La nuova perizia sul Delitto di Garlasco: sulle unghie di Chiara c’è un DNA compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio, non con quella di Stasi. Non è una prova, ma un indizio pesante che cambia la lettura del caso e alimenta il confronto in vista del 18 dicembre.
La nuova perizia sul Delitto di Garlasco: sulle unghie di Chiara c’è un DNA compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio, non con quella di Stasi. Non è una prova, ma un indizio pesante che cambia la lettura del caso e alimenta il confronto in vista del 18 dicembre.
Federica Mogherini (Ansa)
Lei e Stefano Sannino fanno un passo indietro, però la frittata è fatta I russi parlano di doppia morale. Gli Usa: «Era amica di Cuba».
Si chiama patteggiamento, ma in Italia perché ha un significato procedurale preciso: accetto una pena senza dichiararmi colpevole. Si ratifica questa intesa davanti al giudice. A Bruges le cose sono andate più o meno così, ma è solo- per dirlo nel linguaggio diplomatico tanto caro ai protagonisti di questa storia che in comune hanno d’essere dei fedelissimi di Romano Prodi e del Pd - un gentlemen agreement tra accusa e accusati: noi ci dimettiamo e voi non ci ammanettate.
Più rilevanti sono le conseguenze sul piano internazionale: l’amministrazione Trump si ricorda di quando Federica Mogherini flirtava con Cuba, i russi fanno la morale all’Europa e molti governi dell’Ue prendono le distanze. Così ieri con uno scarno comunicato la «Fede» tanto cara a Uolter Veltroni, portata ai massimi onori dal «Bomba» al secolo Matteo Renzi che la elevò prima a ministro degli Esteri e poi ad Alto (mai aggettivo fu più iperbolico) rappresentante per la politica estera europea, ha dato le dimissioni. In uno scarno comunicato fa sapere: «In linea con il massimo rigore e correttezza con cui ho sempre svolto i miei compiti, ho deciso di dimettermi dalla carica di Rettore del Collegio d’Europa e Direttore dell’Accademia diplomatica dell’Unione europea». «Sono certa che la comunità del Collegio - aggiunge l’esponente del Pd indagata per una serie di reati dalla procura belga e da quella europea in relazione ad appalti dell’istituzione da lei presieduta: si parla di almeno 600.000 euro - continuerà il percorso di innovazione ed eccellenza. Sono orgogliosa di ciò che abbiamo realizzato insieme e sono profondamente grata per la fiducia, la stima e il sostegno che gli studenti, i docenti, il personale e gli ex allievi del Collegio e dell’Accademia mi hanno dimostrato e continuano a dimostrarmi».
E poi la sagra dell’ovvio: «Ho piena fiducia nel sistema giudiziario e confido che la correttezza delle azioni del Collegio verrà accertata. Continuerò a offrire la mia piena collaborazione alle autorità». E ci mancherebbe altro. A dare le dimissioni non è solo nostra signora delle feluche, ma anche il suo sodale di partito, di carriera e d’inchiesta l’ambasciatore Stefano Sannino - noto più per avere perorato la causa del mondo gay e transgender che per aver fronteggiato crisi internazionali - che ha lasciato l’incarico di direttore generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). La Procura europea ha chiesto e ottenuto dalla Commissione la revoca dell’immunità diplomatica a Sannino. La carriera diplomatica di Sannino è stata fatta tutta all’ombra di Romano Prodi come del resto quella del terzo italiano incappato nell’inchiesta della procura belga: Cesare Zegretti, amministratore del Collegio d’Europa, che la Mogherini si è portata dietro. Zagretti è custode dei conti. Deve aver messo le maini avanti dicendo: vi racconto tutto. Così già mercoledì sera la Procura, intascate dimissioni e informazioni, ha deciso di mandare liberi i tre accusati.
Assai pesanti sono però i contraccolpi. Se già mercoledì dal Cremlino erano partite bordate - la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova aveva attaccato: l’Ue fa la morale agli altri, ma preferisce ignorare i propri problemi di corruzione - ieri a rincarare la dose (e la brutta figura dell’Ue) ci ha pensato un alleato di ferro. Il vice segretario di Stato americano Christopher Landau che era a Bruxelles per la riunione dei ministri degli Esteri della Nato in supplenza di Marco Rubio a proposito della Mogherini ha scritto su X: «Si tratta, per inciso, della stessa persona che ha definito la Cuba comunista una “democrazia monopartitica” e ha favorito gli investimenti, il turismo e il commercio europei che hanno sostenuto il regime repressivo e fortemente antiamericano dell’isola».
