso. Ma non solo lì. Lo Stato italiano non c'è proprio. In queste occasioni non c'è mai. Quando si tratta di difendere le nostre aziende, il nostro patrimonio, i nostri lavoratori, noi siamo campioni della latitanza. E così, dopo aver dato, per anni, soldi alla Fiat, la nostra politica guarda l'ultimo passaggio della resa industriale del Paese con lo stesso sguardo catatonico con cui ha accompagnato i passaggi precedenti. Non pervenuta. L'unico commento del premier Conte, avvertito a giochi fatti, è che questa nuova società «porterà economia di scala con risparmio dei progettati investimenti con particolare riguardo allo sviluppo delle auto elettriche». Ma certo: evviva evviva. Evviva le auto elettriche. Evviva le economie di scala. Ed evviva gli eredi Agnelli con le tasche piene di soldi. Siamo tutti felici: le Borse festeggiano, gli azionisti pure. Gli operai un po' meno. Ma a chi importa?
Bill Gates (Ansa)
Dalla Cop30 in Brasile i prelati lanciano un appello per la «conversione ecologica». Una linea cieca, a scapito dei credenti che cercano in Dio il mistero del sacro.
Ora anche Bill Gates cambia direzione sulla questione green e molti altri statunitensi importanti, anche a causa del crollo del mercato automobilistico, con un ritardo che solo dei testardi hanno potuto accumulare, si accorgono che andare dietro a un’ideologia senza fare di conto porta nel baratro. L’ideologia green produce leggi e regolamenti che non sono sostenibili, così come erano stati pensati, in particolare dell’Unione Europea, né dalle famiglie (vedi norme sulla casa con costi fra i 60 e i 70.000 euro ad abitazione), né dalle imprese (vedi per tutti quella automobilistiche con quella follia dell’auto elettrica). Se è arrivato a dirlo Bill Gates, il capitalista più stucchevolmente ideologizzato ma sempre con la mano sul portafoglio (per verificare se l’ideologia gli conviene o no), vuol dire che siamo al capolinea.
Donald Trump (Ansa)
L’emittente britannica insulta l’intelligenza del pubblico sostenendo che ha taroccato il discorso di Donald «senza malizia». Infatti si scusa ma respinge la richiesta di risarcimento per diffamazione. Nigel Farage: «Ora saremo noi a dover controllare loro».
«Involontariamente». Il numero uno della centenaria Bbc si aggrappa a un avverbio per non precipitare dall’ottavo piano della Broadcasting House di Londra con il peso di un miliardo di dollari sulle spalle, come da richiesta di risarcimento da parte di Donald Trump. «Unintentionally» è la parolina-paracadute consigliata dalla batteria di legali al presidente Samir Shah, 73 anni di origine indiana, nel tentativo di aiutarlo a ritrovare il sonno e a togliersi dall’angolo dopo lo scandalo del «taglia-e-cuce». Un crollo di credibilità per la storica emittente pubblica, piazzata nel quartiere di Westminster per controllare il potere ma finita nella battutaccia di Nigel Farage: «Ora saremo noi a dover controllare loro».
Sanae Takaichi (Ansa)
Scintille per Taiwan. Il premier giapponese rivendica pace e stabilità nell’isola: «In caso di attacco, reagiremo». Ira del governo cinese: convocato l’ambasciatore.
La tensione tra Cina e Giappone è tornata a livelli di allerta dopo una settimana segnata da scambi durissimi, affondi retorici e richiami diplomatici incrociati. Pechino ha infatti avvertito Tokyo del rischio di una «sconfitta militare devastante» qualora il governo giapponese decidesse di intervenire con la forza nella crisi di Taiwan, accompagnando il monito con un invito ufficiale ai cittadini cinesi a evitare viaggi in Giappone «nel prossimo futuro».
Donald Trump (Getty Images)
Washington avvia l’operazione «Lancia del Sud» contro i traffici di droga: portaerei nel mar dei Caraibi. Maduro: «No ad altre guerre». Trump insiste per riaffermare il dominio nella regione scacciando Pechino.
Donald Trump è sempre più intenzionato a rilanciare la Dottrina Monroe: il presidente americano punta infatti ad arginare l’influenza della Cina sull’Emisfero occidentale. È dunque anche in quest’ottica che, l’altro ieri, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, ha annunciato un’operazione militare che riguarderà l’America Latina. «Il presidente Trump ha ordinato l’azione e il Dipartimento della Guerra sta dando seguito alle sue richieste. Oggi annuncio l’operazione Lancia del Sud», ha dichiarato.






