
Sana e curativa, da quando è giunta in Italia nel Medioevo ci fa litigare per la paternità del piatto che l'ha resa famosa.Recita un motto popolare che ha anche la versione tarantina: «La melanzana non mangiarla se non sei sano». Nella città pugliese dal cui toponimo derivano i sostantivi «tarantella», «tarantismo» e «tarantola» il proverbio diventa, appunto, «'A marangianə no tt'a mangia' cə no ssi' sanə» e la spiegazione del monito, che in senso figurato consiglia di non fare il passo più lungo della gamba, sta nel contenuto di solanina della melanzana. La Solanum melongena, questo è il suo nome botanico, è il frutto commestibile della pianta angiosperma (cioè coi semi nel frutto) dicotiledone (cioè col seme suddiviso in due cotiledoni) della famiglia delle Solanaceae come patata, pomodoro, peperoncino, tabacco. Si tratta della versione addomesticata in Asia della specie selvatica Solanum incanum: i primi esemplari importati dall'Oriente nel nostro Occidente erano lievemente tossici, avendo un contenuto di solanina superiore a quello odierno, e perciò si consigliava di non mangiarli se già non si era in forma. La solanina dell'attuale melanzana non deve destare estrema preoccupazione: nella melanzana cruda, il contenuto in solanine (α-solanina, solasonina e solamargina) è pari a 9-13 mg per 100 g, meno della metà del valore considerato accettabile per gli ortaggi cioè 20-25 mg per 100 g. Per intossicarsi col glicoalcaloide che la pianta sviluppa per proteggersi da funghi e parassiti bisognerebbe assumere 2-4 chili di melanzane crude, tuttavia è consigliabile consumare sempre e solo melanzane cotte, perché un'intossicazione anche minima può creare sgradevoli disturbi gastrointestinali (già la cottura a meno di 243 °C, temperatura a partire dalla quale la solanina degrada completamente, non la elimina del tutto, quindi evitiamo di aggravare la cosa col consumo a crudo).Dicevamo delle prime melanzane che giungono in Europa con più solanina di oggi: nonostante fossero conosciute fin dalla preistoria in Asia, troviamo la prima citazione scritta della melanzana nell'antica guida cinese all'agricoltura dell'anno 544 Qimin Yaoshu, le melanzane giungono da noi nel Medioevo per il tramite arabo di mercanti mediorientali che le introducono prima in Italia e in Spagna e poi nel resto d'Europa. Proprio come accade per altre piante, anche solanacee come il pomodoro, le melanzane non diventano subito una tipica coltura alimentare europea, in primo luogo perché le si riteneva velenose oppure afrodisiache, erano cioè percepite come pianta più medicinale che alimentare. Rappresentate per la prima volta nel manoscritto miniato italiano del XIV secolo Il libro de casa Cerruti, divennero vere e proprie protagoniste della cucina solo quando lo diventò anche il pomodoro (che, importato in Europa dopo la scoperta dell'America, si è affermato come alimento prima in Italia e poi nel resto d'Europa solo nel XVIII secolo).Molte ipotesi sulle origini della ricetta italiana per eccellenza con le melanzane, cioè quelle melanzane alla parmigiana diffuse innanzitutto in Sicilia, Calabria e Campania e dal sud assurte a piatto a diffusione nazionale, datano la nascita del piatto tra XVII e XVIII secolo, in convergenza, appunto, con l'exploit del pomodoro. Poiché è arrivata nel Mediterraneo ben dopo l'epoca degli antichi greci e romani, il suo nome non ha etimologia latina o ellenica e deriva direttamente dall'arabo bādingiān: «petonciana», «petonciano» o anche «petronciano» sono i primi nomi italiani, ora in uso soltanto in Sicilia.Per evitare fraintendimenti sulle sue proprietà, che potevano nascere dall'interpretazione di «peto» come suffisso (che in realtà non è), si sostituirono quelle due sillabe con mela: la «petonciana» diventò «melanciana» e poi melanzana, che, per paraetimologia, venne anche interpretata come «mela non sana» (il riferimento è alla difficile digestione da cruda della melanzana d'un tempo). Nel resto d'Europa il nome deriva dall'arabo con l'articolo al-bādhingiān che in Catalogna diventa