La «Fede» è sempre stata inseguita da «sospetti». I francesi non la volevano al Collegio d’Europa perché la ritenevano, forse a ragione, inadeguata; tutti i paesi dell’Est non l’hanno votata come Alto Rappresentante perché giudicata amica di Vladimir Putin e tutte le diplomazie occidentali non si sono mai dimenticate dei suoi entusiasmi per Yasser Arafat a cominciare dagli americani che - ascoltando Landau - se ne sono ricordati. Matteo Renzi la impose, a spese degli interessi dell’Italia, per sbarrare la strada a Massimo D’Alema. Sulla Mogherini sono piovuti anche gli strali di Viktor Orban mentre Ursula von der Leyen per ora tace. Una difesa d’ufficio ha provato a farla Andrea Orlando in vece di Elly Schlein che comme d’habitude è non pervenuta. Uno dei cacicchi del Pd se l’è presa con la Russia e i giornali di destra: «sarebbe questo il loro garantismo?» chiede sarcastico. Peccato che nulla abbia detto sull’altro caso strano: la revoca dell’immunità parlamentare ad Alessandra Moretti, eurodeputata Pd, coinvolta nel Qatargate. Mentre Elisabetta Gualmini, anche lei eurodeputata Pd, ma bolognese, e pure lei accusata per il Qatargate, l’ha fatta franca in Commissione - sarà l’aula ad avere l’ultima parola- la Moretti accusa il Ppe e FdI: «Sono vittima di un complotto politico, con me oggi è morta l’immunità parlamentare». Le fa notare Carlo Fidanza di FdI-Ecr: «Il Pd l’immunità l’ha uccisa con Ilaria Salis: ci hanno insegnato che ognuno vita per i suoi». E Elly Schlein resta in silenzio perché deve tutelare il campo largo e di farsi sorpassare a sinistra da Giuseppe Conte sul terreno del giustizialismo non le va. Soprattutto se a inciampare nelle inchieste sono le reduci renziane.
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Vladimir Putin (Ansa)
- Intervistato da «India Today», il leader russo conferma le sue rivendicazioni ma anche la buona volontà di Donald Trump, che sospende alcune sanzioni contro Lukoil. Emmanuel Macron agli europei: «Temo il tradimento del tycoon».
- È la prima visita di Vladimir Putin a Nuova Delhi dall’inizio della guerra. Sul tavolo accordi su energia e armamenti. Ma è anche una dimostrazione a Donald Trump e Xi Jinping della propria indipendenza.
Lo speciale contiene due articoli
A distanza di due giorni dall’incontro con la delegazione statunitense, il presidente russo Vladimir Putin, in un’intervista rilasciata a India Today, ha espresso piena fiducia nell’amministrazione americana nel condurre le trattative, ma allo stesso tempo ha confermato le sue rivendicazioni territoriali.
Sulla questione del Donbas ha infatti ribadito: «O liberiamo questi territori con la forza delle armi oppure le truppe ucraine se ne vanno e smettono di combattervi». Una prospettiva di dietrofront non è nemmeno contemplata per quanto riguarda l’adesione dell’Ucraina alla Nato: l’ipotesi resta «inaccettabile» sia perché «la Nato è una minaccia» per la Russia (ma anche per l’Europa), sia perché l’Ucraina «sin dall’indipendenza» ha affermato di essere «uno Stato neutrale». Se da una parte ha riconosciuto che «ogni Paese ha il diritto di scegliere i propri mezzi di difesa», dall’altra ha osservato «che non è accettabile che ciò avvenga alle spese della Russia». Rimane quindi cruciale trovare «un modo per garantire la sicurezza» di Kiev «senza mettere a repentaglio» quella di Mosca.
Putin ha anche fornito qualche dettaglio in più sul colloquio «molto importante» con l’inviato speciale americano, Steve Witkoff, e con Jared Kushner a Mosca, evidenziando quanto fosse necessario «ripassare quasi ogni punto» del piano di pace. Anche perché le proposte «contenevano questioni su cui la Russia non era d’accordo, ma ne abbiamo discusso». Ciò non toglie la fiducia riposta in Washington: lo stesso presidente russo ha ammesso che «raggiungere un consenso tra parti in conflitto non è un compito facile». Dunque, ha dichiarato: «Credo che dovremmo partecipare a questo sforzo piuttosto che ostacolare» le trattative. Ma, a differenza di quanto proposto dagli Stati Uniti, Mosca non ha alcuna intenzione di tornare a far parte del G8. Putin ha svelato di averlo comunicato direttamente allo stesso Witkoff: «Gli ho spiegato perché non sono più andato agli incontri del G8 nel passato». E nell’intervista ha colto l’occasione per lanciare una stoccata ai membri del G7 sottolineando che non comprende «perché continuino a definirsi Grandi» dato che sono «Paesi in declino».
