
Ciò che abbiamo sempre creduto giusto e bello, il riconoscimento delle nostre identità, storia e cultura, è diventato una patologia psichica o un delitto. Il nazionalismo non è odio ma amore per la propria patria.Le burocrazie di organizzazioni internazionali ormai fuori dal tempo cercano con la polemica antinazionalista di impedire agli Stati di recuperare la loro sovranità. Cosa che i Paesi ex sottosviluppati hanno già fatto da decenni, grazie ai nazionalismi etnici. Il nazionalismo non è una perversione e la nazione non è una banda armata. Può sembrare superfluo ricordarlo, ma non è così. Ormai sulla maggior parte dei media si parla di nazionalismo come se fosse una patologia psichica e dei nazionalisti come gente da controllare e punire. Non per niente è stata istituita una Commissione politica (Segre) che ha tra i suoi compiti la sorveglianza del nazionalismo. Si tratta di un rovesciamento storico nella coscienza politica del Paese, con importanti ricadute di malessere psichico. La nazione infatti (per dirla rapidamente) rafforza l'identità individuale e collettiva, così come la sua messa al bando la indebolisce pericolosamente, fino a renderla «liquida», inconsistente.Tutti i grandi poeti italiani, da Alessandro Manzoni a Ugo Foscolo a Giacomo Leopardi a Giuseppe Ungaretti, hanno messo in rima e confermato il valore formativo del sentimento nazionale. Certo di tratta di un sentimento e un impegno non da poco. «Oh venturose e care e benedette / L'antiche età, che a morte / Per la patria correan le genti a squadre», scriveva nella Canzone all'Italia l'autore dell'Infinito. Che secondo l'attuale presidente della Repubblica era «insofferente ai confini», come è lui oggi; ma in realtà, come tutti i grandi dell'epoca, si batteva perché quei confini venissero appunto stabiliti e garantiti. Non per ideologie belliciste ma perché senza di essi non c'è né identità nazionale, né identità personale: l'«Io», come è chiamato nel linguaggio della psicologia (ma anche della filosofia, della religione, delle scienze umane). Senza confini non si definisce alcuna forma, né degli Stati né della personalità, e si cade in quello stato di confusione e deperimento che psichiatria e sociologia chiamano: «marasma». Quando l'anima del popolo non può incarnarsi in una nazione, lo spirito del popolo (di cui parlavano i padri dell'unità nazionale) rimane inespresso e la sua forza e potenzialità frustrate.Finito il fascismo, all'indomani della Resistenza, sui banchi di scuola ci avevano insegnato che era giusto e sensato amare la propria nazione, facendoci imparare a memoria i poeti, personaggi e fatti storici del Risogimento italiano, che noi non dimenticheremo più. Da allora però, sono cambiate molte cose. Una delle quali è appunto la sorprendente messa al bando (in particolare in Italia) della nazione, un interdetto che è tra le cause principali di quella «morte della patria» denunciata dallo storico Ernesto Galli della Loggia e che è al centro del nostro disagio contemporaneo. Piano piano, quasi senza che ce ne accorgessimo, ciò che avevamo creduto giusto e bello, il riconoscimento della nostra identità nazionale, della nostra storia e della nostra cultura è diventato una patologia/delitto, da sorvegliare attentamente. Questa nuova sensibilità censoria, con vistosi tratti di autoflagellazione nazionale, corrisponderebbe però - ci viene assicurato - all'attuale punto d'arrivo della civiltà: all'evoluzione della cultura, anzi dell'umanità. Ebbene: non è vero niente. La storia va avanti, ma da tutt'altra parte di dove che ci stanno raccontando.La verità è che la carta geografica del mondo è completamente cambiata: sono nati più di un centinaio di nuovi Stati, nella grande maggioranza dei casi espressione di nazioni etniche, culturali, religiose, che fino a non molto tempo fa erano ancora colonie e dipartimenti dei grandi Imperi, e sono stati liberati negli ultimi 70 anni appunto da nazionalismi etnici, determinati e coraggiosi. Molti di questi Paesi hanno ora economie fiorenti e dirigenti capaci, di cui i nostri media «di sistema» si guardano bene dal parlare. Oggi si sa bene che queste nazioni e popoli animano la nuova parte del mondo in forte sviluppo e proiettata nel futuro, mentre a rappresentare il passato sono piuttosto le grandi organizzazioni sovranazionali, dalle Nazioni Unite all'Unione Europea, che in questi storici cambiamenti hanno dimostrato tutta la loro pesantezza burocratica e lontananza dai popoli e dai territori che dovrebbero rappresentare e dalle loro aspirazioni ideali e spirituali.Anche da noi però la musica sta cambiando non certo grazie alle «sardine sott'odio» (copyright Francesco Borgonovo), e la burocrazia politica da noi tuttora pagata lo sa benissimo. La polemica antinazionalista appassionata dell'odio cerca così di confondere il nazionalismo, forma politica millenaria oggi in piena vitalità in tutto il mondo, con il nazionalsocialismo che è durato 15 anni con il fiatone della follia. I burocrati delle vecchie élite non si aspettavano che i sentimenti nazionalisti e antiglobalisti cambiassero oltre alla carta geografica del mondo ricco di risorse ma ancora «esotico», anche la guida del mondo più sviluppato, con l'arrivo di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti e di Boris Johnson a quella dell'Inghilterra: Brexit è stata la ribellione della nazione britannica alla visione burocratica e antidemocratica dell'Unione Europea. Le infiltrazioni di odio antisemita poi, denunciate anche da Tony Blair, erano tra i laburisti non tra i conservatori, e Johnson malgrado l'ostilità diffusa del vecchio establishment ha vinto anche grazie ai moltissimi giovani (anche fra i parlamentari laburisti) che gli hanno dato i loro voti e si sono personalmente impegnati nel rinnovamento conservatore portato avanti da Bojo.D'altra parte, la grancassa antiodio non può suonare marce contro il nazionalismo, anche perché il via alla liberazione post coloniale l'ha dato nel dopoguerra proprio il nazionalismo indiano, guidato da Gandhi con la «non violenza». Il fatto è che la forza del nazionalismo nei secoli non è ovviamente l'odio (non si vince mai con i sentimenti distruttivi, come ha mostrato anche l'hitlerismo), ma l'amore per la propria patria, immagine della madre, come spiegava nei suoi lavori sulla guerra lo psicoanalista pacifista Franco Fornari. Certo che se ami la patria poi la devi anche difendere, e ciò ha sempre dato fastidio a un sacco di gente, tra cui in ogni epoca i mercanti di schiavi, interessati da secoli al libero imbarco e sbarco (oltre che della droga) della loro mercanzia umana, ridotta a merce. L' interesse dei mercanti però non c'entra con pace e l'amore, ma con i soldi e il potere.Per capire cosa è il nazionalismo vale allora la pena di dare un'occhiata (più che agli articoli delle firme antiodio) ai dizionari più accreditati delle democrazie collaudate da tempo. In Inghilterra il Cambridge definisce nazionalismo «il desiderio e l'impegno di realizzare e mantenere l'indipendenza politica del proprio paese o nazione». In Francia il Larousse chiama nazionalismo il «movimento politico di individui consapevoli di formare una comunità nazionale per i legami (lingua, cultura) che li uniscono. Il nazionalismo ha spinto i popoli a formare Stati sovrani, o a rivendicare la loro indipendenza». Di odio non si parla proprio. Che tutto questo baccano sia un modo per non lasciarci recuperare la nostra sovranità perduta (come ha fatto già da anni l'ex «terzo mondo»)?
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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