2022-11-06
La norma anti rave non è liberticida
Forse è un decreto inutile, ma nessuno ha mai applicato la legge esistente. L’invasione arbitraria non è un diritto garantito dalla Costituzione, spesso citata senza conoscerla.Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Nel bailamme delle polemiche alle quali, com’era facilmente prevedibile, ha dato luogo l’introduzione, per decreto legge, del reato volto a contrastare l’organizzazione dei Cosiddetti rave party, ci si è molte volte dimenticati di esaminare con un minimo di attenzione il testo della nuova norma, prima di condannarla senza appello in quanto asseritamente liberticida e incostituzionale (come hanno fatto la maggior parte dei commentatori), o anche, per converso, di esaltarla come strumento in mancanza del quale sarebbe impossibile o estremamente difficoltoso perseguire penalmente quanti organizzino eventi del genere anzidetto o vi partecipino. Cominciamo quindi con il rimediare alla lacuna, osservando che, nella sua parte essenziale, la nuova norma prevede come reato, punibile con la reclusione da tre a sei anni per gli organizzatori e con pena ridotta per i semplici partecipanti, l’«invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». Appare quindi chiaro, anzitutto, che la condotta penalmente rilevante deve consistere, in primo luogo, in una «invasione». Ma questa è già prevista come reato perseguibile d’ufficio e punibile con la reclusione da due a quattro anni dall’art. 633, comma secondo, del codice penale, quando sia commessa da più di cinque persone e abbia come fine quello di «occupare» terreni o edifici altrui, pubblici o privati, ovvero di «trarne altrimenti profitto». Ed è quasi inutile dire che fra tali finalità ben potrebbe rientrare anche quella di utilizzare i terreni o gli edifici invasi per tenervi rave o qualsiasi altro genere di eventi, considerando, tra l’altro, per quanto valga, che la nozione di «profitto», secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, non è limitata al profitto economico ma comprende qualsiasi altra utilità, anche di natura non patrimoniale. Ciò significa che, se lo si fosse voluto, sarebbe bastata questa norma per impedire tutti i rave party avvenuti negli anni precedenti, ivi compreso quello, particolarmente devastante, che ebbe luogo nel Comune di Valentano, a Ferragosto dell’anno scorso. Potrebbero, quindi, avere una qualche ragione coloro i quali sostengono che la nuova norma sia sostanzialmente inutile, salvo però a spiegare, allora, perché quelli, tra loro, che ne avrebbero avuto il potere e il dovere, non si siano adoperati per far applicare, quando sarebbe stato necessario, la norma già esistente. Nessuna ragione, di contro, può invece riconoscersi a coloro i quali bollano la nuova norma come violatrice dei diritti costituzionali, con particolare riguardo a quello di riunione previsto dall’art. 17 della Costituzione, per il solo fatto che in base ad essa (come si è visto), deve sussistere, per la configurabilità del reato, la finalità di «organizzare un raduno», dal quale possa «derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». Anche in assenza di una tale finalità, infatti, la condotta di «invasione», per quanto sopra illustrato, sarebbe già stata penalmente perseguibile. L’unica differenza, quindi, rispetto alla situazione preesistente viene ad essere, in sostanza, quella costituita dal fatto che la nuova norma, per la presenza, appunto, di detta finalità, prevede pene maggiori di quelle previste dalla vecchia. Ma a ciò potrebbe accompagnarsi, paradossalmente, anche una maggiore garanzia, giacché, avendo la nuova norma carattere di «specialità» rispetto alla vecchia, quest’ultima, in presenza della finalità in questione, non potrebbe comunque essere applicata e rimarrebbe a carico dell’accusa, volendosi applicare la nuova norma, l’onere di provare che le caratteristiche del «raduno» siano tali da dar luogo a pericoli per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Quanto poi all’obiezione, da molti avanzata, che la effettiva sussistenza o meno di tali pericoli sarebbe inammissibilmente rimessa a valutazioni discrezionali che potrebbero essere affidate, in prima battuta, anche alle sole forze di polizia, potrebbe facilmente rispondersi che proprio l’invocato art. 17 della Costituzione prevede, al terzo comma, che le riunioni in luogo pubblico, normalmente consentite senza preavviso, possano essere vietate dalle autorità per «comprovati «, ma non meglio specificati, «motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». E se motivi di tal genere possono valere per le riunioni in luogo pubblico, a maggior ragione deve ritenersi consentito al legislatore ordinario che a essi si faccia riferimento quando si tratti di riunioni da effettuarsi in luoghi dei quali non si abbia legittima disponibilità, essendo stati oggetto di arbitraria invasione. Salvo a sostenere, con l’avallo di qualche vero o presunto giurista, che l’invasione sia essa stessa un diritto garantito dalla Costituzione. Il che sarebbe un assurdo, ma di esso non ci dovrebbe, comunque, stupire. Già Cicerone affermava, infatti, ai suoi tempi, che non vi era nulla di così assurdo che un qualche filosofo non potesse sostenerlo. La regola è valida ancor oggi ed è estensibile anche ai giuristi.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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