Non ci sarebbero invece dubbi sulla genuinità del presidente americano, Donald Trump, nel volere la fine della guerra: «Sono assolutamente certo che miri sinceramente a una risoluzione pacifica», ha detto Putin. Ha però riconosciuto che dietro la volontà americana «potrebbero esserci anche interessi politici» o anche «motivazioni economiche» che ovviamente andrebbero a beneficio di entrambi. A tal proposito ha rivelato che la Russia ha ricevuto alcune lettere da parte di aziende americane: hanno chiesto «di non dimenticarsi della loro esistenza». Ha proseguito: «Si tratta di nostri ex partner che esprimono un chiaro desiderio di riprendere la cooperazione». Gli Stati Uniti, nel frattempo, hanno annunciato di aver sospeso alcune sanzioni imposte contro il colosso russo energetico Lukoil per permettere alle stazioni di servizio situate oltre i confini russi di continuare a operare, a patto però che i ricavi non siano convogliati verso la Russia.
A differenza di Putin, a non credere alle buone intenzioni del tycoon sono gli alleati europei. A rivelarlo è Der Spiegel. Nella video call che i leader hanno avuto lunedì sarebbe emersa tutta la diffidenza dell’Europa. Addirittura, il presidente francese Emmanuel Macron avrebbe il timore che «gli Stati Uniti tradiscano l’Ucraina sul territorio senza chiarezza sulle garanzie di sicurezza». Una posizione simile sarebbe stata condivisa anche dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz, che avrebbe consigliato al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di essere «molto prudente in questi giorni», aggiungendo: «Stanno giocando con voi e con noi». E a non avere fiducia nelle capacità negoziali di Witkoff e Kushner sarebbero pure il presidente finlandese, Alexander Stubb, e il segretario generale della Nato, Mark Rutte. Il primo avrebbe detto: «Non possiamo lasciare l’Ucraina e Volodymyr da soli con questi tizi». E il secondo avrebbe: «Dobbiamo proteggere Volodymyr».
E mentre la questione dell’utilizzo degli asset russi continua a tenere occupata Bruxelles, pare che il premier belga, Bart De Wever, abbia avuto un barlume di lucidità nella miopia europea. Ha ammesso al quotidiano belga La Libre Belgique che pensare che la Russia esca sconfitta dalla guerra è «una favola, un’illusione». E intervenendo sui beni russi, ha precisato: «Siamo pronti a fare sacrifici, ma non possiamo chiedere a questo Paese di fare l’impossibile». Ha quindi raccontato che sul dossier in questione esiste «una pressione incredibile». Rispolverando la storia, ha messo in luce che «rubare i beni congelati di un altro Paese, i suoi fondi sovrani, non è mai stato fatto. Si tratta del denaro della Banca centrale russa. Neppure durante la Seconda guerra mondiale si confiscò il denaro della Germania».
Le trattative in ogni caso proseguono: in Florida sono arrivati il negoziatore ucraino Rustem Umerov e il capo di stato maggiore delle forze armate ucraine, Andriy Hnatov, per un altro round di discussioni con gli americani.
Lo Zar in India: segnali a Usa e Cina
La Russia rafforza la sponda con l’India. Ieri sera Vladimir Putin è atterrato a Nuova Delhi, dove è stato calorosamente accolto da Narendra Modi. «Sono lieto di dare il benvenuto in India al mio amico, il presidente Putin», ha dichiarato il premier indiano su X, per poi aggiungere: «L’amicizia tra India e Russia è un’amicizia collaudata che ha portato grandi benefici al nostro popolo». In particolare, il capo del Cremlino guiderà una nutrita delegazione che, secondo Al Jazeera, include il ministro della Difesa russo, Andrei Belousov, oltre ad alti dirigenti di Rosoboronexport, Rosneft e Gazprom. Quella iniziata ieri è la prima visita dello zar in India da quando è scoppiato il conflitto ucraino. Modi, dal canto suo, si era recato in Russia l’anno scorso. Ci si attende che i due leader discuteranno di vari dossier: soprattutto commercio, energia e difesa. In questo quadro, Nuova Delhi sarebbe pronta a noleggiare per due miliardi di dollari un sottomarino a propulsione nucleare russo. Inoltre, secondo il Times of India, Mosca potrebbe garantire all’India la fornitura di missili aria-aria a lungo raggio R-37.
