«Ti arresti un attimo su una moneta, raddrizzi le spalle e poi spari». Era la frase culto di Reggie Miller, detto il killer, pazzesco tiratore degli Indiana Pacers nell’era di Michael Jordan. Fosse facile, ci provano in migliaia tutti i giorni ma quella moneta è troppo grande, quelle spalle troppo storte e il tiro spadella sul ferro. È il segreto della tripla perfetta, la sentenza da tre punti su una partita di basket al fotofinish, la parabola divina che comincia quando lasci il pallone dai polpastrelli e finisce quando lo Spalding (oggi il Wilson) entra nella pentola d’oro in fondo al canestro. Solo rete. Ieri Stephen Curry, che aveva il poster di Miller in camera, è diventato il più grande tiratore di sempre.
Al Madison Square Garden, arena perfetta per raggiungere l’immortalità dei numeri, ha raggiunto le 2.977 triple in 789 partite Nba durante la sfida fra i suoi Golden State Warriors e i New York Knicks. Un primato atteso da tecnici e statistici, qualcosa che da impersonale diventa speciale, perfino umano perché appartiene a un fuoriclasse di 33 anni col sorriso del ragazzino e la testa da persona seria. Non è semplice distinguersi per umiltà e senso del reale nel serraglio americano dello sport. Curry ha segnato la tripla del sorpasso mentre dalla tribuna lo osservava Ray Allen - il circo della Nba tutto prevede e tutto organizza -, che da dieci anni deteneva il record (2.973 triple) e aveva impiegato però 1.300 partite a metterlo insieme. Altro charme, altra profondità di cultura black: lui era stato Jesus, protagonista del film He got game girato da Spike Lee per rappresentare tutti i reietti delle periferie, in bilico fra un arresto e tiro e un arresto per spaccio.
Che Curry fosse fenomenale lo si sapeva da anni. Con i Golden State di San Francisco ha vinto tre titoli, ha fatto impazzire ogni difesa per un decennio, ha segnato 62 punti in una partita ed è considerato l’11º miglior giocatore di pallacanestro della storia. Figlio d’arte - il papà Dell a sua volta tiratore gli ha insegnato il mestiere -, è nato ad Akron nell’Ohio, nella stessa città, nello stesso ospedale e con la stessa ostetrica di LeBron James. Coincidenze da romanzo ma ovviamente non bastano. Ironico e amante dell’understatement, a chi gli chiede quale sia il suo segreto risponde da due giorni: «Gli infortuni. Ne ho avuti parecchi, l’anno scorso sono stato fermo per una frattura a una mano. Ho imparato a riflettere, a studiare, ad allenarmi anche da seduto. Ho imparato soprattutto ad entrare in sintonia con me stesso e con la cadenza del respiro. La tripla non è forza, non è precisione. È ritmo».
Sente la musica. Sembra un jazzista, un sassofonista di un metro e 88 che non si limita a togliere dai guai i compagni quando la palla scotta. Curry è un rivoluzionario, ha costretto tutte le squadre a cambiare gioco, ad allargare le difese oltre l’area pitturata. «Quando lui ha la palla, anche a metà campo, per gli avversari deve suonare il campanello d’allarme», spiega Reggie Miller, quello del poster. Eppure non è un gigante. Forse è questo il motivo principale dell’esultanza planetaria: la rivincita dell’uomo normale, del normotipo capace di farsi beffe dei superman da schiacciata.
Steph è una guardia che gioca divinamente da play, fa muovere la squadra, pensa l’azione e la chiude. E tu non sai mai se lo farà entrando in area «con la moto» o tirando in faccia al difensore da dieci metri. A plasmarlo così è stato il coach Steve Kerr, sublime tiratore della banda Jordan ai Chicago Bulls, l’antesignano di Curry degli anni Novanta. Con un distinguo. Allora i cecchini sapevano solo segnare, difendevano male e non si abbassavano ad aiutare i compagni. Phil Jackson, l’allenatore filosofo dei Bulls, nelle finali Nba contro gli Utah Jazz utilizzava Toni Kukoc nelle azioni d’attacco e Dennis Rodman in quelle difensive. «Era frustrante, fui costretto ad andare dallo psicanalista», rivelò Kukoc. Curry è un’entità divina nata dalla fusione di John Stockton con Ray Allen.
«Non importa se quello di fianco a me è più alto, più grosso o più veloce. Se ho la passione, se ho il cuore di sfidarlo, il più delle volte sono io a vincere», spiega lui con la dinamite nei polpacci. «So di non essere perfetto ma provo a seguire degli esempi sempre più alti. A volte finisco una partita con statistiche incredibili, ma la prima cosa che vado a guardare è il numero delle palle perse. Più di tre non va bene». Per non sbagliarci di fronte ai record circensi, carattere e umiltà contano più delle triple. Perché la bellezza non è nel «ciapa e tira», come dicono nel triangolo delle Bermude Milano-Varese-Cantù dove masticano basket da un secolo.
Ha ragione Gianluca Basile, l’immaginifico cecchino di Ruvo di Puglia che definiva le triple «tiri ignoranti». Esagerava. Si allenava per ore, e sulla sirena ne ha fatti piangere tanti. Eurolega 2011, Bilbao-Cantù (64-64), ultimo secondo: lui si alza come Curry da casa sua, salta su una moneta, non raddrizza le spalle e spara. Un giornale spagnolo il giorno dopo titola: «El balon volò. Y entrò».


