Il maestro Riccardo Muti si rivolge alla politica perché trovi una via per far tornare a Firenze i resti del genio toscano.
Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer del gruppo di telecomunicazioni Wind Tre
Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer di Wind Tre: «Il Paese non può rischiare di rallentare lo sviluppo digitale. La nostra industria è energivora e strategica: merita attenzione e un quadro regolatorio che favorisca gli investimenti».
«L’Italia merita un vero piano industriale per le telecomunicazioni: lo sviluppo digitale non può essere interrotto o rallentato». A dirlo alla Verità è Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer di Wind Tre. «Il settore delle tlc - prosegue – è diventato un’infrastruttura critica per la competitività del Paese, ma allo stesso tempo rimane tra i meno compresi e tutelati. La nostra è un’industria energivora, strategica e abilitante. Merita più attenzione e deve essere riconosciuta come tale, perché senza reti performanti non esiste innovazione digitale, né per le imprese né per la Pubblica Amministrazione. Il nostro già lo facciamo, investiamo e tanto. Anche in Europa serve un maggiore interesse verso la nostra industria».
Sedita, Wind Tre è il primo operatore italiano – e tra i primi in Europa – a lanciare il 5G Standalone. Che cosa rappresenta questo passaggio e perché è così innovativo?
«Il 5G Standalone è una rete completamente autonoma dal 4G, pensata per offrire prestazioni garantite, sicurezza avanzata e soprattutto configurabilità dinamica. Non è una semplice evoluzione tecnologica: è un’infrastruttura progettata per abilitare applicazioni critiche, nelle quali la continuità del servizio è essenziale. Questa tecnologia ci permette di fornire alle imprese una sorta di corsia privilegiata, anche in contesti di massimo affollamento. Lo abbiamo dimostrato durante un grande evento sportivo con oltre 90.000 persone, creando una slice dedicata per la trasmissione video live in alta definizione. Il nostro vantaggio competitivo nasce da un network tra i più capillari in Italia, con oltre 21.000 siti».
Perché il 5G Stand alone è strategico per il Paese?
«Perché è la piattaforma abilitante di servizi essenziali per la sanità, la sicurezza, la logistica, l’industria 4.0, i trasporti e la Pubblica Amministrazione. L’Italia ha bisogno di infrastrutture digitali affidabili e moderne. In un contesto europeo che fatica a competere sul digitale, il 5G Stand Alone permette al Paese di fare un salto in avanti e di rendere accessibili tecnologie avanzate anche alle pmi, che sono la vera ossatura del nostro sistema produttivo. Wind Tre vuole essere un abilitatore della competitività nazionale, mettendo a disposizione infrastrutture performanti e soluzioni concrete».
Quali settori beneficeranno maggiormente del 5G Stand alone?
«Chiunque abbia bisogno di continuità, sicurezza, bassa latenza e configurabilità. Penso in particolare all’industria, con robotica, automazione e sensoristica. E poi logistica, con monitoraggio in real time e ottimizzazione degli hub. Sanità, con telemedicina avanzata e gestione digitale delle strutture. Porti e trasporti, dove la comunicazione mission critical è fondamentale. Broadcast, con trasmissioni live ad altissima qualità. Il 5G è la rete che permette di far funzionare tutto questo con garanzie e non più “al meglio delle possibilità”».
Quali sono le caratteristiche distintive del 5G Stand Alone per imprese e Pa?
«Tre in particolare. Prestazioni garantite: ovvero bassa latenza, continuità del servizio, sicurezza end-to-end. Poi Network slicing: possiamo creare porzioni virtuali della rete dedicate a singoli clienti o applicazioni, anche temporanee. Infine Mobile Private Network virtuali: reti private digitali per sanità, industria, logistica, porti, sicurezza. Queste soluzioni sono scalabili, senza oneri gestionali per le imprese, con un livello di sicurezza molto elevato e con protezione dei dati».
Quanto è estesa oggi la vostra copertura 5G Stand Alone?
«La rete 5G Stand Alone copre già l’80% della popolazione italiana, e cresce ogni mese. Gli investimenti continui – circa 800 milioni di euro l’anno – ci permettono di offrire un’infrastruttura tra le più moderne e affidabili del Paese».