Ma qual è l’obiettivo geopolitico di Putin con questo viaggio? Cominciamo col dire che i rapporti tra Russia e India sono particolarmente saldi. Nuova Delhi non ha mai realmente voltato le spalle al Cremlino, nonostante l’invasione del 2022. Anzi, in occasione della conferenza di pace tenutasi in Svizzera a giugno 2024, l’India fu tra i Paesi che non firmarono il documento finale in cui si auspicava l’integrità territoriale dell’Ucraina. Inoltre, Russia e India intrattengono solidissimi legami nel settore dell’energia e della difesa: legami che, con questo viaggio, lo zar punta a irrobustire. E infatti, in un’intervista a India Today, il capo del Cremlino ha detto che la cooperazione energetica con l’India resta stabile. Non solo. L’arrivo di Putin a Nuova Delhi è avvenuto in una fase particolarmente delicata dei rapporti tra India e Stati Uniti. Non dimentichiamo che, negli scorsi mesi, si sono registrate notevoli tensioni tariffarie tra i due Paesi e che l’amministrazione Trump ha criticato gli indiani per i loro ingenti acquisti di petrolio russo: circostanza di cui lo zar si è lamentato parlando con India Today. Senza trascurare che sia Mosca che Nuova Delhi appartengono ai Brics: un blocco di cui la Casa Bianca teme gli storici propositi di de-dollarizzazione.
Insomma, il primo obiettivo di Putin è quello di lanciare un monito a Washington. Lo zar vuole far capire agli Stati Uniti di non essere isolato dal punto di vista internazionale e di essere pronto a incunearsi nelle relazioni tra India e Usa. Si tratta di un modo con cui il presidente russo punta indirettamente a rafforzare la propria posizione negoziale nel processo diplomatico ucraino. Ma Putin sta cercando di lanciare anche un secondo monito, e il destinatario è la Cina. Senza dubbio, negli ultimi mesi lo stato dei rapporti tra Pechino e Nuova Delhi è migliorato. È tuttavia anche vero che permangono vari punti di attrito tra i due giganti. E Putin punta ad approfittarne. Consolidando la sponda con l’India, lo zar cerca infatti di rendere meno soffocante il suo abbraccio con Xi Jinping. In altre parole, Nuova Delhi, nella strategia dello zar, rappresenta un fattore utile a controbilanciare Pechino.
Si tratta di una logica che, a suo modo, è anche Modi a seguire. Il premier indiano vuole rinsaldare la sponda col Cremlino per lanciare un duplice avvertimento: uno a Washington e l’altro a Pechino. Modi mira a rafforzare la sua posizione nei negoziati commerciali con gli Usa e, al contempo, a incrementare la propria sicurezza energetica e militare nei confronti del Dragone. Chiaramente il premier indiano dovrà essere più cauto dello zar, perché ha comunque necessità di preservare i legami tanto con gli Usa quanto con l’Ue.
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Scontri per l'Ilva a Genova (Ansa)
Sciopero dei metalmeccanici a Genova: blocchi e scontri con le forze dell’ordine in centro. Poi interviene Marco Bucci, che parla con gli operai: oggi a Roma porto il mio piano per far ripartire l’impianto ligure dell’ex Ilva.
Su una pala caricatrice c’era uno striscione che non prometteva nulla di buono. C’era, infatti, scritto «Che l’inse?», la frase che il giovane Giovan Battista Perasso, detto il Balilla, avrebbe gridato prima di scagliare una pietra contro le truppe austriache, dando il via alla rivolta del 5 dicembre 1746. Per fortuna, alla fine della giornata di ieri, la preoccupazione del Viminale dopo le parole incendiarie dell’ex segretario della Fiom Cgil Franco Grondona, sono rientrate. Lo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi di Ansaldo Energia, Piaggio Aerospace, Fincantieri, ma soprattutto dei lavoratori dell’ex Ilva, ha registrato solo pochi minuti di tensione davanti alla Prefettura genovese verso le 11:30. I manifestanti, con l’aiuto di uno dei quattro mezzi da lavoro al seguito, hanno divelto la grata che delimitava la piccola zona rossa davanti al palazzo del governo. La Polizia ha risposto con un lancio di lacrimogeni che ha immediatamente disperso gli assalitori. In pochi minuti la centralissima piazza Corvetto ha improvvisamente rievocato ai genovesi le scene del G8 con i manifestanti che vagavano confusi stropicciandosi gli occhi offesi dai gas.
Al culmine della mischia Armando Palombo, segretario della Fiom genovese e portavoce dei manifestanti grida: «Arrestateci tutti!».
