
Chanel lancia prodotti di make up per ragazzi, Marc Jacobs invita i maschi a usare lo smalto per unghie, sul Web spopolano i tutorial dei «boy beauty». Con la scusa della parità, si crea un ricco mercato.Nasce da Chanel la nuova linea di make up per uomini «Boy de Chanel»: già in vendita in Corea, qui sarà disponibile online da novembre, nei negozi da gennaio e permetterà a tutti i maschi di comperare il fondotinta «Le Teint», a scelta tra otto tonalità di incarnato, il balsamo labbra incolore e opaco «Le Baume Lèvres» e la matita per sopracciglia «Le Stylo Sourcils», dotata da una parte di mina e dall'altra di spazzolina per pettinare e definire dopo la colorazione. Non ci stupiamo. Il «trucco e parrucco» maschile vanta una storica tradizione. Nell'antico Egitto anche i maschi davano agli occhi una forma a mandorla con la polvere di kohl; nel Settecento francese si incipriavano il viso per sbiancarlo; in India il kajal viene usato da donne, uomini e perfino bambini, intorno agli occhi e per disegnare il terzo occhio sulla fronte o sulla nuca. Si truccano gli attori teatrali e cinematografici, lo fanno gli ospiti dei programmi tv e i cantanti, e tutti conosciamo l'abitudine di Silvio Berlusconi di usare il fondotinta in pubblico. Normalmente gli uomini usano creme per la pelle, lacche, gel e spume per capelli e quelli che non si piacciono con i capelli bianchi se li tingono (e spesso fanno bene). Gli uomini fanno anche la manicure e la pedicure, esistono specifici smalti incolore opachi, i nails for males, che proteggono e rafforzano le unghie, e si depilano. C'è qualcosa di bello nell'animo dell'uomo che ha a cuore il suo aspetto fisico. Ma la questione del make up per uomini è un po' diversa. Viene presentata come un «diritto» del maschio in cerca di parità di genere e, soprattutto, come empirica manifestazione di quella fluidità sessuale che ossessiona il popolo progressista e quello arcobaleno. Sul sito italiano di Vogue, infatti, la nuova linea Chanel è stata annunciata come placet della maison al genderless: «Fondotinta, balsamo e matita sopracciglia: con tre trucchi pensati per lui Chanel supera (di nuovo) il concetto di bellezza di genere». La posizione di Vogue è naturalmente entusiastica per quello che viene definito il «de-gendered make-up», cioè una concezione di trucco senza distinzione di genere, per donna come per uomo eterosessuale e soprattutto gay. Non è la prima volta che il mondo arcobaleno pianta l'asta sul trucco maschile come se lo avesse inventato dal nulla. Nel 2008 Jean Paul Gaultier, noto stilista gay, lanciò la linea di make up «Monsieur»: accanto a detergenti, tonificanti e prodotti per la per barba c'erano il copriocchiaie, l'abbronzante, il gel per sopracciglia e l'eyeliner, presto ribattezzato guyliner (liner per ragazzo) e gayliner (liner per gay). Anche Marc Jacobs conduce da un po' una battaglia sui social network per la «Male polish revolution» (la rivoluzione dello smalto per uomo), che lo vede sfoggiare colori come rosso, nero e rougenoire sulle unghie delle mani. La vulgata progressista le racconta come «rivoluzioni» che parificherebbero maschio e femmina eterosessuali, ma la trazione vera è quella Lgbt. Gli attivisti arcobaleno, infatti, sono i più interessati all'affermazione del «gender fluid». A chiudere il cerchio della lotta gay che passa per il «diritto maschile al maquillage femminile» sono i cosiddetti «boy beauty». Hanno dai quindici ai vent'anni, si truccano come Moira Orfei e sono il risultato di decadi di campagne pubbliche sempre più vigorose sull'abolizione delle differenze tra i sessi come nuova frontiera di una società progredita. Tutti i boy beauty hanno lunghe unghie laccate in colori e nail art tipicamente femminili e caricano sui propri profili social tutorial che imitano in tutto e per tutto quelli realizzati da esperte di trucco donne come Clio make up. Forti del numero di visualizzazioni e follower talvolta straordinario, il loro obiettivo è, in fondo, quello di diventare testimonial commerciali: molti vengono assoldati dalle case cosmetiche come icone per il nuovo mercato Lgbt. La prima azienda è stata Covergirl, produttrice statunitense di maquillage dal 1958, acquistata nel 1989 dalla multinazionale Procter & Gamble (la quale, non a caso, si è esplicitamente schierata a favore del Gay pride di Roma del giugno scorso con lo slogan «amore oltre i pregiudizi»). Del resto, dichiararsi «gay friendly» serve anche e soprattutto a acquisire una nuova clientela. Nel dicembre del 2016, dunque, Covergirl ha scelto per la sua pubblicità il suo primo «Coverboy», ovvero James Charles. Ma di boy beauty ce ne sono di tanti tipi. Spesso questi personaggi sono una specie di puzzle di discriminazioni. Non rappresentano solo la comunità Lgbt, ma anche varie minoranze: ci sono quelli di colore, quelli latini, quelli sovrappeso... C'è Thomas Halbert, biondo come Marylin Monroe, ma ci sono pure il filippino obeso Patrick Starrr, il messicano Patricio Quintana e il latino con i capelli blu Gabriel Zamora. L'antesignano di tutti è Jeffree Star, mezzo cantante e poi make up guru che quattro anni fa è addirittura riuscito a creare il suo marchio Jeffree Star Cosmetics. Dice di non considerarsi né uomo né donna, ma androgino (in perfetto stile gender fluid). A un Gay pride a Toronto, qualche anno fa, prese a pugni una ragazza che gli aveva mostrato il dito medio. Sul suo canale Youtube si è prodigato anche in tutorial di contouring del pene e, a settembre, si è vantato di aver testato la tenuta del suo mascara waterproof praticando un rapporto orale a un tale Nate nella doccia (creando così la categoria del «mascara sexproof»). Ecco, questo dovrebbe essere il «progresso civile». Intendiamoci: qui non vogliamo discriminare nessuno. Ma un conto è il rispetto dovuto a ogni persona, un altro conto è avere a che fare con una ideologia che - con la scusa della parità - dà vita a un commercio, per altro usurpando il patrimonio femminile. Per vendere i loro prodotti e costruirsi una carriera, infatti, i boy beauty strappano spazi professionali, estetici e culturali alla donna. Mettono in atto una vera e propria «appropriazione culturale», saccheggiando l'estetica tradizionalmente femminile. Il tutto allo scopo di fare cassa. La «rivoluzione arcobaleno», in fondo, è spesso parallela alla creazione di nuovi prodotti da vendere (e che siano cosmetici o figli, purtroppo, poco cambia). È un po' come se le donne per affermare visivamente parità con il maschio iniziassero ad applicarsi barbe e baffi posticci, imbottiture nella patta dei pantaloni, creando così un nuovo segmento di mercato... Viene da domandarsi perché mai questo «nuovo mondo» messo in piedi dai maschi gay debba creare un artificio di novità rimaneggiando cose vecchie come il cucco (l'uomo truccato, ad esempio) e spacciandole per nuove frontiere. Il deposito dal quale più si attinge, per altro, è sempre quello femminile. Non per nulla, qualcuno identifica nell'omosessualità maschile l'ultimo colpo di coda del maschilismo storico. Un tempo la donna era ridotta a oggetto erotico, adesso è oggetto puro. Un oggetto di cui vengono sfruttate le parti che più interessano: l'utero (nel caso della gestazione per altri) e adesso perfino il maquillage.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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