Negli ultimi anni Wind Tre ha vissuto una trasformazione profonda. Qual è la vostra nuova visione strategica?
«Dopo la fusione del 2017 tra Wind e H3G eravamo un operatore principalmente consumer, focalizzato sulla connettività mobile e fissa. Oggi siamo un’azienda completamente diversa. Abbiamo investito nella rete, potenziandola grazie anche all’acquisizione di OpNet, siamo entrati nei mercati dell'energia e delle assicurazioni, abbiamo lanciato servizi di protezione e videosorveglianza con il nuovo “Casa e negozio protetti” powered by Protecta, e soprattutto abbiamo accelerato sul B2B: ICT, cybersecurity, cloud e data center. Negli ultimi 3-4 anni siamo cresciuti al doppio della velocità del mercato. Questo è stato possibile perché abbiamo scelto una strategia basata sull’ascolto e sulla vicinanza ai clienti, che chiamiamo #OPEN».
Cosa rappresenta il concept #OPEN per Wind Tre?
«#OPEN non è uno slogan: è un metodo di lavoro. Significa essere aperti all’ascolto, capire i bisogni delle imprese prima di proporre soluzioni, evitare di offrire servizi inutili o sovradimensionati. La prova più concreta è che molte aziende hanno scelto di raccontare questa visione con noi: nello spot “La porta del futuro è OPEN” sono protagonisti proprio i nostri clienti».
Qual è oggi il posizionamento di Wind Tre nel mercato B2B?
«Il mercato italiano è molto frammentato: poche grandi aziende e una miriade di pmi e micro-imprese. È qui che vogliamo fare la differenza. Oggi non siamo più un operatore telco tradizionale: siamo un partner tecnologico in grado di offrire connettività, cloud, sicurezza, data center, soluzioni verticali per sanità, media, industria e Pa».
Gli investimenti tecnologici costano, così come le frequenze. Quali sono i temi cruciali nel dialogo con il governo e le istituzioni?
«Il settore telco è fondamentale per l’intero sistema Paese, ma deve essere sostenuto in modo adeguato. Il costo delle frequenze è enorme: in Italia abbiamo pagato il prezzo unitario più elevato in Europa – tra 6 e 7 miliardi in totale con una maxi-rata finale nel 2022 – e oggi è in corso un confronto per il rinnovo delle licenze nel 2029. Servono regole chiare per non compromettere la capacità di investimento delle aziende. Siamo un’azienda energivora, come tutte le grandi infrastrutture, e proprio per questo il settore merita attenzione e riconoscimento. Con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy abbiamo fatto un primo importante passo avanti sull’innalzamento dei limiti elettromagnetici: passare da 6 a 15 volt per metro è stato un primo step significativo per migliorare la copertura indoor e favorire lo sviluppo del 5G, mantenendo il controllo sulle emissioni. Ma serve un passo ulteriore: un piano industriale nazionale per le telecomunicazioni. Lo sviluppo digitale dell’Italia non può essere lasciato all’improvvisazione».
Anche perché ci sono posti di lavoro in ballo… Qual è l’impatto di Wind Tre sul territorio in termini economici e occupazionali?
«Wind Tre conta 7.000 dipendenti diretti e genera lavoro indiretto per decine di migliaia di persone. La nostra presenza commerciale è capillare: 750 negozi in franchising, 4.000 punti vendita, una rete di agenzie con quasi 2.000 professionisti nel B2B».
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Marco Scatarzi in foto piccola (Ansa)
Il direttore di Passaggio al bosco Marco Scatarzi rompe il silenzio: «A “Più libri, più liberi” abbiamo venduto tantissimo. I saggi definiti fascisti? Abbiamo 300 testi di vari autori e tendenze: forniamo, come fanno altri a sinistra, un punto di vista radicale ma del tutto legittimo».