Ma il panico dura poco. Gli operai, guidati dai rappresentanti della Fiom con le loro felpe nere e il servizio d’ordine perfettamente rodato, si ricompattano subito e riprendono i cori. A corredo solo qualche lancio di uova, fumogeni o bottigliette di plastica e qualche asse di legno appoggiata sui mezzi della Polizia. Davvero poca cosa. Grondona mercoledì aveva invitato i suoi vecchi colleghi a cercare lo scontro con la Polizia per poi poter fare le vittime sui media («Il Governo dovrà spiegare perché picchiano gli operai che lottano per difendere la fabbrica»). Per rispettare il copione, dopo il lancio di lacrimogeni, un lavoratore viene scortato dagli uomini della Fiom a mostrare ai giornalisti e alle telecamere il bernoccolo causato verosimilmente dal tappo di un lacrimogeno.
«È colpa loro, perché sono servi dello Stato» urla l’uomo colpito. «Bastardi» grida un compagno. «Il gas lacrimogeno è stato mirato in testa!». «A un operaio!».
Poi riparte il coro: «Lavoro! Lavoro! Lavoro!».
Esattamente sulla linea rossa che separa manifestanti e poliziotti c’è la porta a vetri di uno dei più eleganti bar cittadini («No bancomat, no carte di credito» si legge sui tavolini a ricordare che ci troviamo a Genova). All’ingresso sono ammassati cronisti e operai. Da una parte della vetrina la tensione, dall’altro eleganti signore che sorseggiano il caffè con vista sul fronte. Quasi un film. Due e tre operai dell’ex Ilva sulla soglia commentano le giornate di lotta: «Io è dal 2000 che sciopero, mi sono anche un po’ rotto», dice uno piuttosto ironico. «Ieri quando abbiamo bloccato l’autostrada i cittadini ci urlavano di tutto. Che palle marciare per tutti quei chilometri, a un certo punto speravo ci facessero tornare indietro».
Un collega ha un’idea: «Altro che prefettura, dovevamo fermare una partita di calcio. Avremmo fatto parlare di più». Il vicino è esausto: «In quattro giorni di sciopero avrò dormito tre ore».
Palombo fa un altro conto, più importante a queste latitudini: «Noi in quattro giorni abbiamo perso 480 euro di stipendio». Poi si rivolge ai giovani che hanno deciso di supportare la lotta dei lavoratori: «Agli studenti che, giustamente, ci hanno supportato, dico: questa è la vita in fabbrica». Quasi un monito a non lasciare i libri.
Quindi assicura che i 1.200 lavoratori dell’ex Ilva «presidieranno la fabbrica sino alla fine».
La sindaca Silvia Salis quando c’è da marciare a favore di selfie è sempre in prima fila, ma ieri, tra i quattromila del corteo, non ha scaldato i cuori di operai troppo scafati per farsi fregare dall’ambiziosa prima cittadina. Quando, dopo gli scontri con la polizia, è sgattaiolata da dietro una grata per parlare con gli organizzatori del corteo c’è chi le ha gridato «Sei come Toti (Giovanni, l’ex governatore ligure arrestato nel 2024, ndr)». E chi ha chiesto a voce alta «Qualcuno ha una fionda per colpirla?».
Poco dopo mezzogiorno Palombo grida alle sue truppe: «Ci spostiamo sui binari della stazione Brignole. La storia continua». Il corteo si snoda per un altro chilometro e prima di occupare la stazione gli operai si schierano in una scenografica formazione a favore di telecamera intonando slogan carichi di orgoglio di classe («Noi siamo Ilva Genova»), molti dei quali rubati alle gradinate delle due squadre cittadine. Numerosi anche i cori denigratori dedicati al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Nell’atrio della stazione parte anche un coro contro Giorgia Meloni. Poco dopo ne arriva un secondo, volgare e sessista, che se un corteo di destra lo avesse dedicato a Elly Schlein, apriti cielo.
I treni iniziano ad accumulare ritardo, mentre gli uomini della Fiom gridano orgogliosi: «Senza lavoro c’è l’agitazione».
Intorno ripartono gli insulti. Palombo scalda la folla: «Mi sentite? Mi sentite?». «Siiiiiiì». «Meloni m…».
Ma ricorda anche che questo governo «è responsabile come gli altri» che lo hanno preceduto dell’attuale situazione.
A risolvere l’impasse ci pensa il governatore della Liguria Marco Bucci, uomo concreto e per qualcuno ruvido, che con quegli operai dalle facce stropicciate dal sonno e dalla tensione si è subito trovato.
