2021-12-16
La rivoluzione dell’Nba a suon di «triple»
Stephen Curry ha battuto il record di tiri da tre che durava da un decennio. Ma oltre la statistica c’è un giocatore che ha costretto a cambiare il modo di giocare in difesa: con lui, il pericolo arriva appena oltre la metà campo. Si può dominare senza schiacciare.«Ti arresti un attimo su una moneta, raddrizzi le spalle e poi spari». Era la frase culto di Reggie Miller, detto il killer, pazzesco tiratore degli Indiana Pacers nell’era di Michael Jordan. Fosse facile, ci provano in migliaia tutti i giorni ma quella moneta è troppo grande, quelle spalle troppo storte e il tiro spadella sul ferro. È il segreto della tripla perfetta, la sentenza da tre punti su una partita di basket al fotofinish, la parabola divina che comincia quando lasci il pallone dai polpastrelli e finisce quando lo Spalding (oggi il Wilson) entra nella pentola d’oro in fondo al canestro. Solo rete. Ieri Stephen Curry, che aveva il poster di Miller in camera, è diventato il più grande tiratore di sempre.Al Madison Square Garden, arena perfetta per raggiungere l’immortalità dei numeri, ha raggiunto le 2.977 triple in 789 partite Nba durante la sfida fra i suoi Golden State Warriors e i New York Knicks. Un primato atteso da tecnici e statistici, qualcosa che da impersonale diventa speciale, perfino umano perché appartiene a un fuoriclasse di 33 anni col sorriso del ragazzino e la testa da persona seria. Non è semplice distinguersi per umiltà e senso del reale nel serraglio americano dello sport. Curry ha segnato la tripla del sorpasso mentre dalla tribuna lo osservava Ray Allen - il circo della Nba tutto prevede e tutto organizza -, che da dieci anni deteneva il record (2.973 triple) e aveva impiegato però 1.300 partite a metterlo insieme. Altro charme, altra profondità di cultura black: lui era stato Jesus, protagonista del film He got game girato da Spike Lee per rappresentare tutti i reietti delle periferie, in bilico fra un arresto e tiro e un arresto per spaccio.Che Curry fosse fenomenale lo si sapeva da anni. Con i Golden State di San Francisco ha vinto tre titoli, ha fatto impazzire ogni difesa per un decennio, ha segnato 62 punti in una partita ed è considerato l’11º miglior giocatore di pallacanestro della storia. Figlio d’arte - il papà Dell a sua volta tiratore gli ha insegnato il mestiere -, è nato ad Akron nell’Ohio, nella stessa città, nello stesso ospedale e con la stessa ostetrica di LeBron James. Coincidenze da romanzo ma ovviamente non bastano. Ironico e amante dell’understatement, a chi gli chiede quale sia il suo segreto risponde da due giorni: «Gli infortuni. Ne ho avuti parecchi, l’anno scorso sono stato fermo per una frattura a una mano. Ho imparato a riflettere, a studiare, ad allenarmi anche da seduto. Ho imparato soprattutto ad entrare in sintonia con me stesso e con la cadenza del respiro. La tripla non è forza, non è precisione. È ritmo».Sente la musica. Sembra un jazzista, un sassofonista di un metro e 88 che non si limita a togliere dai guai i compagni quando la palla scotta. Curry è un rivoluzionario, ha costretto tutte le squadre a cambiare gioco, ad allargare le difese oltre l’area pitturata. «Quando lui ha la palla, anche a metà campo, per gli avversari deve suonare il campanello d’allarme», spiega Reggie Miller, quello del poster. Eppure non è un gigante. Forse è questo il motivo principale dell’esultanza planetaria: la rivincita dell’uomo normale, del normotipo capace di farsi beffe dei superman da schiacciata.Steph è una guardia che gioca divinamente da play, fa muovere la squadra, pensa l’azione e la chiude. E tu non sai mai se lo farà entrando in area «con la moto» o tirando in faccia al difensore da dieci metri. A plasmarlo così è stato il coach Steve Kerr, sublime tiratore della banda Jordan ai Chicago Bulls, l’antesignano di Curry degli anni Novanta. Con un distinguo. Allora i cecchini sapevano solo segnare, difendevano male e non si abbassavano ad aiutare i compagni. Phil Jackson, l’allenatore filosofo dei Bulls, nelle finali Nba contro gli Utah Jazz utilizzava Toni Kukoc nelle azioni d’attacco e Dennis Rodman in quelle difensive. «Era frustrante, fui costretto ad andare dallo psicanalista», rivelò Kukoc. Curry è un’entità divina nata dalla fusione di John Stockton con Ray Allen.«Non importa se quello di fianco a me è più alto, più grosso o più veloce. Se ho la passione, se ho il cuore di sfidarlo, il più delle volte sono io a vincere», spiega lui con la dinamite nei polpacci. «So di non essere perfetto ma provo a seguire degli esempi sempre più alti. A volte finisco una partita con statistiche incredibili, ma la prima cosa che vado a guardare è il numero delle palle perse. Più di tre non va bene». Per non sbagliarci di fronte ai record circensi, carattere e umiltà contano più delle triple. Perché la bellezza non è nel «ciapa e tira», come dicono nel triangolo delle Bermude Milano-Varese-Cantù dove masticano basket da un secolo. Ha ragione Gianluca Basile, l’immaginifico cecchino di Ruvo di Puglia che definiva le triple «tiri ignoranti». Esagerava. Si allenava per ore, e sulla sirena ne ha fatti piangere tanti. Eurolega 2011, Bilbao-Cantù (64-64), ultimo secondo: lui si alza come Curry da casa sua, salta su una moneta, non raddrizza le spalle e spara. Un giornale spagnolo il giorno dopo titola: «El balon volò. Y entrò».