Dopo giorni di polemiche, attacchi, insulti e qualche aggressione verbale (ma anche tanti libri venduti, enorme pubblicità e non poche soddisfazioni), Passaggio al bosco - che per tutta la durata della tempesta ha mantenuto un silenzio pressoché totale - si concede giusto qualche punzecchiatura e si leva un paio di sassolini delle scarpe, con eleganza. «Abbiamo assistito», dice la casa editrice in una nota, «allo psicodramma collettivo di una sinistra in fase terminale: proposte di censura in nome della libertà, diserzioni fisiche con gli stand aperti e stucchevoli proteste cadute nel vuoto. Hanno fatto tutto da soli: si sono indignati, poi organizzati e infine divisi. Il risultato è lampante: il cortocircuito di un’egemonia culturale che si è ridotta al solo business, che si definisce per antitesi, che innalza recinti morali, che elargisce scomuniche preventive e che pretende di stabilire arbitrariamente che cosa sia lecito scrivere, leggere e persino pensare».
Marco Scatarzi, dal 2017 direttore di Passaggio al bosco, è stanco ma tranquillo, di sicuro soddisfatto nonostante i momenti di tensione. Con La Verità ripercorre i passaggi che hanno portato il suo marchio ad avere uno stand alla fiera romana «Più libri più liberi». «Da anni facevamo domanda di partecipazione con la regolare modulistica e per anni siamo stati sempre avvisati che gli spazi non erano disponibili», spiega. «Anche quest’anno in realtà avevamo ricevuto l’email che appunto ci avvisava della mancanza di spazi disponibili, poi però siamo stati ripescati a settembre e ci è stato concesso uno stand».
Come mai?
«Perché lo scorso anno, in polemica con l’organizzazione, molte case editrici di sinistra avevano disdetto la prenotazione e quindi hanno liberato spazi».
Dunque esiste una polemica interna fra la direzione della fiera e le case editrici?
«Mi sembra di aver colto questa polemica che si protrae da anni, per le più svariate motivazioni che ogni anno cambiano. Quest’anno è stata Passaggio al bosco l’oggetto del contendere, ma una dialettica accesa esiste da tempo».
Che cosa vi è stato richiesto per partecipare?
«C’è un regolamento da sottoscrivere con varie clausole, che per altro molti hanno citato nei giorni scorsi. Si chiede il rispetto della Costituzione, dei diritti umani... E poi ovviamente c’è la quota di pagamento che attesta appunto l’affitto dello spazio».
Fate richiesta da anni. Nessuno vi aveva mai detto nulla?
«No, assolutamente no».
Poi è arrivato l’appello, la richiesta di cacciarvi da parte di un centinaio tra autori e case editrici. Come ne siete venuti a conoscenza?
«Lo abbiamo appreso dai social network dopo che l’onorevole Fiano, con un post, ha chiesto il nostro allontanamento dalla fiera. Quel post ha generato nei giorni seguenti l’appello di Zerocalcare e degli altri intellettuali, se così possiamo definirli, che appunto chiedevano di mandarci via».
Vi hanno accusato di essere fascisti e neonazisti. Cosa rispondete?
«Che abbiamo un catalogo vastissimo, con parecchie di collane, 300 titoli e un pluriverso di autori che spaziano geograficamente in tutto il mondo e in tutte le anime della cosiddetta “destra”. Abbiamo un orientamento identitario e cerchiamo di rappresentare le varie anime del pensiero della destra, dando corpo ad un approfondimento che abbraccia storia, filosofia, società, geopolitica, sport, viaggi e molto altro. Ovviamente, come da prassi, il tutto viene sistematicamente strumentalizzato attraverso i soliti spauracchi caricaturali: ciò che disturba, senza dubbio, è la diffusione di un pensiero non allineato, soprattutto sui temi di stretta attualità. Le voci libere dal coro unanime del progressismo, si sa, sono sempre oggetto di demonizzazione».
Vi hanno rimproverato di aver pubblicato Léon Degrelle.
«Rispondo citando ciò che Roberto Saviano ha detto a Più libri più liberi, quando ha risposto alle polemiche alzate dai firmatari della petizione: tutti i libri hanno il diritto di essere letti e di esistere. Non abbiamo bisogno di badanti ideologiche… Ebbene, noi cerchiamo di offrire uno sguardo diverso, un punto di vista anche radicale, perché riteniamo che sia importante conoscere tutto. E non ci sentiamo di dover prendere lezioni di morale da chi magari nei propri cataloghi - del tutto legittimamente, perché io per primo li leggo - ha libri altrettanto radicali, benché di orientamento opposto a quello che viene rimproverato a noi».