Si è scapicollato lì dal cantiere del Terzo valico ferroviario per far sapere che è al loro fianco. E si è subito capito che è ritenuto credibile anche dagli operai dell’ex Ilva. Molto più della sindaca dall’outfit sempre perfetto.
Nei giorni scorsi Bucci si era recato al presidio dei lavoratori e aveva dichiarato al termine della lunga telefonata con il commissario di Acciaierie per l'Italia: «Mi hanno confermato che la cifra per la fornitura (dell’acciaio destinato alla zincatura, ndr) oscilla intorno ai 15 milioni: i fondi ci sono ma esiste un problema con la legge europea che non consente aiuti di Stato alle aziende in commissariamento».
Bucci, quando arriva a Brignole, si fa largo tra i manifestanti radunati sulla banchina tra i binari 2 e 3, e raggiunge Palombo. Uno gli grida: «Potevi restare al Terzo Valico», subito fulminato dallo sguardo del portavoce. «Pur senza successo, ha fatto da tramite con il governo, prendendo anche lui il 2 di picche, hanno contato delle musse (bugie, in genovese, ndr) anche a lui» lo difende il sindacalista. «Apprezziamo il presidente della Regione che è venuto qua, gli riconosciamo questo gesto».
La parola passa a Bucci e le sue sono dichiarazioni che vanno al cuore della questione: «Martedì sera vi ho riferito i risultati dell’incontro purtroppo non positivo che abbiamo avuto con il signore di Roma. Ho detto che noi continuiamo a lavorare per avere l’acciaio qui, la produzione dell’acciaio in Italia. Quello che si fa per Cornigliano, lo si fa per tutto il Paese. Continueremo a lottare perché l’acciaio sia prodotto in Italia e l’acciaio speciale, cioè la latta e lo zincato, siano prodotti a Genova». Poi annuncia che questa mattina alle 5 prenderà la macchina per recarsi a Roma per riprendere la trattativa: «Non posso dirvi che tornerò vincitore, ma posso dirvi che tutti i giorni noi lavoriamo per questo obiettivo». Quindi indica una possibile via d’uscita: «Noi ovviamente lavoriamo con Taranto per far sì che tutto il materiale dalla Puglia arrivi qui, ma dobbiamo iniziare a lavorare anche con altri produttori di coils per avere qui altre produzione di acciaio che possano essere trasformate in latta e zincato». Infine, invita tutti a mantenere la calma: «Venire qui è la dimostrazione che vi siamo vicini, per questo cerchiamo di evitare ulteriori situazioni difficili che poi vanno limitate (la sindaca Salis aveva suggerito di “non fornire alibi”). Se tutti quanti ci aiutiamo l’un con l’altro sono convinto che raggiungeremo l’obiettivo».
Dopo pochi minuti gli scioperanti hanno liberato le banchine, tra una battuta e un morso a un pezzo di focaccia. Poi hanno ripreso la strada per il presidio di Cornigliano.
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Elena Ugolini (Ansa)
L’ex candidata al Consiglio regionale emiliano: «Ormai è un posto degradato, sporco e insicuro, dove è impossibile trovare casa a un canone umano per uno studente. L’Alma Mater è presidiata dai collettivi. Il sindaco Lepore? È una creatura della Schlein».
Il caso Bologna, perché di caso si tratta. Bologna che conferisce la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese malgrado altre città, governate dalla sinistra, gliela neghino. Bologna, dove l’università si oppone all’istituzione di un corso di laurea per gli iscritti all’Accademia militare. Bologna, dove la Chiesa è guidata dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. Bologna, di cui è sindaco il democratico Matteo Lepore, delfino di Elly Schlein, già vicepresidente della regione Emilia-Romagna, che lo indica spesso come esempio di amministrazione illuminata. Bologna, infine, dov’è difficile trovare chi abbia voglia di raccontare quello che succede davvero con l’attuale blocco di potere, che non è più quello dell’Ulivo. Questo coraggio ce l’ha Elena Ugolini, ex preside del liceo Malpighi, ex sottosegretario all’Istruzione e all’università del governo Monti, candidata sconfitta con il 40% dei consensi alle regionali di un anno fa con una lista civica che ha aggregato il centrodestra e ora battagliera consigliera regionale.
Che tipo di città è oggi Bologna?
«È una città sempre bella e “accogliente”, ma insicura, sporca e paralizzata dai lavori in corso per il tranvai. Una città dov’è impossibile trovare casa a un affitto ragionevole per uno studente o un giovane lavoratore. Una città piena di studenti che sono la sua ricchezza fin dal 1089, anno di fondazione dell’università, e ora anche di turisti. Una città in cui negli ultimi anni molti negozi sono stati chiusi a causa della politica penalizzante nei confronti dei piccoli esercizi commerciali. Infine, è una città con molte zone pericolose e non accessibili».