albergínia, in Francia e Germania aubergine, in Spagna berenjena e alberengena, in Portogallo bringella, mentre il nome anglosassone eggplant cioè «pianta delle uova» si spiega con le cultivar bianche, che in effetti paiono uova bianche di gallina, e poi dà vita all'islandese eggaldin e al gallese planhigyn wy. Un po' scherzando, potremmo dire che la melanzana presenta la forma di una grossa pillola e in effetti si comporta come un vero e proprio ricostituente multivitaminico minerale, tanto che i vegani, complice anche la struttura ampia e spugnosa che permette di farne «filetti», la concepiscono come una bistecca vegetale. Tale, ovviamente, non è, però è vero che un etto di melanzana contiene innanzitutto ben 184 mg di potassio, 33 mg di fosforo e 26 mg di sodio.Il potassio è un importantissimo sale minerale, coinvolto in vari processi fisiologici come la contrazione muscolare, l'equilibrio idrosalino e la regolazione della pressione arteriosa, il fosforo è necessario per il metabolismo energetico delle cellule e la costruzione delle proteine e il sodio, col quale non bisogna esagerare, perché un eccesso alza la pressione arteriosa, aumenta la glicemia e la ritenzione idrica (la Rda consigliata è massimo 2 g al giorno e la melanzana non rischia certamente di esaurirla, però salatela poco), ma nemmeno è da evitare perché il sodio è di aiuto nei dolori reumatici, contrasta i crampi muscolari e aiuta il sistema nervoso centrale. Poi abbiamo l'acido folico o vitamina B9, utile in particolare alle donne in gravidanza, la cui carenza rallenta la sintesi del Dna e la divisione cellulare, può creare problemi alla spina dorsale e provoca diverse forme di anemia.Sempre contro l'anemia abbiamo il ferro (0,2 mg) e la vitamina C (2,2 mg). Quest'ultima è un antiossidante fondamentale per il sistema immunitario, per la sintesi del collagene e per l'assimilazione del ferro da parte dei globuli rossi, inoltre aiuta - come anche le vitamine del gruppo B che la melanzana contiene in buona quantità - la sintesi della serotonina, l'ormone del buonumore con valenza antidepressiva. Le melanzane aiutano anche la salute del cuore: soprattutto le varietà con buccia di colore viola scuro sono molto ricche di polifenoli, di acidi clorogenico e caffeico e di flavonoidi come la nasunina che proteggono il cuore dallo stress ossidativo causato dai radicali liberi (perciò conviene mangiarle sempre con la buccia). Si tratta di antiossidanti organici, con proprietà anche antivirali e antibatteriche, non molto noti, ma capaci di combattere con un certo vigore i radicali liberi. L'antiossidante acido clorogenico rallenta anche il rilascio di glucosio nel flusso sanguigno dopo un pasto, quindi la melanzana, col suo indice glicemico 20 che la fa appartenere ai cibi a basso indice glicemico, può essere tranquillamente mangiata anche da chi ha problemi di diabete. Coi suoi 6 g di carboidrati per 100 g, suddivisi in 3 di fibre alimentari e 3 di zuccheri, la melanzana è considerata anche un ortaggio decisamente detox e genericamente antitumorale perché le fibre ripuliscono l'intestino da scorie e tossine.Sempre grazie all'alto tasso di fibre stimola la motilità intestinale ed è di aiuto nelle diete, saziando bene e velocemente, soprattutto se cotta al forno, alla griglia, al vapore, insomma in preparazioni che non la vedano fritta. La sua struttura spugnosa, infatti, determina un rilevante assorbimento di grassi che, se si è nel corso di una dieta dimagrante, non sono i benvenuti se sono in eccesso. Le melanzane non contengono grassi e anzi il loro consumo abbassa il tasso di colesterolemia. Con sole 25 calorie ogni 100 grammi, sono perfette per chi vuole restare leggero.Nel 2019 abbiamo raccolto 2.192.492 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 813.666 quintali in serra per un totale di 3.006.158 quintali di melanzane italiane. Rispetto al 2018 (2.200.598 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 782.536 quintali in serra, totale 2.983.184) abbiamo registrato un piccolo aumento produttivo e un aumento