Come è stata la permanenza alla fiera?
«Ci sono state molte contestazioni, diverse aggressioni verbali, cortei improvvisati, cori con “Bella ciao” e tentativi di boicottaggio che hanno cercato di minare la nostra partecipazione. Non ce ne lamentiamo: abbiamo risposto con la forza tranquilla del nostro sorriso, svolgendo il nostro lavoro».
E i vertici della fiera? È venuto qualcuno a parlare con voi?
«Sì, naturalmente. Hanno apprezzato il nostro profilo asciutto e professionale. Qualcuno ha scambiato la fiera per un centro sociale, ma non ci siamo mai fatti intimorire o provocare. Abbiamo evitato in ogni modo possibile di alimentare la polemica e non ci siamo prestati alla ribalta mediatica provocazioni anzi le abbiamo anche accolte col sorriso e non abbiamo neanche cercato la ribalta mediatica: il nostro - appunto - è un lavoro editoriale di approfondimento. Può non piacere, ma ha diritto di esprimersi».
Zerocalcare dice che avete organizzato un’operazione politica, che siete organici al partito di governo.
«Ovviamente non esiste alcuna operazione politica: esiste soltanto una casa editrice che partecipa ad una fiera dedicata ai libri. L’operazione politica - semmai - è quella della sinistra radicale che si organizza per montare una polemica, cercando di censurare chi la pensa diversamente. Hanno montato una polemica politica stucchevole, che molti hanno condannato anche da sinistra. Peraltro, sottolineo ancora una volta che Passaggio al bosco contiene in sé un pluriverso enorme di autori, di esperienze, di persone e di realtà: alcune sono impegnate politicamente, molte altre no. Di certo, non può essere ritenuta organica ad alcunché, se non alla propria attività di divulgazione culturale. Ma poi, con quale coraggio una sinistra radicale che fa sistema da anni, spesso con la logica della “cupola”, si permette di avanzare simili obiezioni?»
Chiederete di partecipare a Più libri più liberi anche l’anno prossimo?
«Certamente. Chiederemo di partecipare - come quest’anno - ad un festival che ospita gli editori. Saremo felici di esserci con i nostri testi, con i nostri autori e con la nostra attività. Sicuramente, anche al di là delle contestazioni, quella appena conclusa è stata un’esperienza importante, in una fiera ben organizzata e molto bella. Avremmo piacere di ripeterla».
Avete venduto bene?
«Abbiamo venduto benissimo, terminando tutti i nostri libri. Per quattro volte siamo dovuti tornare a rifornirci in Toscana e il nostro è stato certamente uno degli stand più visitati della fiera. Il boicottaggio ha sortito l’effetto contrario: ci hanno contattato già centinaia di autori, di distributori, di traduttori, di agenti pubblicitari e di addetti ai lavori. Ogni tipo di figura operante nel campo dell’editoria non solo ci ha mostrato solidarietà, ma è venuta da noi a conoscerci e a proporci nuove collaborazioni. Quindi, se prima eravamo una casa editrice emergente, adesso abbiamo accesso ad un pubblico più ampio e a canali che ci permetteranno di arrivare là dove non eravamo mai arrivati».
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Giulio Sapelli (Ansa)
L’economista interviene sul documento dell’amministrazione americana in cui si preconizza la fine del Vecchio continente: «Una comunità di Paesi non può esistere senza una Costituzione. Ha prevalso una burocrazia celeste personificata da Ursula».
Professor Giulio Sapelli, non si fa che parlare del documento americano National security strategy. Che molti nostri media raccontano come un attacco frontale di Trump all’Unione europea.
«Che come ho scritto in pochi hanno letto. Non si può nascondere che il trumpismo si presenti spesso come fenomeno quasi caricaturale. A partire dal presidente col cappello rosso Maga dentro lo Studio Ovale. Ma al netto di questo, si intravedono segnali di cambiamento profondi dentro l’establishment americano».
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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