È esagerato definirla «una città estremista» come ha fatto il senatore di Fdi Marco Lisei?
«È una città nella quale il governo della parte più ideologica, fondamentalista, presuntuosa e moralizzatrice di una certa sinistra ne condiziona la vita e lo sviluppo».
Era la città dell’Ulivo, ora di chi è?
«Le persone che hanno costruito l’Ulivo, una sinistra dialogante non sempre in conflitto con la cultura cattolica, oggi sono molto a disagio. Adesso è la città di Lepore e del suo giro. E di chi accetta che i centri sociali la mettano a soqquadro, non una ma due volte, tre volte, quattro volte…».
È la città degli antagonisti?
«Certo. Dietro il tono in apparenza gentile di Lepore prevale l’antagonismo di sostanza, come ha fatto capire la richiesta al ministro degli Interni di pagare i 100.000 euro di danni causati dai cortei pro Pal in occasione della partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv».
Sul Foglio Giuliano Ferrara ha scritto un articolo accorato per il degrado intellettuale che la affligge.
«Quando scrive che è una città sporca e insicura dice il vero. Qualche giorno fa una storica guida turistica mi ha detto che un grande tour operator ha deciso di escludere Bologna dai suoi circuiti perché ha avuto troppe lamentele dai turisti per il degrado ambientale, la percezione di insicurezza e le molestie subite».
Mentre Firenze ha deciso di revocare la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, Bologna sembra decisa a confermarla.
«Al consiglio comunale di lunedì il sindaco ha avuto l’occasione di rivedere la decisione, invece ha detto che ci sono “cose più importanti” di cui occuparsi. E, confermando il riconoscimento, ha chiesto più attenzione alle parole della Albanese».
Nemmeno Romano Prodi lo farà recedere?
«Ne dubito. Prodi ha detto che perseverare è diabolico».
Oltre al dissenso del professor Gianfranco Pasquino già manifestato un mese fa e ribadito ieri al Corriere della Sera se ne sono registrati altri?
«Quello di Elisabetta Gualmini, arrivato prima ancora dell’agghiacciante dichiarazione della Albanese sull’assalto alla Stampa. Poi Virginio Merola, sindaco di Bologna prima di Lepore, si è dissociato lunedì con un post prima dell’inizio del consiglio comunale. E ci sono anche i dubbi di Stefano Bonaccini».
Perché il sindaco si è speso impedire la disputa della partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv?
«Perché per lui garantire l’ordine e la sicurezza consiste nel lasciare parti della città in mano ai centri sociali. C’è un filo di collegamento tra chi governa la città in modo apparentemente democratico e chi la occupa condizionandola con la violenza».
Era anche un modo per legittimare i contestatori?
«Con la motivazione della sicurezza si accetta che le attività della città siano interrotte perché i contestatori hanno più diritti degli altri».
Che idea delle istituzioni manifesta questo comportamento?
«Di istituzioni che danno messaggi contrastanti. Da una parte si chiede aiuto alle forze dell’ordine per evitare scontri, dall’altra non si accetta la creazione di zone rosse dove esercitare un controllo preventivo. Gli agenti della polizia locale sono in una situazione di debolezza. Per esempio, non hanno in dotazione il teaser».
Perché l’università ha negato la possibilità che gli studenti dell’Accademia militare di Modena frequentino un corso di laurea in filosofia?
«In realtà, la richiesta del capo di Stato maggiore dell’Esercito Carmine Masiello di iscrivere 15 cadetti alla facoltà di filosofia non è stata neanche messa all’ordine del giorno del dipartimento. I collettivi universitari hanno subito accusato la militarizzazione dell’università. Che, a quel punto, si è trincerata dietro problemi organizzativi e di costi. Ma l’Accademia era pronta a pagare i corsi. Il meccanismo è il solito: una parte del corpo docente ha il filo diretto con i collettivi che osteggiano la richiesta dell’Accademia».
Perché altri corsi in ingegneria, scienze politiche o diplomatiche che si tengono in seno all’Accademia o a Reggio Emilia non hanno trovato ostacoli e questo sì?
«Perché Bologna non è una città libera. Le faccio un altro esempio».
Prego.
«L’Alma Mater ha respinto la proposta di collaborazione di Leonardo, un’istituzione che collabora con oltre 100 atenei italiani ed esteri».