della coltivazione in serra a discapito di quella in piena aria, leggermente diminuita. La Sicilia, da sola, copre un terzo della produzione italiana di melanzane e, a livello di classifica, noi italiani ci posizioniamo come noni produttori al mondo (dopo Cina, India, Egitto, Turchia, Iran, Indonesia, Iraq e Giappone) e come primi in Europa, seguiti da Spagna e Romania. Occorre però fare molta attenzione agli accordi commerciali tra Unione europea e paesi del nord Africa e all'incremento della produzione e dell'esportazione non solo africane ma anche spagnole, che per noi rappresentano una minaccia: compriamo sempre - facciamoci attenzione - melanzane italiane, soprattutto adesso che sono nel cuore della raccolta della coltivazione in pieno campo. Le varietà italiane di questo frutto della terra estiva sono tante: la «Violetta lunga palermitana», col frutto lungo e scuro, la «Violetta lunga delle cascine» col frutto violetto; la «Violetta nana precoce», piccolina, la «melanzana di Murcia» con foglie e fusto spinosi e il frutto violetto e rotondo, la «Tonda comune di Firenze», con frutto violetto pallido, ibrida e con pochi semi e la polpa tenera e compatta, la «melanzana bianca» e poi la «melanzana rossa Dop» di Rotonda (provincia di Potenza), con forma e colore simili al pomodoro, polpa fruttata e sapore leggermente piccante (è la Solanum aethiopicum, un'altra specie probabilmente importata in Italia dai reduci delle guerre coloniali della fine del XIX secolo e recentemente recuperata grazie al presidio slow food e il riconoscimento del marchio Dop, il suo nome lucano è merlingiana a pummadora). Un piccolo trucco per riconoscere la freschezza della melanzana, al di là della specie o della coltivazione, è la durezza. Più la melanzana è dura (caratteristica che in altri casi può indicare acerbità), più è fresca.
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?
Federica Picchi (Ansa)
Il sottosegretario di Fratelli d’Italia è stato sfiduciato per aver condiviso un post della Casa Bianca sull’eccesso di vaccinazioni nei bimbi. Più che la reazione dei compagni, stupiscono i 20 voti a favore tra azzurri e leghisti.
Al Pirellone martedì pomeriggio è andata in scena una vergognosa farsa. Per aver condiviso a settembre, nelle storie di Instagram (che dopo 24 ore spariscono), un video della Casa Bianca di pochi minuti, è stata sfiduciata la sottosegretaria allo Sport Federica Picchi, in quota Fratelli d’Italia. A far sobbalzare lorsignori consiglieri non è stato il proclama terroristico di un lupo solitario o una sequela di insulti al governo della Lombardia, bensì una riflessione del presidente americano Donald Trump sull’eccessiva somministrazione di vaccini ai bambini piccoli. Nessuno, peraltro, ha visto quel video ripostato da Picchi, come hanno confermato gli stessi eletti al Pirellone, eppure è stata montata ad arte la storia grottesca di un Consiglio regionale vilipeso e infangato.
Jannik Sinner (Ansa)
Alle Atp Finals di Torino, in programma dal 9 al 16 novembre, il campione in carica Jannik Sinner trova Zverev, Shelton e uno tra Musetti e Auger-Aliassime. Nel gruppo opposto Alcaraz e Djokovic: il duello per il numero 1 mondiale passa dall'Inalpi Arena.
Il 24enne di Sesto Pusteria, campione in carica e in corsa per chiudere l’anno da numero 1 al mondo, è stato inserito nel gruppo Bjorn Borg insieme ad Alexander Zverev, Ben Shelton e uno tra Felix Auger-Aliassime e Lorenzo Musetti. Il toscano, infatti, saprà soltanto dopo l’Atp 250 di Atene - in corso in questi giorni in Grecia - se riuscirà a strappare l’ultimo pass utile per entrare nel tabellone principale o se resterà la prima riserva.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Negli anni Dieci del secolo XX il fisiologo triestino Amedeo Herlitzka sperimentò a Torino le prime apparecchiature per l'addestramento dei piloti, simulando da terra le condizioni del volo.
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Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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