2022-06-09
La realtà è complessa, ma chi lo dice finisce nel mirino della neo-tirannide
Jacob Burckhardt, storico svizzero dell'Ottocento (wikipedia)
Ciò che sembrerebbe una banalità, ovvero che il reale non è bianco e nero, è il tabù della società in cui viviamo. Un sistema alimentato a slogan e ostile ai distinguo, in cui ogni lettura disallineata al canone è messa al bando.Uno degli aspetti più piacevoli dell’esprimersi pubblicamente su un giornale o altro mezzo di informazione consiste nel ricevere messaggi, suggestioni e anche critiche da lettori o spettatori intelligenti, trasformando quello che altrimenti sarebbe un soliloquio (o un vaniloquio) in una conversazione in cui tutti hanno da imparare. L’esempio più recente di questa fortuna mi è capitato quando ho ricevuto un email dal collega Paolo Diodati, a me in precedenza ignoto, professore ordinario di fisica sperimentale e applicata all’Università degli Studi di Perugia. Paolo mi segnalava una frase pronunciata da Giorgio Parisi, in marzo, in un suo discorso all’Accademia dei Lincei, che, nel susseguirsi di peana in onore di Parisi (vincitore, come è noto, del Premio Nobel per la fisica 2021), era passata secondo lui nel totale silenzio dei commentatori mainstream.La frase era questa: «Vorrei concludere prendendo spunto da quello che scrive il mio amico Imre Kondor, asserendo che “la perdita della complessità è pericolosa”» e «ricordare il monito attribuito al grande storico ottocentesco, Jacob Burckhardt, che ha studiato a fondo i processi politici e sociali: “La negazione della complessità è l’essenza della tirannia”». Imre Kondor è un fisico ungherese, quindi non stupisce che Parisi ne sia amico e lo citi; più sorprendente è forse il riferimento a Burckhardt, al quale tornerò in seguito. Ora vediamo di capire il senso della frase. Che cosa vuole un tiranno? La fedeltà assoluta dei propri sudditi. Vuole sapere chi è con lui, senza «se» e senza «ma». Il suo potere non ha fondamenta ragionevoli (se le avesse, non sarebbe un tiranno), quindi nulla lo disturba di più di chi solleva distinzioni e complicazioni, possibile preludio a obiezioni. Lo disturba, in altre parole, il pensiero, che non può evitare, se attivato, di rendersi conto della complessità del reale, dei pro e dei contro presenti in ogni situazione e in ogni scelta: lasciare che il pensiero faccia il suo corso, che si articoli in un ragionamento, avrebbe come esito inevitabile la constatazione che non ci sono, appunto, buone ragioni per il suo potere. Meglio allora il corto circuito di uno slogan; meglio epiteti secchi e succinti per qualificare gli avversari; meglio una rappresentazione del mondo, e dell’ambiente sociale, in cui non esistono sfumature di grigio ma solo un bianco e un nero altrettanto lampanti.Se questo, dunque, è quel che vuole il tiranno allora chi destruttura il discorso comune, chi lo riduce alla ripetizione ossessiva di sentenze tautologiche, chi non accetta distinzioni ma pretende deferenza indiscriminata a ben precisi valori e princìpi, se non è già al servizio di un tiranno, sta però preparando il terreno, il brodo di coltura dal quale emergeranno futuri tiranni, che sarebbero invece contrastati e scoraggiati da posizioni più articolate, da dibattiti più ampi e profondi, da analisi che tentino di fare giustizia alle infinite sfumature della realtà.La preparazione di questo terreno è in atto, in Italia, da lungo tempo: le sguaiataggini populiste che hanno caratterizzato la nostra politica negli ultimi 30 anni sono la naturale conseguenza di una cultura e un’informazione ridotte a tragiche caricature, e il processo è proseguito a valanga, con leader sguaiati che favorivano un’informazione e una cultura più caricaturali, che a loro volta favorivano l’emergere di leader ancora più sguaiati. Quando si è oltrepassata una certa soglia, su questo terreno a essa propizio si è installata la dittatura, e l’orrore per la complessità è arrivato al parossismo. Che si parli di pandemia o di guerra in Ucraina, chiunque cerchi di fare distinzioni o mettere in luce complicazioni è un no vax o un agente di Putin: va disprezzato e, quel che più conta ai fini della tirannia, ostracizzato, non ascoltato. Socrate fu condannato a morte dalla democrazia populista di Atene con l’accusa di corrompere i giovani. Che cosa voleva dire, per i suoi accusatori, che li corrompesse? Che sollevava distinzioni; che creava complicazioni; che li invitava a pensare. E veniamo a Burckhardt; chi era costui? Uno studioso svizzero vissuto fra il 1818 e il 1897, noto soprattutto per le sue ricerche e i suoi libri sul Rinascimento italiano. Qual è la sua principale eredità? Che, nonostante si occupasse in primo luogo di storia dell’arte, giudicava necessario, per capire un periodo storico, esaminarlo da ogni prospettiva: studiarne non solo la pittura, scultura e architettura ma anche le istituzioni sociali e la vita quotidiana. Uno studio complesso e impegnativo, che non si può liquidare con una battuta; ma complessità e impegno sono inevitabili se si vuole davvero capire qualcosa. Se, invece, non si vuole capire, se quel che vogliamo è semplificarci la vita, una battuta è tutto quel che ci serve. Salvo che, siccome la vita è complessa e i tiranni non hanno la facoltà di modificarne la natura, un giorno presenterà il conto, a loro e a quanti hanno fatto il loro gioco.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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