
Si chiama patteggiamento, ma in Italia perché ha un significato procedurale preciso: accetto una pena senza dichiararmi colpevole. Si ratifica questa intesa davanti al giudice. A Bruges le cose sono andate più o meno così, ma è solo- per dirlo nel linguaggio diplomatico tanto caro ai protagonisti di questa storia che in comune hanno d’essere dei fedelissimi di Romano Prodi e del Pd - un gentlemen agreement tra accusa e accusati: noi ci dimettiamo e voi non ci ammanettate.
Più rilevanti sono le conseguenze sul piano internazionale: l’amministrazione Trump si ricorda di quando Federica Mogherini flirtava con Cuba, i russi fanno la morale all’Europa e molti governi dell’Ue prendono le distanze. Così ieri con uno scarno comunicato la «Fede» tanto cara a Uolter Veltroni, portata ai massimi onori dal «Bomba» al secolo Matteo Renzi che la elevò prima a ministro degli Esteri e poi ad Alto (mai aggettivo fu più iperbolico) rappresentante per la politica estera europea, ha dato le dimissioni. In uno scarno comunicato fa sapere: «In linea con il massimo rigore e correttezza con cui ho sempre svolto i miei compiti, ho deciso di dimettermi dalla carica di Rettore del Collegio d’Europa e Direttore dell’Accademia diplomatica dell’Unione europea». «Sono certa che la comunità del Collegio - aggiunge l’esponente del Pd indagata per una serie di reati dalla procura belga e da quella europea in relazione ad appalti dell’istituzione da lei presieduta: si parla di almeno 600.000 euro - continuerà il percorso di innovazione ed eccellenza. Sono orgogliosa di ciò che abbiamo realizzato insieme e sono profondamente grata per la fiducia, la stima e il sostegno che gli studenti, i docenti, il personale e gli ex allievi del Collegio e dell’Accademia mi hanno dimostrato e continuano a dimostrarmi».
E poi la sagra dell’ovvio: «Ho piena fiducia nel sistema giudiziario e confido che la correttezza delle azioni del Collegio verrà accertata. Continuerò a offrire la mia piena collaborazione alle autorità». E ci mancherebbe altro. A dare le dimissioni non è solo nostra signora delle feluche, ma anche il suo sodale di partito, di carriera e d’inchiesta l’ambasciatore Stefano Sannino - noto più per avere perorato la causa del mondo gay e transgender che per aver fronteggiato crisi internazionali - che ha lasciato l’incarico di direttore generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). La Procura europea ha chiesto e ottenuto dalla Commissione la revoca dell’immunità diplomatica a Sannino. La carriera diplomatica di Sannino è stata fatta tutta all’ombra di Romano Prodi come del resto quella del terzo italiano incappato nell’inchiesta della procura belga: Cesare Zegretti, amministratore del Collegio d’Europa, che la Mogherini si è portata dietro. Zagretti è custode dei conti. Deve aver messo le maini avanti dicendo: vi racconto tutto. Così già mercoledì sera la Procura, intascate dimissioni e informazioni, ha deciso di mandare liberi i tre accusati.
Assai pesanti sono però i contraccolpi. Se già mercoledì dal Cremlino erano partite bordate - la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova aveva attaccato: l’Ue fa la morale agli altri, ma preferisce ignorare i propri problemi di corruzione - ieri a rincarare la dose (e la brutta figura dell’Ue) ci ha pensato un alleato di ferro. Il vice segretario di Stato americano Christopher Landau che era a Bruxelles per la riunione dei ministri degli Esteri della Nato in supplenza di Marco Rubio a proposito della Mogherini ha scritto su X: «Si tratta, per inciso, della stessa persona che ha definito la Cuba comunista una “democrazia monopartitica” e ha favorito gli investimenti, il turismo e il commercio europei che hanno sostenuto il regime repressivo e fortemente antiamericano dell’isola».
La «Fede» è sempre stata inseguita da «sospetti». I francesi non la volevano al Collegio d’Europa perché la ritenevano, forse a ragione, inadeguata; tutti i paesi dell’Est non l’hanno votata come Alto Rappresentante perché giudicata amica di Vladimir Putin e tutte le diplomazie occidentali non si sono mai dimenticate dei suoi entusiasmi per Yasser Arafat a cominciare dagli americani che - ascoltando Landau - se ne sono ricordati. Matteo Renzi la impose, a spese degli interessi dell’Italia, per sbarrare la strada a Massimo D’Alema. Sulla Mogherini sono piovuti anche gli strali di Viktor Orban mentre Ursula von der Leyen per ora tace. Una difesa d’ufficio ha provato a farla Andrea Orlando in vece di Elly Schlein che comme d’habitude è non pervenuta. Uno dei cacicchi del Pd se l’è presa con la Russia e i giornali di destra: «sarebbe questo il loro garantismo?» chiede sarcastico. Peccato che nulla abbia detto sull’altro caso strano: la revoca dell’immunità parlamentare ad Alessandra Moretti, eurodeputata Pd, coinvolta nel Qatargate. Mentre Elisabetta Gualmini, anche lei eurodeputata Pd, ma bolognese, e pure lei accusata per il Qatargate, l’ha fatta franca in Commissione - sarà l’aula ad avere l’ultima parola- la Moretti accusa il Ppe e FdI: «Sono vittima di un complotto politico, con me oggi è morta l’immunità parlamentare». Le fa notare Carlo Fidanza di FdI-Ecr: «Il Pd l’immunità l’ha uccisa con Ilaria Salis: ci hanno insegnato che ognuno vita per i suoi». E Elly Schlein resta in silenzio perché deve tutelare il campo largo e di farsi sorpassare a sinistra da Giuseppe Conte sul terreno del giustizialismo non le va. Soprattutto se a inciampare nelle inchieste sono le reduci renziane.