I collettivi hanno influenzato la decisione del rettore?
«Certo. Ma la responsabilità è del dipartimento che, nell’ambito dell’autonomia didattica, può dire faccio il corso oppure no».
Come si è comportato il sindaco in questa occasione?
«Si è lamentato dell’interferenza del governo, rivendicando l’autonomia di Bologna e dell’Università».
Giorgia Meloni poteva non intervenire sull’argomento?
«Credo che il governo non possa non occuparsi di Bologna perché si verificano fatti inaccettabili che richiedono un intervento. Al contrario, io ringrazio gli esponenti del governo perché non ci lasciano soli».
Com’è l’agibilità politica all’Alma Mater?
«Ci sono aule perennemente occupate. Soprattutto c’è un clima di insicurezza e di degrado in tutta la zona universitaria, nel centro della città, che dalle 18 del pomeriggio è ostaggio degli spacciatori e in balia dei collettivi. Qualche giorno fa l’università ha tolto i ponteggi dalle facciate appena ridipinte, ma il giorno dopo erano già piene di scritte contro Matteo Piantedosi e Antonio Tajani. Sebbene tutti conoscano gli autori di queste scritte, perché sono sempre i soliti, nessuno interviene».
Che tipo di rapporto intrattiene il sindaco con i centri sociali?
«Ci sono edifici pubblici anche in pieno centro cittadino stabilmente occupati da loro. È una situazione profondamente ingiusta e che perdura da diversi anni grazie a bandi che si aggiudicano sempre i soliti perché cuciti su misura sulle loro attività».
E sul terreno economico come si muove l’amministrazione?
«Anziché incoraggiare l’iniziativa dei cittadini tende a intimidirla. Alla convention nazionale di Confabitare di fine novembre si è sottolineato il turismo come fonte di ricchezza grazie alla crescita da 1 a 2,5 milioni di visitatori annui. L’ex capo delle Sardine, Mattia Santori, che ha la delega ai giovani e al turismo, è intervenuto per mettere in guardia sulla volatilità del turismo. C’è una mentalità recessiva… Le faccio un altro esempio…».
La ascolto.
«In queste settimane si sta esaminando un progetto della giunta regionale sugli affitti brevi: la relatrice Simona Larghetti di Avs ha postato un video in cui sventola trionfante il testo della legge: “Purtroppo, non possiamo mettere un tetto al prezzo degli affitti brevi, non possiamo espropriare”. Ma almeno con questa legge riusciremo a limitarli».
Come procede l’esperimento delle pipette per fumare il crack?
«È stata un’operazione di propaganda per proclamarsi città in cui ci si può sballare e drogare tranquillamente. Dall’analisi delle acque reflue emerge che Bologna, secondo i dati del dipartimento per la politica antidroga della Presidenza del consiglio, è la città con il più alto consumo di metanfetamine in Italia».
Che tipo di presenza ha la Chiesa guidata dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei?
«Una caratteristica che tutti riconoscono a Zuppi è che sa voler bene alle persone e ha costruito una trama di rapporti positivi. E questa trama di bene è un grosso dono che la Chiesa sta facendo alla città. Penso che sia fondamentale uscire dalle sacrestie e seguire ciò che ha detto papa Leone XIV ad Assisi: è bene che i cattolici intervengano nel dibattito pubblico senza farsi intimidire. Lo dovrebbero fare anche i cattolici che sono nel Pd e hanno responsabilità pubbliche».
Ci sono i cattolici nel Pd, ma il Pd va da un’altra parte?
«In questo momento sono una minoranza in grandissima difficoltà».
È stupita che nella classifica per la qualità della vita delle città Bologna sia al quarto posto?
«È una classifica giornalistica che non si basa su ricerche scientifiche. L’attrattiva di Bologna per i giovani, il turismo, la cultura e il tempo libero si basa su qualità che prescindono da chi la governa. Ripeto: bisogna vedere come vengono stilate queste graduatorie. Per esempio, sulla giustizia e la sicurezza siamo al centoduesimo posto».
Considerato che Matteo Lepore è una creatura di Elly Schlein dobbiamo immaginare che l’Italia governata da lei sarebbe pro Pal, amica degli antagonisti e pronta a liberalizzare l’uso degli stupefacenti?
«Temo di sì. Non dimentichiamo che la conquista di Bologna da parte di questa sinistra è cominciata nel 2013 proprio con la Schlein leader del movimento Occupy Pd. Bologna è un laboratorio importante. Per questo, se i cittadini che non si riconoscono in questa cultura si rassegnassero al dominio della sinistra, commetterebbero un gravissimo errore».
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